di Gigi Roggero
Questi appunti, schematici e parziali, sono solo una prima breve trascrizione ragionata delle discussioni con militanti e persone interne al movimento No Tav, oltre alla partecipazione diretta alle sue embrionali forme di radicamento. Non è nostra intenzione narrare o spiegare questo movimento, perché questo lo devono fare e lo stanno facendo coloro che ne sono parte. L’obiettivo è invece di contribuire alla discussione collettiva su alcune delle indicazioni che da queste lotte ci vengono
Diciamolo subito: le lotte in Val Susa non costituiscono un’esplosione improvvisa, dei moti imprevisti, un evento senza genealogie. Al contrario, affondano le proprie radici in una storia ormai ventennale di sedimentazione e organizzazione. Sarebbe stato possibile il movimento No Tav senza un investimento politico e una continuativa presenza militante? Non sappiamo, ma di certo avrebbe difficilmente conquistato questa forza e direzione collettiva. Ciò non significa, però, che le lotte siano il semplice e lineare prodotto di una determinazione politica, perché questa si situa dentro un contesto e una composizione sociale specifici. La Val Susa è una valle stretta, lunga e densamente popolata, e non corrisponde a un tipico territorio di montagna: ruoli chiave sono svolti, oltre che dal lavoro agricolo, dall’industria (siderurgia e indotto Fiat), dal terziario avanzato, dal pendolarismo verso Torino (soprattutto nella bassa valle, che va da Avigliana a Susa) e dai flussi transfrontalieri (a cui si aggiungono, nell’alta valle, le attività legate all’industria turistica). La Val Susa e la sua composizione sociale e di classe sono quindi in stretta connessione con lo sviluppo urbano e metropolitano di Torino, ne costituiscono un’articolazione con caratteristiche affatto peculiari. A ciò si aggiunga la presenza nella valle di una memoria come quella partigiana che, per quanto possa avere dei tratti mitici, assume in questa situazione un carattere vivo e produttivo. É questa specifica composizione, con la sua storia soggettiva di trasformazioni, conflitti e resistenza, la condizione di possibilità delle lotte No Tav, al cui interno quella scommessa politica è stata agita.
Lo sviluppo di questa storia non era oggettivamente inscritto nelle sue origini, o per dirla in altri termini non c’è nessun esito deterministico a partire dagli elementi dati. Ci pare utile e comodo, ancorché riduttivo e forse descrittivamente non preciso, individuare grosso modo tre fasi del movimento No Tav. La prima comincia negli anni ’90 e arriva fino al 2005: è la fase di creazione e formazione di un’opposizione via via sempre più larga al progetto del treno ad alta velocità. Qui si ritrovano necessariamente le ambivalenze caratteristiche delle lotte territoriali, tra i rischi di chiusura localista e la capacità di generalizzazione. Dentro queste ambivalenze si inizia però da subito a costruire un’indicazione di lotta complessiva (già nel 2001 a Genova, per limitarci a un unico esempio, c’è una grande partecipazione dei No Tav alla mobilitazione contro il G8). Nel dicembre 2005 lo sgombero violento del presidio di Venaus e la battaglia di massa che, pochi giorni dopo, ha consentito di riconquistarlo rendono visibili i processi di organizzazione e consolidata presenza del movimento. É ormai chiaro a tutti che il No Tav non è più solo una mobilitazione circoscritta alla Val Susa, ma sta diventando questione generale. A partire da qui potremmo collocare una seconda fase, in cui crescono ulteriormente i comitati popolari e si cementa la ferma posizione di sindaci, amministratori e rappresentanti delle istituzioni locali che – spinti dall’irrappresentabilità del movimento e non per semplice coscienza individuale – si oppongono al Tav, senza se e senza ma. Chi tentenna o retrocede, perde qualsiasi credibilità e decade di fatto. Nel 2010 le posizioni Sì Tav costeranno al Pd e ai suoi pavidi alleati la Regione Piemonte, ma da questa come da molte altre lezioni gli eredi del Pci non hanno tratto nessun insegnamento, almeno tattico, né sono strutturalmente in grado di trarne. Le bandiere No Tav foderano la valle e non solo, a simboleggiare la creazione di una vera e propria istituzionalità del comune in lotta.
Gli ultimi anni segnano un ulteriore passaggio in avanti, una terza fase per proseguire in questa periodizzazione provvisoria. A questo punto il movimento No Tav esce definitivamente dalle etichette che gli sono state appiccicate (quella del generico ecologismo, e ovviamente non parliamo del nimby perché in questo caso non c’è neppure l’attenuante della buona fede), così come va compiutamente oltre la single issue, cioè l’opposizione alla costruzione della linea ad alta velocità. Il No Tav è un movimento dentro la crisi e contro l’austerity, i suoi temi centrali sono dichiaratamente la lotta ai tagli, al debito e sul welfare. Non contro lo sviluppo e la modernità, ma per lo sviluppo dell’autonomia della cooperazione sociale contro lo sviluppo capitalistico che tenta di imbrigliarla o distruggerla. Oggi è, a tutti gli effetti, un movimento centrale e ricompositivo contro il governo Monti: ne sono prova le grandi manifestazioni nelle città di tutta Italia e di vari paesi europei nei giorni seguenti la drammatica caduta di Luca Abbà dal traliccio vicino al cantiere, causata dalle forze dell’ordine e circondata dall’indifferenza delle ruspe delle imprese del Tav. In queste manifestazioni abbiamo visto esprimersi quella composizione che è emersa nelle mobilitazioni degli ultimi anni, fatta soprattutto di studenti e giovani precari. Anche in questo caso, valle e metropoli iniziano a congiungersi nel segno della lotta alle politiche di austerity. Il movimento No Tav sembra essere, al contempo, un’anticipazione e una traduzione nel contesto italiano di Occupy (si veda l’articolo di Toni Negri): non si tratta, cioè, dello scimmiottamento degli accampamenti o la pretesa rappresentanza del logo “indignados”, ma della comunanza di pratiche di conflitto, caratteristiche soggettive, irrappresentabilità e vocazione costituente. É questa la fase caratterizzata dalla Libera Repubblica della Maddalena.
Le valutazioni più circostanziate sulle prospettive di breve e medio periodo appartengono, ovviamente, alle discussioni interne al movimento No Tav. Ci limitiamo a constatare la sua compattezza, capacità di tenuta e anzi di allargamento, che ha varie ragioni, parte delle quali sono già state accennate e si ritrovano in questa storia ventennale. Ci sembra anche (lo ha messo bene in evidenza Gian Luca Pittavino nel suo intervento audio) che il movimento sia divenuto una forma di vita e di socializzazione, capace di trasformare la quotidianità e creare nuove norme collettive. La composizione è intergenerazionale: c’è un’ampia presenza di over 40 e over 60, che trovano nella mobilitazione un’alternativa concreta rispetto alla normalità, che è normalità capitalistica, fatta di lavoro, percezione di isolamento, socialità frammentata di bar e piazzette. Per avere solo un’idea di questo cambiamento, si pensi alla rete di lavoratori autonomi creata per costruire nuove forme di cooperazione e che, ad esempio, si è impegnata a tenere aperta la bottega di un barbiere arrestato nell’operazione di Caselli e a sostituire Luca Abbà finché non potrà ritornare alla sua occupazione. Questo strato sociale e generazionale – al cui interno si sono prodotte alcune delle principali figure di riferimento della lotta – non entra in contraddizione ma si relaziona produttivamente con la presenza di giovani (soprattutto tra i 18 e i 25 anni, i cui comportamenti sono del tutto simili a quelli diffusi negli ultimi anni nei contesti metropolitani). Nelle ultime settimane vanno inoltre segnalate le ripetute uscite di un numero piuttosto consistente di studenti dagli istituti superiori della valle per partecipare alle manifestazioni, al pari degli scioperi immediatamente proclamati (come già più volte successo in passato) nelle fabbriche e sui luoghi di lavoro della zona, tanto dalla Fiom quanto dai sindacati di base. Anche qui è possibile vedere la specificità degli elementi di classe che connotano la Val Susa. Insomma, è un vero e proprio processo di soggettivazione collettiva quello che sta avvenendo da molti anni. Ne è una straordinaria prova l’intelligenza collettiva e tattica di questo movimento, capace di regolare e combinare differenti tempi, fasi e forme di lotta – dall’esercizio della resistenza attiva agli appelli pacifici, dall’organizzazione delle piazze alla sedimentazione dei luoghi di discussione comune. La radicalizzazione politica non è quindi, come molti sostengono (da Caselli a Travaglio, cioè la magistratura e i suoi apparati mediatici), quella di singoli settori, ma è la radicalizzazione dell’intero movimento e della sua composizione.
Con questo non vogliamo sostenere uno sviluppo necessariamente vittorioso della lotta, né l’irreversibilità dei rapporti di forza conquistati. A essere irreversibile è, tuttavia, lo scollamento rispetto alle strutture della rappresentanza politica. Da questo punto di vista, la cieca ostinazione del governo Monti ci sembra mossa da due ragioni principali. Da un lato, l’esigenza di imporre – come ha sottolineato Toni Negri – la tecnicizzazione della politica e la neutralità del sapere tecnico. Fare retromarcia rispetto al Tav significherebbe una sconfitta sulle politiche di austerity, basate appunto sull’assunto di una supposta oggettività trascendente e non discutibile. Così si può piangere quando si nomina la parola “sacrifici”, come si fa di una catastrofe naturale o di una morte improvvisa, proprio perché si afferma che le loro cause e necessità sono al di fuori della possibilità di azione umana. Nasce una nuova teologia tecnocratica, fatta di banchieri, rentier e preti, politici e giornalisti, che devono ammansire il gregge e sono difesi dalle pecorelle. Dall’altro lato, il governo Monti è vincolato agli impegni assunti non solo con le lobby imprenditoriali e della rendita (ivi incluse le “cooperative rosse”), ma anche con il Pd: più ancora del centro-destra, sono costoro – nella peggiore tradizione del socialismo reale – i ciechi pasdaran della supposta oggettività dello sviluppo capitalistico, ovvero del sedicente “interesse generale” contro le lotte. Al loro fianco si colloca ovviamente il Partito di Repubblica, che ormai svolge non più solo una funzione di sostituzione rispetto alle carenze del centro-sinistra, ma ha assunto un ruolo politico indipendente. Il video della riunione di redazione del giornale, con Ezio Mauro che detta la linea, indica le alleanze e si sofferma sugli aspetti tattici, è di fatto un comitato politico. Speriamo che chi, a cavallo del 14 dicembre del 2010, aveva confuso tale partito (con le sue sezioni giovanili) e Napolitano per dei possibili referenti invece che per quello che sono, dei nemici, si sia ora ravveduto e si prenda una pausa per riflettere.
A questo punto la domanda è: come e cosa significa generalizzare le lotte in Val Susa? Osservare i segnali di diffusione territoriale e gli elementi comuni che il movimento presenta e ha determinato non significa infatti ritenere già avvenuta una qualche forma di ricomposizione. Proprio su questo, anzi, deve incentrarsi la discussione politica e militante. Sarebbe, a nostro avviso, un errore o quantomeno una scorciatoia di corto respiro pensare alla lineare riproducibilità o esportabilità di un modello, come è stato tentato ad esempio seguendo la categoria delle “lotte territoriali”. É il modello di chi – dai “beni comuni” agli “indignati” – tenta di rappresentare un simbolo anziché generalizzare un movimento. Proprio la Val Susa, ci pare, insegna invece che il comune è ciò che viene prodotto dentro una storia; d’altro canto, le peculiarità che abbiamo stenograficamente menzionato all’inizio rendono difficile pensare a una ricetta già data. Generalizzare la Val Susa, in Italia e in Europa, può allora significare due cose. In primo luogo, nell’immediato, allargare e diffondere il sostegno alla lotta No Tav (senza dimenticare che ci sono compagni ancora in galera o agli arresti domiciliari per i quali va rivendicata la libertà). In secondo luogo, sul medio periodo e sul piano strategico, vuol dire tradurre ciò che è stato fatto in Val Susa dentro la composizione del precariato metropolitano, nelle scuole e nelle università, creando progetto e programma negli ambiti della produzione sociale. Significa, dunque, costruire e conquistare la forza per imporre una temporalità e un’agenda politica autonome e irrappresentabili.