Esecutivo COBAS
Le ragioni e le fonti della crisi
La crisi che dal 2008 sta impoverendo i salariati, i settori popolari e vasti strati di ceti medi in Italia, Europa, Stati Uniti e paesi sviluppati è un profondissimo sconvolgimento dell’intero capitalismo occidentale, che sta perdendo la sua egemonia universale e la possibilità indisturbata di saccheggiare le ricchezze del restante mondo senza ostacoli. L’ultimo decennio ha visto un processo di autonomizzazione, di recupero delle proprie ricchezze e della gestione del capitale “pubblico” statale da parte di un numero rilevante di paesi, e la crescita poderosa di nuove economie che, oltre a produrre a buon mercato, hanno sfondato anche il muro della qualità nelle produzioni più innovative. Il tentativo Usa di fermare questo processo con la guerra è fallito: oggi gli Usa non controllano realmente né l’Iraq, né l’Afghanistan, né hanno potuto fermare con la forza l’autonomia di gran parte dell’America Latina.
A tale riduzione di spazi per il capitalismo occidentale, si è accompagnata una crisi da sovrapproduzione, a partire dalla rivoluzione informatica e dalle sue conseguenze sull’automazione e sull’organizzazione del lavoro (si produce molto di più in meno tempo e con meno forza-lavoro, con il conseguente indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori), con un enorme aumento della capacità produttiva ma anche della disoccupazione tecnologica e della precarizzazione del lavoro. La produttività del lavoro è cresciuta molto più dei salari, provocando una crisi da carenza di domanda. L’eccesso di capacità produttiva ha spinto il capitale a cercare nuovi settori da mercificare nei servizi pubblici e nei beni comuni, a partire da istruzione, sanità, previdenza, acqua, trasporti, energia, smantellandone il carattere pubblico e qualificato per gettarli sul mercato: ma la mercificazione, provocando il taglio del salario sociale, ha inasprito la crisi di sovrapproduzione.
I due fattori hanno spinto i singoli capitalismi nazionali (di Stato e privati), per mantenere un livello di profitti adeguato, a tagliare pesantemente quella parte di ricchezza che nei momenti migliori del welfare era stata assegnata ai salariati per mantenerne il controllo e limitarne la conflittualità. E, al fine di evitare una vistosa riduzione dei consumi con effetti depressivi sulle produzioni, nonché la ri-partenza di cicli di lotta sociale intensa, il capitalismo occidentale si è affidato all’espansione del debito - soprattutto privato negli USA, soprattutto pubblico in Europa - estendendo a dismisura il ruolo del capitale finanziario con la creazione di una gigantesca bolla cartacea, che ha potenziato le grandi lobbies private transnazionali e modificato gli obiettivi delle grandi imprese che al tradizionale profitto industriale hanno affiancato la massimizzazione del valore di mercato dei titoli, subordinando sovente la logica produttiva a quella della speculazione finanziaria. Per cui, alla ricchezza virtuale non ha corrisposto un aumento di quella reale: e poiché alla fine il capitalismo deve pur sempre affidarsi a beni reali, prodotti e consumati da persone del mondo reale, l’impalcatura di immondizia finanziaria è crollata.
Così, anche le convergenze tra i capitali di Stato e privati dell’Occidente e in particolare delle nazioni europee, che avevano fatto credere che dalla unione monetaria si arrivasse ad una Europa unificata sul piano politico e economico, sono venute meno e ognuno si è impegnato a difendere gli interessi dei capitali nazionali, in un quadro di riduzione generale della “torta” a disposizione dell’Occidente rispetto a quei paesi emergenti che hanno migliorato le proprie condizioni, mantenendo costante la crescita economica e la diffusione di un certo benessere tra le classi medio-basse. Gli esperti convengono che gran parte di questi paesi è cresciuta grazie al ruolo centrale del capitale statale, con un neo-keynesismo, che, garantendo adeguati tassi di profitto ai capitali privati, ha anche distribuito reddito e servizi sociali a settori di popolazione significativi, allargando il mercato interno e limitando la dipendenza dalle esportazioni e dagli effetti della crisi occidentale.
La crisi in Europa e lo scontro tra Stati
Il risultato finale di questo processo è sotto i nostri occhi: la riduzione del “bottino” occidentale complessivo, non compensata più dal mega-bluff finanziario, ha fatto esplodere il conflitto su chi debba pagare tale riduzione. In prima battuta gli Stati europei ed gli USA hanno deciso che fossero i settori popolari a pagare e che banche, gruppi finanziari, grandi industrie e borghesie di Stato e private dovessero essere salvati. Ma dentro la scelta unanime il conflitto inter-capitalistico tra Stati è sempre più profondo, e smentisce una certa vulgata (diffusa fin dal primo periodo no-global e poi ridimensionata dalle esplosioni di guerra dell’ultimo decennio) che considera gli Stati, persino quelli più potenti, come cani morti, senza potere, in piena balia dei “mercati” (ossia del capitale finanziario internazionale) o di organi transnazionali come il WTO, il FMI, la Banca Mondiale, istituzioni peraltro composte da funzionari dei principali Stati capitalistici, lì collocati dai rispettivi governi per attaccare l’asino dove vogliono gli Stati committenti. La stessa BCE - che alcuni considerano un moloch indipendente dai principali Stati europei, mentre in tutta evidenza i suoi funzionari vi sono stati collocati rispettando una rigida alchimia (un manuale Cencelli internazionale) di rapporti di forza tra Stati – non può fare alcuna mossa che non sia approvata dai più forti paesi europei e dalla Germania in primo luogo, a partire da quel fondo “salva-Stati” che resta risicatissimo perché la Germania non è disposta a tirare fuori di più.
Figlia di un’analoga pessima lettura dell’attuale crisi capitalista è anche la teoria del “governo unico delle banche”, che richiama alla mente quell’altrettanto irreale “governo unico delle multinazionali” che per tanti nostri amici no-global, prima della guerra all’Afghanistan e all’Iraq, sarebbe andato cancellando i poteri degli Stati e dei governi, costruendo un surreale Impero pacificato che avrebbe posto fine a guerre e conflitti interstatali. La competizione/scontro tra le imprese bancarie e finanziarie private degli Stati capitalistici è altrettanto aspra di quella tra le industre e l’idea di una concertazione mondiale tra di esse, che esautorerebbe gli Stati, non ha fondamento: ogni Stato vuole salvare innanzitutto le proprie banche e gruppi finanziari, a dispetto delle interconnessioni che pure esistono tra di essi a livello internazionale. In quanto a rapporti di forza tra banche centrali statali e private, basta comparare i reciproci capitali per rilevare lo stesso rapporto sproporzionato a favore delle prime, che esiste tra i capitali di Stato e quelli delle industrie private nelle singole nazioni europee, industrie che per giunta quasi sempre dipendono dai finanziamenti statali: e ricordare le gigantesche cifre messe in campo dallo Stato negli USA e in vari paesi europei per salvare banche, gruppi finanziari e assicurativi privati nel 2008, incomparabilmente superiori ai capitali di tutte le strutture salvate; quali banche “transnazionali” avrebbero potuto sborsare somme del genere?
La verità è che nello scontro politico-economico in Europa si affrontano due opzioni: a) una è quella di cui si fa paladino il neo-salvatore della patria Mario Monti e cioè, la crisi va pagata da tutti i settori popolari europei, ivi compresi quelli dei paesi “virtuosi”, perché il prezzo dei default PIIGS e il ritorno alle monete nazionali nell’area mediterranea ridurrebbe assai anche i profitti dei tedeschi, che avrebbero dunque tutto l’interesse al mantenimento dell’euro; b) l’altra, dominante soprattutto in Germania (lo Stato-guida più forte economicamente, che si è arricchito in questi anni grazie all’euro e al mercato europeo e da cui sono finora dipese le modalità della crisi in Europa) secondo la quale la crisi va scaricata tutta sui popoli dei PIIGS preservando i paesi “virtuosi”.
Chi sostiene la “stupidità” dei tedeschi che taglierebbero il ramo su cui sono seduti (il mercato europeo unito dall’euro) sottovaluta sia la crisi sia i tedeschi, i quali sanno che solo la piena unificazione politica ed economica dell’Europa potrebbe salvare l’euro. Ma né la Germania né altri Stati “forti” intendono rinunciare alla propria sovranità e ai capitali accumulati grazie all’euro, mettendoli a disposizione di tutta l’Europa. Dunque la borghesia di Stato e privata tedesca ritiene spacciato l’euro e pensa che, dopo una fase di turbolenze e di riduzione dei profitti anche a proprio danno, poi potrà ripartire nella competizione intercapitalistica senza la “zavorra” dei debiti PIIGS.
Ma entrambe le opzioni provocano recessione, con riduzione della spesa pubblica, aumenti della pressione fiscale e tagli ai redditi medio-bassi. Per cui, non solo non vi è in esse equità ma neanche crescita nè rigore, perché la non-crescita diminuisce gli introiti fiscali, richiedendo nuove “manovracce”. Inoltre, l’imposizione del pareggio di bilancio in Costituzione e il vincolo di ridurre il rapporto debito/Pil al 60% in 20 anni (con tagli per l’Italia di 45 mld l’anno), aggrava le politiche recessive. Le manovre sono dunque il problema, non la soluzione.
La debolezza dei salariati e dei settori popolari
Purtroppo questo scontro tra Stati capitalistici avviene in assenza di un significativo conflitto di classe che costringa Lor Signori a pagare, almeno per una volta, loro. Per ora la risposta del lavoro dipendente e dei settori popolari non è stata, soprattutto in Italia, adeguata alla tregenda, a causa di molti fattori: a) il controllo delle caste di Stato e delle loro strutture di assorbimento della conflittualità, con l’intero sistema istituzionale schierato nello stesso modo, togliendo le speranze di alternative politiche vere; b) la gestione oligarchica dell’informazione; c) la diffusione clientelare di ammortizzatori sociali, individuali, di gruppo o di clan e la capacità di compensazione familiare; d) l’economia criminale, più che mai in salute; e) una convinzione diffusa, grazie al sistema mediatico anche tra i settori sociali tartassati, che “siamo tutti sulla stessa barca”, e che nel conflitto tra Stati ci si deve alleare (e subordinarsi) con i “propri” capitalisti per non far affondare la barca; f) una sorta di “sindrome da Impero romano in decadenza”, di fronte alla de-localizzazione produttiva e alle grandi migrazioni, la convinzione che ci sia una comunanza di interessi tra “patrizi e plebei” contro chi spinge alle porte dell’Europa per partecipare al suo relativo benessere, con il conseguente dilagare di partiti nazi-fascisti, razzisti, xenofobi, e con tanti salariati coinvolti in una terrificante “lotta tra penultimi e ultimi”, nel timore di essere scavalcati dai migranti nella scala sociale.
Il terremoto produttivo degli anni Ottanta e Novanta, lo sgretolarsi delle roccaforti industriali proletarie, la trasmigrazione di campo delle forze politiche e sindacali che avevano organizzato i salariati per decenni, il conseguente venir meno della solidarietà di classe, assieme all’incessante lavorio ideologico dei mass media, hanno fortemente indebolito nel lavoro dipendente la coscienza di sé e della propria forza, facendo avanzare l’idea della “comunità nazionale” come unità con i rispettivi capitalismi nazionali per uscire dalla crisi a spese dei concorrenti degli altri paesi.
La difesa del Capitale-Italia e le manovracce del governo Monti
E in primis in Italia, negli ultimi anni il leit-motiv unanime di Confindustria, governo Berlusconi, centrosinistra e sindacati confederali è stato quello della difesa del “sistema-Italia”, del coinvolgimento collettivo – escludente la conflittualità – nella salvaguardia del capitalismo nazionale, “pubblico” e privato. Però, l’acutizzarsi della crisi e i massacranti provvedimenti del governo Monti, assommatisi a quelli precedenti berlusconiani, potrebbero modificare questo panorama e permettere la ricostruzione della più ampia alleanza tra i salariati e i settori popolari.
La “manovraccia” di dicembre di un governo più politico che mai – che conta sull’appoggio dei tre partiti maggiori per i quali fa il lavoro sporco ad essi impedito – è stata una pesantissima “patrimoniale” alla rovescia che, invece di essere applicata a chi ha provocato la crisi e ci si è arricchito (quel 10% che possiede più del 50% della ricchezza), ha colpito duramente quel po’ di redditi e diritti restati a milioni di salariati e di ceti medi impoveriti: massacrate le pensioni, bloccati per anni i salari, aumentata selvaggiamente la tassazione dei beni primari, con un furto globale di decine di migliaia di euro a testa, a danno di chi già da anni stava pagando la crisi.
E’ lampante che c’era (e ci sarebbe) un’altra strada di uscita dalla crisi. Passava (e passerebbe) per: 1) una vera patrimoniale che, sulla base di almeno 5000 miliardi in mano ai più ricchi, anche con una tassa dell’1%, fornirebbe circa 50 miliardi annui; 2) il ripristino di una tassazione progressiva sui redditi che incida almeno al 50% sui più alti, compresi quelli da rendita, sgravando i più bassi; 3) il recupero di una parte significativa della gigantesca evasione fiscale (tra i 300 e i 400 miliardi): stanarne anche solo il 20% garantirebbe un “bottino” pari alle ultime Finanziarie; 4) l’inserimento nella base imponibile Irpef di tutti i redditi da capitale con riduzione significativa delle prime tre aliquote; 5) la drastica riduzione delle spese della politica istituzionale e della corruzione pubblica (strutture amministrative inutili, stipendi della casta da tagliare, benefit e pensioni “d’oro” da eliminare, consulenze e appalti politici da cancellare, corruzione da portare a livelli minimi) che derubano le casse statali per almeno 200 miliardi l’anno; 6) l’abbattimento delle spese militari e l’eliminazione delle missioni di guerra; 7) il riassorbimento dei capitali dei Fondi pensione nel sistema previdenziale pubblico, per restituire pensioni dignitose a tutti/e. Sarebbero sufficienti anche solo questi interventi per recuperare cifre colossali, intorno ai 400 miliardi annui, con i quali reinvestire in servizi sociali, beni comuni e salari, introducendo forme di reddito minimo garantito.
Ma un governo della borghesia di Stato e privata non poteva prendere in considerazione un tale programma, soprattutto in assenza di una rivolta dei tartassati: e anzi, forte della debolezza delle risposte, ha rincarato la dose con le “liberalizzazioni”. Dopo aver usato la minaccia del crollo economico, Monti ha sostenuto che con qualche farmacia, notaio e taxi in più il PIL crescerebbe del 10% e i salari del 12%. In realtà non di “liberalizzazioni” si tratta, ma di privatizzazione e di mercificazione di tutti i servizi pubblici e sociali e dei beni comuni, il grande business del XXI secolo per il capitalismo: mettere a profitto la scuola e i trasporti, la sanità e l’acqua, la raccolta e smaltimento rifiuti e l’energia, il suolo demaniale e i beni ambientali. E di ciò parla in realtà il decreto Monti (cfr.art.25), non di notai, farmacie, taxi!
Nel contempo, si vuole dare in pasto al grande capitale anche il territorio occupato sempre più a fatica dal piccolo lavoro autonomo, dai contadini e dai pescatori, dai tassisti e dall’autotrasporto più modesto. La risposta che esso ha dato, al di là di interventi corporativi e clientelari (in Sicilia animati dalla destra, anche squadrista, in provincia di Latina dall’ex-generale Pappalardo, anche per colpa della “sinistra” che ha messo questi ceti in contrasto con i salariati) ha un elemento positivo, perché è una resistenza alla penetrazione del grande capitale in luoghi ancora occupati da lavoratori apparentemente autonomi ma di fatto stretti tra mille costrizioni e con reddito in media da settori popolari. Infine, incombe il tentativo governativo e padronale di togliere i residui diritti al lavoro dipendente, con ritorsioni pesanti sugli ammortizzatori sociali. CIG, CIG straordinaria, CIG in deroga, mobilità: il governo Monti tende a liquidare ogni difesa dei lavoratori; e la riduzione ad un solo anno della CIG è un licenziamento in tronco, come pure l’intenzione di introdurre per i neoassunti la modifica dell’art.18 come richiesto dalla famigerata lettera Trichet-Draghi.
Le iniziative per l’immediato futuro
Dunque, un attacco a tutto campo a cui andrebbe risposto con eguale ampiezza. Ma la disastrosa conclusione del tentativo di ampia unità sociale, politica e sindacale messo in campo il 15 ottobre pesa enormemente oggi sulle possibilità di una forte azione soggettiva unitaria da parte della sinistra antagonista e anticapitalista. E nel contempo, anche le isolate azioni di sciopero appaiono drammaticamente sottodimensionate rispetto alla qualità dell’attacco. Il terreno adeguato, infatti, dovrebbe essere quello della più ampia e radicale rivolta popolare, in grado di usare tutte le armi di lotta con continuità e intelligenza, sostenuta da una vasta alleanza sociale, politica, sindacale, che modifichi radicalmente i rapporti di forza e renda realistica l’unica parola d’ordine unitaria, finora, a livello nazionale ed europeo: “noi la crisi non la paghiamo” e, conseguentemente, “la crisi va pagata da chi l’ha provocata”. Con tali convinzioni, ci diamo per l’immediato futuro i seguenti obiettivi.
1) Lavorare per una mobilitazione ampia con i movimenti per la difesa dei beni comuni e contro le Grandi opere: in particolare con quello più diffuso e consolidato dell’ “acqua bene comune”, visto l’impegno nella campagna referendaria ed oggi in quello per il rispetto della plebiscitaria vittoria attraverso: a) l’autoriduzione in bolletta della quota di “remunerazione del capitale”; b) la ri-pubblicizzazione delle gestioni “spa-house” in aziende pubbliche senza obbligo di rispetto del patto di stabilità. Intorno ad esso si può convogliare gli altri settori in difesa dei servizi pubblici e dei beni comuni (trasporto pubblico locale come a Firenze, ferrovie, scuola e sanità, energia, rifiuti come in Campania, Lazio e Toscana ecc..), contro l'art.25 del decreto Monti che intende mettere a profitto strutture pubbliche e servizi sociali, attraverso mobilitazioni e specifiche manifestazioni nazionali come quella annunciata per la primavera dal Forum acqua.
2) In questo quadro, dobbiamo proseguire e intensificare con il massimo impegno l’appoggio e la partecipazione alla splendida ed esemplificativa lotta della Val Susa – come abbiamo fatto il 25 febbraio a Bussoleno, quando siamo stati l’organizzazione sindacale più presente alla grande manifestazione popolare – tanto più ora dopo l’ignobile aggressione poliziesca al Presidio nella giornata del 27 febbraio, che ha ridotto in gravissime condizioni uno dei maggiori leader no-Tav, Luca Abbà (che speriamo vivamente possa ristabilirsi al più presto e completamente). Vogliamo dare il massimo contributo possibile per la liberazione di tutti gli arrestati e per bloccare definitivamente i cantieri e la militarizzazione della Valle, sottraendola alla annunciata devastazione a fini di profitto. La dimensione corale e straordinaria a livello nazionale della protesta solidale con la lotta NO TAV e con Luca Abbà del 27 febbraio stesso, lo sciopero generale convocato in Valle dai Cobas, dalla Cub e da altre strutture, dimostrano quanto fosse fallace la speranza del governo, e dei partiti che lo appoggiano, di liquidare “ l’affaire TAV” circoscrivendolo alla Valle e con gli apparati militari.
3) Di fronte all’aggravarsi della crisi e a una recessione che falcidia posti di lavoro e potere di acquisto, sosteniamo il diritto dei lavoratori e dei ceti popolari di “ non pagare”, o almeno di ridurre drasticamente i pagamenti (mutuo, affitto, bollette, tasse, multe, trasporti, ticket), indicando le modalità e le tutele da attivare nel confronto con le controparti, con la messa a disposizione dei nostri sportelli legali per rendere effettiva la continuità di beni-servizi, senza penalità e/o ritorsioni. E’ prevista anche dal codice penale la “non punibilità per avere agito in “stato di necessità“: e cosa c’è di più necessario del diritto alla vita e alla salute? Il movimento “NON PAGO” , già attivo in Grecia, Spagna,Portogallo, ha il fine di tutelare i lavoratori e le loro famiglie, i giovani, i pensionati e i migranti, attraverso la contrattazione sociale, prevedendo anche il reddito minimo garantito.
4) Il massacro delle pensioni non ha chiuso il conflitto sul tema. A partire dal Convegno di Roma del 21 gennaio abbiamo costituito insieme alla Cub un gruppo di lavoro comune, con la partecipazione di esperti del settore, che diffonderà convegni, assemblee e iniziative di propaganda per costruire un ampio movimento per la difesa, il recupero e la conquista di pensioni adeguate per tutti/e, con particolare riferimento alle nuove generazioni di lavoratori a cui si intende negare la pensione. In pari tempo è urgente riattivare la vincente campagna contro il trasferimento del TFR nel Fondi Privati, visto che Monti spinge per rendere obbligatorio il TFR nel Fondi Privati, già concretizzatosi ad esempio nel Contratto Alimentaristi, destinando una quota di aumenti salariali al Fondo Privato di categoria.
5) E’ assai concreta la possibilità che le trattative tra governo, sindacati concertativi e Confindustria producano ulteriori peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro nel pubblico e nel privato. Ma già ora, con i diktat di Marchionne, la disoccupazione e i ricatti padronali stanno mettendo con le spalle al muro i lavoratori dell’intero gruppo Fiat. Conseguentemente, ci impegniamo ad organizzare la resistenza e la controffensiva negli stabilimenti Fiat contro la bestialità del “ contratto Marchionne” e la sua estensione nei settori Metalmeccanico, Industria, Commercio e Servizi. Va data sollecita risposta all’annuncio del governo di inserire nel decreto “ mercato del lavoro” la modifica dell’art.18. Contro i licenziamenti c’è un sentimento diffuso di ostilità, che spesso si esprime in campagne di solidarietà a favore dei licenziati. Dobbiamo potenziare questa tendenza, mettendo in campo una forte mobilitazione, prima della conclusione delle trattative governo/sindacati/padroni, con la parola d’ordine “ L’art.18 non si tocca, anzi va esteso a tutte/i” .
6) Dobbiamo utilizzare in maniera molto mirata e accorta lo strumento dello sciopero. In attesa di una vera rivolta sociale, va considerato il logoramento di tale, pur sempre essenziale, forma di lotta. Essa deve essere puntuale e avere in questa fase obiettivi concreti e a portata di mano, non solo propagandistici, possibilmente a carattere trasversale e sociale, e non circoscritto ad aree ristrette di sindacalismo militante. Andrebbero evitati scioperi che appaiano, al di là delle intenzioni, di pura autorappresentazione. In questa chiave, valuteremo nelle prossime settimane il presentarsi o meno di occasioni incisive di sciopero, come potrebbe essere per la scuola quello, organizzato insieme agli studenti, contro la scuola-miseria e la scuola-quiz e per il boicottaggio attivo delle prove Invalsi che si terranno in tutti gli istituti tra l’8 e l’11 maggio.
7) Il tema sempre più attuale della democrazia sindacale negata e requisita dai sindacati monopolisti (siamo stati costretti/e ad agire - nella formazione delle liste RSU nel PI – senza diritti di propaganda e di assemblea nei posti di lavoro, e senza poter votare su lista nazionale per la rappresentanza) ci impone un’azione permanente, anche alla luce delle “lamentele” Fiom per la sottrazione di tali diritti (a noi sempre negati) alla loro organizzazione che ne ha sempre goduto in regime di monopolio spesso esercitato nei nostri confronti a partire dalla quota riservata di 1/3 in più di delegati nella elezione di RSU-RLS. Vogliamo dar vita, insieme alla Cub e ad altre forze sindacali disponibili, ad una struttura che, attraverso attività seminariali, assembleari e mobilitazioni, ponga al centro dell’attenzione la questione dei diritti democratici per tutti i lavoratori/trici .
8) Le rivoluzioni/rivolte in Nord Africa e i movimenti “indignati” hanno posto all’ordine del giorno il tema della democrazia reale e dell’inutilità di aspettarsela da una politica istituzionale ove tra “destra” e “sinistra” opera una sostanziale unicità di programmi e un monopolio di casta che nulla concede alle espressioni democratiche sociali. Smettere di affidare ad improbabili opposizioni di “sinistra” (o centrosinistra) la soluzione dei problemi della crisi è oramai un invito che viene da tutte le piazze “indignate” di Europa e del mondo. Le forme di una democrazia partecipata e diretta, che si contrapponga alle borghesie colluse nel balletto tra destre e sinistre, sono da inventare e sperimentare. E’ decisivo però che si instauri una vera autonomia politica, rispetto alle caste dominanti nelle istituzioni europee, da parte dei movimenti di opposizione sociale e antisistema. A tal fine, dobbiamo lavorare insieme a livello nazionale e internazionale mettendo in campo analisi e iniziative, confronti con analoghe realtà sindacali e di movimento - quelle altemondialiste, dei Forum sociali - per ricercare modelli di democrazia reale e per renderli operativi e permanenti. In tale direzione un particolare impegno lo dedicheremo alla costruzione del Forum europeo 10+10, che un ampio arco di forze fiorentine ha proposto a livello nazionale ed internazionale (con particolare riferimento all’Europa) in occasione del decennale del Forum Sociale Europeo 2002 (novembre), tenutosi appunto, come ricorderete, a Firenze. La discussione in merito a procedure, sostanza e metodo di tale Forum è appena iniziata e sarà seguita per noi, oltre che dai nostri/e fiorentini, anche da un gruppo di lavoro nazionale che andrà costituito ad hoc.
9) Siamo molto preoccupati per gli avvenimenti in Siria e per l’ottuso e criminale rifiuto da parte del regime di Assad di corrispondere alle attese della popolazione, contro la quale si brandisce il sanguinario strumento militare. Così si facilita l’intervento militare dei controllori dell’area (USA,Israele, UE, Arabia Saudita, Emirati) e la destabilizzazione dell’Iran, padrone di una quota rilevante del petrolio occorrente all’Occidente, il cui accaparramento permetterebbe il controllo assoluto dell’OPEC, del flusso e dei prezzi, senza il quale le economie occidentali sono a costante rischio di tracollo. Dobbiamo adoperarci per scongiurare un altro “intervento umanitario” in Siria, che appare sempre più minaccioso e incombente, sollecitando una azione comune a livello europeo e pretendendo una fase costituente in quel paese, nell’affermazione della massima democrazia e libertà di organizzazione e di espressione. Dobbiamo denunciare i preparativi di aggressione e le sanzioni all’Iran, le stesse che non si applicano mai nei confronti del regime israeliano, pur decise in 60 anni da decine di risoluzioni ONU.