Marcello Tarì
[...] I movimenti autonomi ci hanno mostrato che il dispiegamento della negatività non è la «prefazione» del futuro. Questo significa che la furia della rivolta non è separata dall’intelligenza che costruisce la possibilità di vivere altrimenti. La cooperazione che vive nel sabotaggio della metropoli è la stessa che è capace di costruire una comune. Saper innalzare una barricata non vuol dire molto se allo stesso tempo non si sa come vivere dietro di lei. Abbiamo tanto da imparare, in un senso come nell’altro.
Gli affetti che circolano tra dei compagni e delle compagne non sono suddivisi tra un dentro e un fuori: si dispiegano e si inclinano a seconda delle situazioni che sono in grado di vivere. Una situazione rivoluzionaria è quella situazione in cui disarticolazione dell’ambiente nemico e frammenti di comunismo circolano anarchicamente, in cui vibra un’intensità capace di concentrarsi su di un azione offensiva alla stessa maniera in cui fa avanzare l’abitabilità di un mondo. La situazione rivoluzionaria allora non è solamente ciò attraverso cui si contorna meglio l’oggetto delle ostilità, ma è ciò che fa sì che l’amicizia ridiventi finalmente un concetto politico.
La retorica antagonista sul «ritorno nei territori» è insopportabile: non esiste nessun territorio a prescindere dalla capacità di lotta, così come non esiste capacità di offensiva senza la presenza di basi materiali. Altrimenti l’unico vero ritorno sarà quello verso il nulla. Solamente l’incrociarsi di un conflitto diffuso con la sperimentazione locale di una forma-di-vita può «fare il territorio». Difatti il lamentoso ritornello del «ritorniamo ai territori» riappare ogni qualvolta, magari dopo un momento di rivolta molto intenso, non si sa che fare poiché non solo non c’è il coraggio di approfondire quel momento di sospensione ma non si ha nessun vero legame con delle situazioni viventi e nessuna amicizia politica con cui condividere uno spazio qualsiasi. Se, ad esempio, un «quartiere liberato» è un quartiere in cui i rapporti mercantili hanno poca o nessuna presa, un luogo dentro il quale l’economia dei dispositivi smette di funzionare, ovvero la fine del deserto sociale, autonomia significherà innanzitutto darsi i mezzi materiali ed elaborare le relazioni affettive che permettono a questa indipendenza di durare e diffondersi. In questo senso non si tratta tanto di «occupare» luoghi, territori o altro ancora, bensì di liberare questi dall’occupazione della polizia e delle relazioni mercificate che, tramite i dispositivi, ne sanciscono l’inabitabilità poiché funzionano separando volta a volta l’oggetto dal suo uso, la parola dal suo potere, il pensiero dall’azione, l’immagine dalla sua passione, e così via. Ogni passo in avanti nel rovesciamento di questi ostacoli all’abitare il mondo è una possibilità di intensificazione del comunismo. «Autonomia diffusa», ieri come oggi, vuol dire la diffusione ovunque di pratiche che mentre sperimentano la condivisione siano in grado di rompere l’accerchiamento dei dispositivi che si oppongono alla sua realizzazione.
Non vi è nessun «bene comune» separato dall’uso comune che si può fare dei mondi che abitano i corpi e dei corpi che li attraversano. Per questo vivere il comunismo è anche mettere in discussione ogni genere di diritto proprietario: non alla proprietà comune ma a un uso fuori dal diritto va commisurato il suo essere in atto. Del socialismo ne abbiamo avuto davvero abbastanza e finché ci si aggirerà nei dintorni della metafisica della proprietà e del diritto non si riuscirà a intravedere la fine della civiltà del capitale. Ogni qualvolta siamo in grado di deporre il diritto e di liberare l’uso quella fine è più prossima. Uscire dal paradigma dell’economia va necessariamente di pari passo con la sovversione di quello del governo.
Dovrebbe essere evidente che ogni volta che si dice comunismo non si tratta affatto solo di oggetti da produrre o di macchine per produrre ma di una relazione alle cose, alle macchine, alle piante, al mondo, in cui circolano degli affetti e dei corpi i quali accedono a una forma-di-vita che si determina materialisticamente come comune. È l’uso solamente che permette di liberare in ogni oggetto e in ogni corpo, in ogni parola e in ogni immagine la forma-di-vita attraverso cui un comune si singolarizza e viceversa, cioè di lasciar essere la sua stessa libertà. La questione del comunismo consiste nell’elaborazione dell’uso tra quelli che abitano e condividono uno stesso mondo.
Infine, non si può possedere o volere il comunismo: esso avviene gratis. [...]
dalla postfazione all’edizione italiana Gli affetti che circolano tra dei compagni e delle compagne non sono suddivisi tra un dentro e un fuori: si dispiegano e si inclinano a seconda delle situazioni che sono in grado di vivere. Una situazione rivoluzionaria è quella situazione in cui disarticolazione dell’ambiente nemico e frammenti di comunismo circolano anarchicamente, in cui vibra un’intensità capace di concentrarsi su di un azione offensiva alla stessa maniera in cui fa avanzare l’abitabilità di un mondo. La situazione rivoluzionaria allora non è solamente ciò attraverso cui si contorna meglio l’oggetto delle ostilità, ma è ciò che fa sì che l’amicizia ridiventi finalmente un concetto politico.
La retorica antagonista sul «ritorno nei territori» è insopportabile: non esiste nessun territorio a prescindere dalla capacità di lotta, così come non esiste capacità di offensiva senza la presenza di basi materiali. Altrimenti l’unico vero ritorno sarà quello verso il nulla. Solamente l’incrociarsi di un conflitto diffuso con la sperimentazione locale di una forma-di-vita può «fare il territorio». Difatti il lamentoso ritornello del «ritorniamo ai territori» riappare ogni qualvolta, magari dopo un momento di rivolta molto intenso, non si sa che fare poiché non solo non c’è il coraggio di approfondire quel momento di sospensione ma non si ha nessun vero legame con delle situazioni viventi e nessuna amicizia politica con cui condividere uno spazio qualsiasi. Se, ad esempio, un «quartiere liberato» è un quartiere in cui i rapporti mercantili hanno poca o nessuna presa, un luogo dentro il quale l’economia dei dispositivi smette di funzionare, ovvero la fine del deserto sociale, autonomia significherà innanzitutto darsi i mezzi materiali ed elaborare le relazioni affettive che permettono a questa indipendenza di durare e diffondersi. In questo senso non si tratta tanto di «occupare» luoghi, territori o altro ancora, bensì di liberare questi dall’occupazione della polizia e delle relazioni mercificate che, tramite i dispositivi, ne sanciscono l’inabitabilità poiché funzionano separando volta a volta l’oggetto dal suo uso, la parola dal suo potere, il pensiero dall’azione, l’immagine dalla sua passione, e così via. Ogni passo in avanti nel rovesciamento di questi ostacoli all’abitare il mondo è una possibilità di intensificazione del comunismo. «Autonomia diffusa», ieri come oggi, vuol dire la diffusione ovunque di pratiche che mentre sperimentano la condivisione siano in grado di rompere l’accerchiamento dei dispositivi che si oppongono alla sua realizzazione.
Non vi è nessun «bene comune» separato dall’uso comune che si può fare dei mondi che abitano i corpi e dei corpi che li attraversano. Per questo vivere il comunismo è anche mettere in discussione ogni genere di diritto proprietario: non alla proprietà comune ma a un uso fuori dal diritto va commisurato il suo essere in atto. Del socialismo ne abbiamo avuto davvero abbastanza e finché ci si aggirerà nei dintorni della metafisica della proprietà e del diritto non si riuscirà a intravedere la fine della civiltà del capitale. Ogni qualvolta siamo in grado di deporre il diritto e di liberare l’uso quella fine è più prossima. Uscire dal paradigma dell’economia va necessariamente di pari passo con la sovversione di quello del governo.
Dovrebbe essere evidente che ogni volta che si dice comunismo non si tratta affatto solo di oggetti da produrre o di macchine per produrre ma di una relazione alle cose, alle macchine, alle piante, al mondo, in cui circolano degli affetti e dei corpi i quali accedono a una forma-di-vita che si determina materialisticamente come comune. È l’uso solamente che permette di liberare in ogni oggetto e in ogni corpo, in ogni parola e in ogni immagine la forma-di-vita attraverso cui un comune si singolarizza e viceversa, cioè di lasciar essere la sua stessa libertà. La questione del comunismo consiste nell’elaborazione dell’uso tra quelli che abitano e condividono uno stesso mondo.
Infine, non si può possedere o volere il comunismo: esso avviene gratis. [...]