-Cristina Morini-
Quando, alcuni anni fa, ho scritto Per amore o per forza. Biopolitiche del corpo e femminilizzazione del lavoro, ho abbinato il termine «amore» a quello del lavoro incalzato dal dispositivo di precarietà. Due concetti accostati da molta letteratura femminista. Non è strano che, nelle distanze, numerose pensatrici e attiviste siano state investite dalla medesima intuizione (bisogno) di congiungere universi apparentemente paralleli.
L’OGGETTO DELLA CATTURA e della subordinazione delle donne e della loro capacità di «lavoro» va infatti ben oltre «il» lavoro e il suo tempo così come inteso dalla cognizione maschile: è il soggetto stesso, tutto intero. La riproduzione è, non a caso, la chiave di volta dell’accumulazione contemporanea occidentale ed essa è, a differenza della produzione, inseparabile dalla soggettività, dal vivente.
Un nesso da indagare sin dal titolo nel libro di Gisela Bock e Barbara Duden Lavoro d’amore – Amore come lavoro. La nascita del lavoro domestico nel capitalismo, uscito per ombre corte (pp.126, euro 12), con cura e introduzione di Silvia Rodeschini.
Si tratta di un testo di due importanti storiche e femministe tedesche la cui prima stesura è stata redatta come «contributo per la prima edizione dell’Università estiva per le donne che si svolse negli spazi della Freie Universität di Berlino tra l’8 e il 10 luglio 1976» e poi «uscì l’anno seguente per i tipi della Courage Verlag», ci spiega Rodeschini nelle pagine introduttive. Le autrici sono state entrambe in fecondo rapporto con il femminismo italiano: la prima è tra le promotrici della campagna per il «Salario al lavoro domestico» in Germania, la seconda è molto nota anche per le ricerche di storia sociale della medicina che l’hanno portata a indagare sul «corpo della donna come luogo pubblico».
LA TESI CENTRALE di questo saggio, a partire da ricostruzioni storiche negli Stati Uniti della fine dell’Ottocento, e in Prussia ed Europa tra XVII e XVIII secolo, è che il lavoro domestico abbia un’origine relativamente recente «vede i suoi inizi tra il XVII e il XVIII secolo con l’abbrivio del capitalismo e si sviluppa nel lasso di tempo successivo alla rivoluzione industriale in modo non contemporaneo nei diversi paesi e nelle diverse regioni».
Le ricostruzioni fatte sulla gestione famigliare complessiva della casa nella «società antica» dell’economia contadina e della campagna dove «marito e moglie costituivano un’unità lavorativa fondamentale intorno alla quale si raccoglievano i figli ed eventualmente servitori a seconda del patrimonio disponibile e delle esigenze di lavoro» sono accurate e fondamentali. Allo stesso modo, lo sono le considerazioni sul peso della donna nello svolgimento delle mansioni feudali (le corvée), di eguale importanza rispetto a quelle dell’uomo «in relazione a un plus prodotto basato sull’economia famigliare, alla quale ciascun membro partecipava in modo specifico e insostituibile rispetto agli altri».
È CORRETTO SOTTOLINEARE che la nostra attuale idea di home-making non possa essere paragonata al contesto dell’Europa continentale del tardo medioevo: «Le vaghe idee circa l’igiene e la pulizia della società antica, le ridotte dimensioni delle abitazioni, il sovrapporsi degli spazi dell’officina, della cucina e della camera da letto riducevano il lavoro domestico a tenere il bestiame fuori dalle stanze adibite ad abitazione, a scacciare i cani e i gatti dalle pentole, tenere il pavimento pulito dallo sporco più grossolano».
DA CONDIVIDERE interamente con le autrici è l’idea centrale che «il lavoro» e la divisione sessuale del lavoro siano una recente invenzione capitalista: la definizione economica di lavoro come energia umana applicata alla produzione, o più precisamente, alla produzione e allo scambio di beni e servizi, è di certo una nozione tecnica tutta moderna.
Soprattutto, l’avvento del capitalismo ha cancellato la molteplicità delle attività e il loro determinante ruolo sociale (i lavori, plurale) e disconosciuto il valore del valore d’uso fino al momento in cui, nel presente, tra aggiustamenti di paradigmi produttivi e parcellizzazione dell’organizzazione di fabbrica, non si è trovato esplicitamente modo di ricondurre l’esistenza stessa alla misura del capitale.
Dunque l’aspetto più interessante, indispensabile, di questo volume consiste nella rivisitazione del concetto stesso di lavoro a partire dalla riconsiderazione di quello domestico come porzione di un’unità spaziale ed economica più ampia della quale facevano parte anche l’occupazione esterna, la produzione e il consumo.
Le contestualizzazioni, tuttavia, hanno radici ancor più lunghe e va aggiunto che il lavoro d’amore (labour of love) – che non è work for money – si sviluppa sin dalle origini anche minando profondamente la libertà e la fiducia in sé stesse delle donne. L’òikos (la casa, la famiglia, la struttura sociale dell’economia precapitalista) ha significato anche, nelle ricostruzioni e interpretazioni delle donne alle latitudini mediterranee, vivere un ruolo tutto interno al privato (il focolare domestico, in senso letterale, che le donne dovevano tenere costantemente acceso) che ne ha costretto l’azione, impedito la parola e la gestione del denaro: la loro tutela giuridica, essendo prive di diritti politici, veniva fornita dal capofamiglia maschio.
NELLE EVOLUZIONI del capitale che adesso sfidano apertamente e intimamente la vita, la storia subalterna di tutti i subalterni scaturisce da qui, dal desiderio primordiale di controllare il corpo femminile e ciò che sa creare, la «materia sapiente» come la definisce con un’immagine molto efficace Daniela Pellegrini. Certamente, racconta anche dell’eccedenza sovversiva del valore d’uso e dell’idea stessa di un mondo fondato su «valori» differenti di cui le donne sono appassionate testimoni.
Le odierne precarietà e marginalizzazioni femminili non sono che l’evoluzione estrema di una dinamica di sfruttamento vitale, basato su antinomie – integrazione vs espulsione – sulla quale sempre più palesemente si fonda la società. Il lavoro vivo tradotto in lavoro morto, l’astrazione capitalista che si fa paradossalmente reale svelando l’arcano della economia politica moderna, esibiscono, insomma, una trasformazione generale talmente profonda che i paragoni risultano ardui e comunque scomodi: da una società servile a una società dominata dai produttori di merci che rischia di svuotare perfino la vita.
RESTA A NOI, così come a Block e a Duden, come a Mariarosa Dalla Costa, Selma James, Silvia Federici, Alisa Dal Re e a chi in futuro si misurerà con il tema, affrontare la contraddizione «tanto economica quanto psichica, tra valore e disvalore sociale» sorta dalla invenzione del lavoro domestico come atto d’amore quando in realtà è «un fondamento della razionalizzazione aziendale per risparmiare sui salari». Come ho cercato di dire, possiamo anche scorgere un prima del patriarcato e soprattutto con un oltre del capitale, che minaccia l’esistenza di umani e non umani.
La battaglia che allora aveva al centro il salario al lavoro domestico parla adesso di reddito di autodeterminazione per ottenere lo stesso scopo: «Rompere l’equivalenza tra lavoro e amore, tra lavoro e natura, chiamare lavoro ciò che è lavoro, ricoprire o decidere in modo autonomo che cosa è amore, che cosa è natura».