da (s)Connessioni Precarie
1. I precari hanno una lunga storia di lotte, non di riconoscimenti giuridici. Ci piace quindi proporre come riferimento storico il Cartismo in luogo della Magna Charta. Quest’ultima è stata in definitiva ottenuta dai baroni che volevano vedere riconosciuto il loro diritto di ceto e, soprattutto, grazie a questo riconoscimento legittimavano il monarca nella sua posizione. L’habeas corpus è stato sospeso in Inghilterra così tante volte (di fronte a insurrezioni, riot, ribellioni varie) da non essere una grande garanzia politica. Il cartismo per oltre vent’anni (tra il 1830 e il 1850) lotta costantemente per il riconoscimento dei diritti politici e sociali degli operai inglesi. La Carta per i cartisti è un insieme di rivendicazioni in termini di diritti e allo stesso tempo la manifestazione del loro potere sociale (un potere che ai tempi della Magna Charta non c’era, e d’altra parte in senso stretto non c’era nemmeno la società). Il fatidico 7 aprile 1848 i cartisti dichiararono che avrebbero presentato una petizione al parlamento con due milioni di firme (mentivano un po’ sui numeri, ma chi non lo fa…). Non andò bene. Ma tutti i funzionari pubblici andarono al lavoro armati per difendere la monarchia dal loro assalto. Londra non ha mai avuto tanta paura del suo proletariato. A questo punto, consapevoli dei limiti politici della loro People’s Charter, essi coniarono lo slogan: la carta e qualcosa di più. A Marx piaceva e noi abbiamo una vena di nostalgia. Sarebbe simpatico che i precari lo riformulassero a modo loro: i diritti e qualcosa di più…
2. I precari non hanno una visione progressiva dei lavori. Parlare dell’incremento del lavoro cognitivo a scapito di quello manuale rischia di riprodurre la distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale che si vorrebbe invece superata. I diversi e contemporanei tempi del capitalismo non relegano il lavoro manuale a un passato destinato a scomparire, oppure in luoghi del mondo che possano essere cancellati dal discorso sulla precarietà. Qui e ora i lavoratori cognitivi siedono tutti i giorni in uffici o università che qualcuno pulisce; usano computer o I-pad prodotti da altri precari; qui e ora o da qualche altra parte del mondo. Leggono libri che altri precari spediscono dai grandi magazzini (in giro per il mondo e anche nel bel paese) di Amazon. Se le fabbriche del nord sono in crisi, la fabbrica verde del sud d’Italia prospera grazie alla precarietà dei migranti. Le lotte precarie devono saper cogliere questa contemporaneità di forme e farne un elemento di forza. Assumere la dimensione globale della precarietà significa non pretendere di individuare un punto più avanzato del capitalismo, ma cogliere la complessità che produce la precarietà stessa.
3. La precarietà è un rapporto di potere. La precarietà è una questione di classe. Ciò non significa che la precarietà produca una composizione sociale omogenea o si riconosca in una qualche etica del lavoro. Ciò non era particolarmente vero nemmeno durante il fordismo. Non era vero né dentro né fuori la fabbrica. Significa invece che i precari sono una parte della società – quella sfruttata – che vuole mettere fine al proprio sfruttamento. Il punto non è quindi stabilire quali siano i precari con maggiore coscienza della propria condizione, ma quali sono i modi per accumulare la forza sufficiente per rompere i confini della precarietà in quanto sistema gerarchico di coazione al lavoro. La precarietà è la condizione individuale e individualizzata di una massa enorme di individui. Questo è il nostro punto di partenza.
4. La precarietà non è un effetto giuridico. La proliferazione delle figure contrattuali è stata una leva della precarizzazione perché ha diviso e frammentato, moltiplicando le leve del ricatto. Ma la precarietà si alimenta di molte altre differenze. La precarietà, per quanto comune a tutti i lavoratori e le lavoratrici, è una condizione che divide. La produzione di profitto oggi impone un’organizzazione che è fatta, al tempo stesso, di una sconnessione e di una connessione delle figure del lavoro: il lavoro è sempre più frammentato, solcato da differenze e gerarchie che sono contrattuali, sessuali, razziali, di cittadinanza. Ma il lavoro è anche uniformemente posto sotto il comando capitalistico, per quanto questo sia apparentemente sempre meno accentrato e sempre più diffuso, mediato dalle più varie forme di reclutamento, gestione più o meno istituzionalizzata della forza lavoro.
5. Precario ricorda che sei migrante. Il lavoro migrante è una forma paradigmatica di precarietà. La mobilità – da un luogo a un altro, attraverso i confini, da un lavoro all’altro – è un elemento importante e che riguarda tutto il lavoro. Essa è un elemento essenziale della crisi di ogni rappresentanza categoriale del lavoro, come pure una risorsa – anche se in molti casi obbligata – per sottrarsi allo sfruttamento. Una risorsa che peraltro la precarietà del permesso di soggiorno ostacola. Ciò che rende i migranti ricattabili è il razzismo istituzionale: la Bossi-Fini in Italia, e ovunque il legame tra le politiche migratorie e la gestione del mercato del lavoro. A partire da qui è possibile far valere la specificità dei migranti per individuare un terreno comune, contro una leva della precarizzazione, contro la ricattabilità che tutti i precari e le precarie riconoscono come condizione di cui fanno esperienza.
6. Precaria ricorda che sei donna. La divisione sessuale del lavoro vive nel mondo globale e si dispiega su scala transnazionale, agisce sulle donne come ricatto che impone l’accettazione di condizioni lavorative sempre peggiori. La precarietà si gioca anche sulla riduzione dei costi sociali di produzione e riproduzione, e le donne come «prestatrici di servizi riproduttivi» sono un tassello fondamentale di questo processo. La badante è la figura istituzionale dell’individualizzazione del fardello riproduttivo: questo si gestisce attraverso un rapporto di lavoro privato, servizio in cambio di salario. La femminilizzazione del lavoro non riconosce alcuna qualità specificamente femminile, ma è una modalità di messa al lavoro e di sfruttamento di tutti i precari e ancor più delle donne. Nel privato le donne pagano – spesso con il proprio salario – altre donne perché svolgano il lavoro domestico e di cura; nel pubblico, il welfare» che ancora sopravvive fornisce contributi monetari perché si paghi – ancora privatamente – lavoro domestico e di cura. Le donne non sono solo un segmento del lavoro tra gli altri, ma occupano una posizione che permette di mostrare i modi specifici attraverso i quali la precarietà diventa la forma contemporanea di tutto il lavoro.
7. Precario ricorda che non sei rappresentabile. La condizione dei precari è il sintomo più evidente della crisi della cittadinanza. La precarietà, infatti, rende impossibile godere di tutti quei diritti che sulla carta sono universalmente riconosciuti. I precari non sono rappresentabili come cittadini da Stati che negano quotidianamente i contenuti materiali della cittadinanza. La molteplicità delle forme della precarietà mette in crisi la rappresentanza sindacale. L’organizzazione in categorie sempre più fa acqua in un’era segnata dalla mobilità: da un lavoro a un altro, da una parte all’altra del globo. I precari sanno però che possono scioperare. Non perché convocati da qualcuno, ma perché il loro sciopero blocca i flussi della produzione capitalistica. I precari sanno quanto è difficile scioperare perché il ricatto della precarietà vorrebbe incatenarli al posto di lavoro e alla costante disponibilità al lavoro. I precari e le precarie sono nella condizione di chi sa di non avere dei diritti. Proprio per questo riconoscono l’urgenza di uno sciopero che mostri la loro capacità di incidere dolorosamente sui profitti. Lo sciopero è per i precari l’affermazione del diritto ad avere dei diritti.
8. Non esiste un’avanguardia precaria. I precari hanno situazioni individuali, aspettative, paure che li legano alla loro precarietà anziché spingerli contro di essa (o forse, nel momento stesso in cui producono rabbia li incatenano). La precarietà è esistenziale perché si configura come eterno presente, come l’impossibilità di progettare, perché fa leva sull’investimento individuale nel lavoro per legare e rendere impotenti e sulla paura di perdere quel che si ha… Non è vero che i precari non hanno niente da perdere: hanno talmente poco che spesso difenderlo è più importante che non metterlo a rischio per ottenere qualcosa di più. Non è vero che i precari non capiscano che dovrebbero combattere… E’ necessario costruire uno spazio non precario contro la precarietà, uno spazio nel quale poter combattere, uno spazio di protagonismo fuori dalla rappresentanza e di presa di parola che si fa carico di tutti i limiti, le divisioni e le fratture di cui la precarietà si alimenta: le gerarchie di cittadinanza, la differenza sessuale, le differenze generazionali o anche quelle contrattuali.
9. Precari sono il salario e il reddito. I precari pretendono un reddito incondizionato e individuale. Sanno che non si tratta di un diritto che uno Stato possa riconoscere loro. Sanno che non sarà la concessione di un ministro. Il reddito non è la soluzione della condizione precaria. Il reddito è la posta in palio nella lotta contro l’assoggettamento alla miseria del salario. La valenza politica del reddito incondizionato e individuale è quella di affermare che non tutto il salario è il frutto di un contratto (indeterminato o determinato o unico che sia, con o senza la protezione dell’articolo 18), ovvero che esiste una forza capace di imporre una quota sociale di salario indipendente dal rapporto di lavoro. Il reddito deve intervenire contro le mille e oppressive forme del salario per dimostrare che non tutto il tempo può essere remunerato in quanto lavoro. Il reddito incondizionato e individuale si colloca dentro alla lotta contro un welfare che è già precario sia per i servizi che offre sia perché viene prodotto attraverso un lavoro sempre più precarizzato. Il reddito incondizionato e individuale non sostituisce i servizi mancanti, ma rivendica la necessità di quei servizi. Il rapporto politico di potere nell’epoca della precarietà impone l’estensione della disponibilità al lavoro perché il salario, quando c’è, praticamente non è mai sufficiente. In questa situazione il reddito non è la forma contemporanea del salario, ma un mezzo per rovesciare quel rapporto di potere.
10. Appropriazione precaria. Non si può pensare di risolvere sul piano della legge, del diritto o dei diritti, un rapporto di forza che viene sempre e comunque sistematizzato proprio nella legge, nel diritto e nei diritti. La precarietà è sintomo e causa della crisi del diritto quale forma universale di mediazione sociale. Nulla di ciò che i precari pretendono di conquistare sarà concesso dal governo o dai precarizzatori senza l’accumulazione di potere necessaria a rovesciare il rapporto di forza tra precarietà e profitto. Si tratta di produrre le condizioni per una nuova e diversa appropriazione del mondo. Non solo delle cose che vogliamo avere in comune, ma soprattutto di quelle che non abbiamo perché sono attualmente prodotte come servizi in vista del profitto, come beni prodotti collettivamente ma appropriati privatamente. La nuova appropriazione contro la precarietà ridefinisce i confini che impediscono i movimenti delle persone, che impongono zone di sfruttamento intensivo, che fanno della precarietà un fatto sociale globale. Si tratta di portare alla luce il legame globale tra le figure della precarietà, di pensare a partire da qui possibilità di lotta che sappiano realmente colpire dove fa più male, dove si produce e riproduce il capitale. Una nuova appropriazione non è una forma più equa di welfare, e nemmeno una distribuzione più equilibrata. La precarietà è una condizione irrisarcibile.
* contributo di (s)Connessioni Precarie e del Coordinamento migranti Bologna e provincia al workshop su reddito e rivendicazioni degli Stati Generali 4.0