di COLLETTIVO UNINOMADE
La natura a suo modo costituente dell’azione del capitale finanziario si sta dispiegando completamente: in quanto sussume industria, servizi e lavoro sociale in generale, dà ormai prova di essere immediatamente politica. Perciò esso esercita una governance finanziaria sulla nuova composizione sociale del lavoro e trasforma quindi i governi in organi di esecuzione del suo comando diretto. L’attacco a quanto rimaneva, sul terreno del welfare, delle conquiste strappate dalle lotte dei decenni precedenti, è ora presentato esplicitamente, senza neppure più nascondersi dietro le retoriche del galateo costituzionale, come comando dei mercati finanziari, al quale non resta altro che adeguarsi.
In questa situazione, il primo cadavere lasciato sul campo è, ovviamente, qualsiasi richiamo al metodo concertativo, ancora in piedi solo nei sogni, sempre più nostalgici, di qualche settore della socialdemocrazia europea, che ancora prova a richiamarsi a un “modello tedesco” già abbondantemente in crisi nella stessa Germania. Il tentativo di sperimentare una via d’uscita liberista dalla crisi del neoliberalismo richiede in tutta evidenza l’archiviazione dei riti della mediazione, chiude gli spazi del compromesso, va imposto ai recalcitranti non senza far mostra di un’adeguata dote di cinismo “professorale”.
È in questo quadro europeo che il governo Monti prova a dettare la riforma del mercato del lavoro. L’attacco all’art. 18 e l’ulteriore riduzione degli ammortizzatori sociali acquistano perciò una portata tutta politica, davanti alla quale le difficoltà del sindacato appaiono evidenti. La FIOM da tempo si presenta come ultimo baluardo della “difesa del lavoro”, ma qui è ora tutta la CGIL a essere consapevole che non reagire in qualche modo potrebbe significare rischiare grosso. Non ci sono letteralmente spazi per retrocedere: se non fosse stato già abbastanza chiaro, lo hanno spiegato a voce alta i blocchi stradali, gli scioperi spontanei, le mobilitazioni che hanno coinvolto i lavoratori ben al di là delle stesse appartenenze sindacali. “In difesa dell’art. 18”, si è detto e scritto: ma non ci vuole molto a vedere che, al di là dello stesso diritto al reintegro, quella che si è animata è una spontanea, istintiva difesa della vita intera, una resistenza generale al ricatto dell’austerità e dell’indebitamento. “Non un passo indietro”, questo semplicemente hanno detto – e imposto di fare al sindacato – quei lavoratori.
Non c’è nessun dubbio che nella FIOM in primo luogo, nella sua composizione operaia, ma probabilmente non solo nella FIOM, esiste in questa fase disponibilità e generosità militante, un’istintiva capacità di avvertire la necessità della resistenza. Ma proprio per questo, è necessario vedere con lucidità il problema fondamentale. C’è la possibilità, davvero, e fuor di retorica, di passare dalle “aperture” a forme di reddito di cittadinanza, a fare del reddito incondizionato e universale la priorità programmatica centrale, e ad assumerlo come dispositivo di ricomposizione delle lotte, come strumento per la riappropriazione di tutto quanto la rendita finanziaria espropria, come cardine di un nuovo welfare che liberi le vite dal ricatto dei dispositivi di indebitamento?
È chiara, e va esplicitata con estrema decisione, l’alternativa che oggi tutto il sindacato ha davanti. Può limitarsi ad assumere la battaglia sull’art. 18 come sua ultima linea di difesa. E con ciò si consegnerebbe al rapido esaurirsi della sua stessa ragione sociale. Quella trincea è infatti la trincea del vecchio modello lavorista, totalmente spiazzata dalle trasformazioni postfordiste, già saltata dalla socializzazione integrale dell’attività produttiva, dalla coincidenza di produzione e vita, incapace di per sé di funzionare da ricomposizione dell’eterogeneità costitutiva del lavoro vivo. Oppure il sindacato si decide a comprendere una buona volta, seppure in gravissimo ritardo, che l’unico terreno possibile di attacco è quello dell’affermazione della ricchezza produttiva dell’intera cooperazione sociale, della costruzione di un welfare del comune, delle garanzie di reddito universale e incondizionato, del pieno accesso libero e gratuito ai servizi, della liberazione dal ricatto debitorio in nome del diritto all’insolvenza.
Davanti a un attacco che riguarda tutta la produzione sociale, non è infatti possibile limitarsi alla difesa delle garanzie elaboratore all’interno della tradizionale produzione fordista. Chi vuole difendere il lavoro, oggi, non può che difendere l’intera produzione sociale. Se oggi l’impresa si estende ben oltre i suoi tradizionali confini, sempre meno organizzando i mezzi di produzione e sempre più catturando il valore prodotto dall’intera cooperazione sociale, dalla forza e dalla ricchezza dell’intelligenza della società intera, è lì, in tutta la società, che va impiantata la resistenza. La difesa del “lavoro”, se non si radica nella difesa di tutta la produzione sociale, se non sa connettere le lotte per il salario “all’interno” dell’impresa con le lotte di tutte le soggettività sociali “fuori” dall’impresa, è del resto, oggi, letteralmente incomprensibile. Un esempio clamoroso di questa impossibilità lo hanno offerto, loro malgrado, certi goffi “laburisti” della sedicente “sinistra” del PD, quando hanno dovuto spiegare il loro improvviso rifiuto di partecipare alla manifestazione nazionale FIOM contro la riforma del mercato del lavoro, manifestazione di cui pur dicevano di condividere gli obiettivi, per non dover condividere la piazza con le delegazioni NO TAV. Le loro spiegazioni sono apparse, letteralmente, incomprensibili: e non tanto per la goffaggine politica che pure vi traspariva, quanto per il fatto che la connessione delle lotte sul lavoro e sul salario con quelle per l’autogoverno dei territori e per l’autogestione dei beni comuni appare oramai a tutti evidente, immediata. Il “fuori” e il “dentro” dell’impresa si connettono all’interno di lotte che animano l’intera vita della cooperazione sociale.
Diventa allora perfettamente inutile, e perdente, immaginare il sindacato come lo strumento di difesa delle relazioni salariali tradizionali, quando lo stesso “lavoro” coincide con la produzione sociale nel senso più ampio. Il corporativismo comincia oggi ad essere un non-senso: è come pura mistificazione che la Fornero vuole organizzarlo, è con assodato rigore repressivo che il sindacato alla tedesca ne esemplifica il funzionamento. Di contro, quando l’impresa diventa sociale, anche il sindacato deve diventare sociale e aprirsi alla politica, alla società intera. Il rapporto salariale ridiventa un dispositivo costituente in una società welfarizzata, dove solo un’efficace redistribuzione dei redditi ed una forzosa riappropriazione delle rendite potranno garantire condizioni generali di maggior libertà ed eguaglianza, di andare cioè oltre il neoliberalismo. Il salario più che mai diviene un elemento di contrattazione sociale, la lotta sul salario sempre di più assume caratteri politici. Se vogliamo ritrovare schemi di lotta efficace, è evidente che occorrerà ricollegare la lotta economica e la lotta politica in misura almeno eguale, auspicabilmente più estesa, di quanto fatto dai capitalisti. Senza temere di essere, su questo terreno, chiamati riformisti.
Lo abbiamo già detto in modo chiaro, intervenendo a caldo dal nostro sito nei giorni della pseudo-trattativa tra il governo e le parti sociali, o, bisognerebbe dire più francamente, tra il governo e quelle “parti” che esso stesso si è scelto, tenendo ancora una volta fuori da ogni “tavolo” tutto il lavoro precario, tutte le figure che restano completamente estranee alle rappresentanze tradizionali sempre più svuotate di senso: attestarsi su una semplice linea “difensiva” del welfare tradizionale avrebbe portato solo alla sconfitta, non avendo più quel modello nessuna capacità di reggere davanti alle trasformazioni produttive. Ma FIOM e CGIL sembrano incapaci di immaginare qualsiasi orizzonte ulteriore: il risultato è che tutta la battaglia si è giocata sull’art. 18, e semmai sulla promessa della famigerata “paccata” di soldi per gli “ammortizzatori” sociali. Ma la costruzione di un welfare del comune non ha nulla a che fare con la logica degli “ammortizzatori”, ma con la costruzione di livelli di reddito quantomeno decenti, di accesso ai servizi, di spazi di autogoverno, come i movimenti per i beni comuni chiedono e diversi esperimenti di autogestione in atto stanno sperimentando. Di conseguenza, ora la lotta da assumere come centrale dovrebbe essere – e i movimenti precari cominciano a sottolinearlo con intelligenza – più ancora che quella sull’art. 18, quella su quello sconcio di “assicurazione” che è l’Aspi, che certifica come meglio non si saprebbe la generalizzazione della precarietà, come dispositivo di controllo e di condizionamento delle vite, all’intera forza lavoro.
Un programma preciso quindi: reddito incondizionato, welfare universale, lotta per la riappropriazione effettiva, oltre il pubblico e il privato, dei servizi e dei bei comuni. E, insieme al programma, un salto organizzativo necessario subito, che innesti il sindacato immediatamente sul terreno politico, lì dove nessuna separazione tra azione politica e azione sindacale può più darsi. Da molti anni ci chiediamo se esistono le condizioni per costruire delle “camere del lavoro e del non-lavoro” (metropolitane, sociali, ricompositive della rete della produzione diffusa). Sembra un discorso bizzarro. Eppure sono anni che, dal punto di vista capitalista (e dei sindacati padronali), si ragiona sui bacini territoriali del lavoro e sulla necessità di strutturali in maniera adeguata – non si dà produttività, dal punto di vista del capitale, se non si riesce ad organizzare le coordinate sociali, produttive, occupazionali, ecc., di territori omogenei (o da omogeneizzare). Occupy e gli indignados, in genere ben lontani da una cultura operaista, cominciano ad elaborare progetti di resistenza di questo genere – perché è solo su terreni così ricomposti che oggi si dà resistenza. Essi si propongono la ricomposizione di lotte operaie, di lotte per l’abitazione, per la scuola, per la salute, intervengono sulla gestione di scuole e di strutture sanitarie in generale, conducono esperimenti di riorganizzazione del mercato del lavoro, ecc.. Non è detto che ciò abbia costruito nuove istituzioni e non è detto che ne costruirà. Ma si tratta di un’indicazione estremamente importante: una sperimentazione complessiva di rivolta contro i dispositivi parassitari dell’accumulazione finanziaria e di liberazione delle potenzialità costituenti della cooperazione sociale, che può veder convergere, da subito, la forza operaia con quella cognitiva e precaria, generando davvero una inedita composizione politica di classe. Non che non sussistano differenze e difficoltà, sarebbe irresponsabile non vederlo: ma la forza di questo programma comune, radicato nell’intera ricchezza della cooperazione sociale, e la creazione di organizzazioni altrettanto comuni, che superino la logica, dimostratasi quantomeno insufficiente, delle semplici “alleanze”, può vincere le tristi tentazioni corporative. Ed è di certo possibile rivolgersi con queste questioni anche ai militanti dei centri sociali, dei movimenti studenteschi ed in genere ai gruppi autonomi di intervento politico, per costruire uno stile di militanza che voglia generalizzare il reddito di base, diretto e indiretto, soldi e autogoverno dei beni comuni, in tutti gli scomparti del lavoro sociale.
E bisogna rivolgersi con questo stile di militanza e con questa precisione programmatica sia a quanti nel sindacato siano eventualmente ancora in grado di ascoltare, sia ai percorsi organizzati all’interno della composizione precaria, ma a tutti con estrema velocità. Perché il prossimo attacco (sempre al grido “i mercati finanziari lo vogliono!”), il bersaglio grosso, già si profila all’orizzonte, non ci vuole molto a indovinare che a subirlo saranno i comparti del pubblico impiego e più in generale il lavoro nei servizi collettivi e di welfare. E lì ancora la difesa sarà ardua, se non impossibile, se non si sarà stati capaci nel frattempo, di organizzare quelle reti della produzione sociale, quelle alleanze di utenti e lavoratori, che trasformino la difesa in progetti per la riappropriazione del “pubblico” stesso e per la sua trasformazione in autogestione dei servizi. Perché come oggi non serve trincerarsi dietro l’art. 18, o difendere l’antica Costituzione “fondata sul lavoro”, domani sarà sconfitta sicura attestarsi sulla difesa del “pubblico” o peggio ancora dello “statuale”: vincerà chi, nella lotta, saprà trasformare il pubblico in comune, così come oggi resiste e vince solo chi non si limita a difendere settorialmente e corporativisticamente il buon vecchio lavoro, ma sa affermare, oltre il ricatto e lo sfruttamento, l’autonomia e la forza della cooperazione sociale tutta intera.