giovedì 19 aprile 2012

Boccadirosa, soggetto politico

di Andrea Bagni

Viviamo un tempo strano, almeno in certi luoghi di lavoro. Una specie di tempo sospeso, insieme di rassegnazione e di rabbia. Un po’ di attesa, un po’ di urgenza. C’è chi aspetta di andare in pensione, e aspetta aspetta. Gli insegnanti vengono a scuola con il trolley al posto della vecchia cartella, forse in previsione della flebo o dell’ossigeno da tirarsi dietro a settant’anni. Intanto ragazzi e ragazze ti circondano sempre della stessa età, contagiosi, e non capisci bene se stai crescendo senza invecchiare oppure invecchiando senza crescere… Il precariato e il sentirsi soprannumerari sembrano diventare la cifra dell’esistenza, però paralizzano molto più che mobilitare, come accade spesso con le passioni tristi. La stagione della pornocrazia berlusconiana ha lasciato il segno. Il palazzo, così sensibile alle figlie (a quelle belle), si è allontanato talmente dalla società che nessuna mobilitazione è più sembrata all’altezza del baratro, dotata di una qualche speranza di successo. E senza speranza non c’è conflitto, tutt’al più testimonianza. Anche ragazze e ragazzi per certi versi si mobilitano quasi come rito interno di socializzazione, per sentire di esistere, di esserci in qualche modo. Ma lo spazio quotidiano della loro vita sembra lo considerino quasi perduto per le trasformazioni. Impossibile che cambi qualcosa nel contenitore istituzionale, meglio salvare se stessi almeno fuori. Per quell’altro tempo mi sembrano preservare le loro anime. La scuola per loro finisce per essere una megamacchina di voti – per quanto a volte capitino cose belle, perché la vita e le relazioni umane sanno trovare spazi inusitati di sapere, nel labirinto di sogni o incubi.
Resta il fatto che questo tempo sospeso, tempo tecnico , non è solo un deserto di solitudini. Ogni tanto si vede chiaro il tentativo diffuso nella società di resistere spostandosi dalla rappresentazione dominante, da questa arroganza dei Professori, che mirano soprattutto ai simboli , a riscrivere la costituzione del paese per produrre l’immagine che piace ai mercati: quella di un potere disciplinante in un universo sociale disciplinato, rassegnato alla naturalità dell’economia. Non ci sono alternative, non avrai altro dio che quello che detta i comandamenti necessari per competere sul mercato.
E però nella primavera scorsa il pubblico ha riempito la scena e preso la parola. Una società civile che parte da se stessa, fa da sola, sfrutta tutti i varchi per far sentire la sua voce. Crea luoghi pubblici, rivendica beni che sono relazioni, da sottrarre alla colonizzazione delle istituzioni e delle merci. Non è vero per niente che questo neghi il conflitto sociale: lo vive allargato, come questione di democrazia, diritti, dignità e progetto di vita personale. La società civile non è il tutto indistinto del pensiero liberale, somma di soggetti privati o luogo irenico dell’armonia. Riflette la cultura del potere. La produce anche. Parlare di beni comuni è immediatamente aprire pratiche di conflitto con chi riduce tutto a merce e al calcolo costi-benefici. Perché per adesso chi davvero è uscito dal novecento è il neoliberismo, che ha aperto una sua fase costituente: la radicale separazione del capitale dalle mediazioni con il lavoro, tornato merce manipolabile a piacere. Non si salverà la sinistra se non si colloca a questa altezza, se non riparte da una società non solo civile, ma politica e costituente. Se non ci si misura con l’individualizzazione della società postfordista, miserabile e precarizzata, per proporre un’altra grammatica della sfera politica. Che intrecci di nuovo vita personale e dimensione collettiva. Non c’è libertà fuori da una relazione. C’è la solitudine. La paura che genera mostri e Padri onnipotenti cui affidarsi. Salvatori della Patria.
Il “manifesto per un soggetto politico nuovo” pubblicato il 28 marzo (http://www.soggettopoliticonuovo.it), a me pare si rivolga a questa società politica, orfana di rappresentanza politica. La stessa che si è ritrovata intorno alla Fiom di Landini in questi ultimi anni. Per provare a costruire forme di relazione e organizzazione che permettano di passare dalla vitalità che insorge creativamente, alla creatività della vita quotidiana organizzata. Non è più immaginabile, mi sembra, la militanza di un tempo che prevedeva il sacrificio di oggi per andare al potere domani e cambiare il mondo dopodomani. Dall’alto, dopo essersi “fatti stato”. Le ragazze e i ragazzi che conosco non mi pare abbiano idea di questo futuro delle magnifiche sorti e progressive, del sole dell’avvenire. E lo stato lo vedono all’opera a Genova, in cinema pieni di ragazze e ragazzi: Non pulite questo sangue . Qualcosa deve succedere qui e ora, prevedere la creatività personale, la costruzione di relazioni decenti che siano già un altro mondo, altra economia e orizzonte della vita.
Chiaro che c’è da inventare un mare di roba, perché non si tratta di essere opinione pubblica che fa pressione sui partiti o movimento evanescente, ma corpo intermedio nuovo – e davvero senza cancellare i corpi: di donne e uomini, con il loro immaginario e la loro parzialità. Peraltro non avrebbe molto senso una democrazia della mobilitazione permanente: i tempi della vita di donne e uomini, ragazze e ragazzi non sono quelli di una militanza totalizzante, a tempo pieno. Il tentativo è di stare nel posto che la Costituzione assegna ai partiti inventando una organizzazione diversa dalla vecchia forma partito, e non per “sputare” su qualcosa o qualcuno ma perché quel modello costruito a somiglianza dello stato da conquistare non funziona. È cambiata la società ed è cambiato lo stato: le decisioni passano da un’altra parte e le mobilitazioni pure, i partiti prendono voti (pochi) connettendo un deserto a un vuoto. Si può ripartire dalla polis, ma per ricostruire lo spazio (in tutta Europa) della politica.
C’è molto da inventare ma potrebbe essere appassionante. E sarebbe costruire a partire dal luogo dove siamo e viviamo. Così come si dovrebbe fare forse nelle scuole: dare voce pubblica a quello che si vive dentro. Fare della democrazia del lavoro non una questione sindacale ma quasi esistenziale, di cittadinanza e dignità personale. Senza liberare territori e abitarli in forme felici, cioè politiche, non ci sono barricate possibili. Non si resiste senza creare.
Il nome del soggetto nuovo andrebbe ispirato a una delle donne di Faber. C’è chi la politica la fa per noia, chi se la sceglie per professione; Boccadirosa né l’uno né l’altro, lei lo faceva per passione.

(www.ecolenet.it)