-Anna Guerini-
Una critica che rilevi, al fondo del potere politico moderno, la materialità storicamente determinata dei rapporti intersoggettivi, che eccede i tentativi di renderla pienamente trasparente, per non cadere nelle antinomie del progetto giuridico ed esservi nuovamente sussunta
A cinquant’anni dalla sua pubblicazione, Filippo Del Lucchese e Marco Fioravanti propongono, nella collana Materialismi di DeriveApprodi, una nuova edizione di Il progetto giuridico (1974) di Pietro Costa, arricchito da un’intervista all’autore che inquadra il volume nella sua ricca produzione e nel suo contesto “di nascita”. Come suggerisce il sottotitolo, Ricerche sulla giurisprudenza nel liberalismo classico, Costa scava obliquamente nella mole densissima di materiali della giurisprudenza liberale inglese sei e settecentesca, quale ambito di definizione e accettazione del progetto ideologico, culturale e materiale della classe in via di affermazione egemonica, cioè la borghesia.
L’obliquità dello scavo è duplice. Da un lato,
percorrendone puntualmente le linee di tendenza e organizzandole tematicamente,
l’autore ricostruisce e situa concetti, forme e valori moderni (felicità,
sicurezza, libertà, uguaglianza), ricostruendone la complessa produzione
discorsiva attraverso i suoi enunciati primari (bisogno, soddisfazione,
differimento, conflitto, proprietà, contratto), per mostrare la rispondenza tra
formazione socioeconomica e piano della teoria. Dall’altro, mobilita almeno due
riferimenti esterni al suo materiale primario: Marx e Freud.
Nel caso di Freud, l’immagine della topica è traslata dalla coscienza dell’individuo alla società,
e il plesso “principio di piacere”, “repressione” e “principio di realtà” viene
collegato alla dinamica che lega il desiderio del soggetto, nucleo della zona
economico-pulsionale, alle strategie di differimento della sua soddisfazione
per ottenere una libertà intersoggettiva non distruttiva. Marx, invece –
l’intervista in appendice lo conferma –, fornisce il lessico polemico
necessario a inquadrare l’intera operazione di Costa come ricerca sul rapporto
sociale di capitale attraverso la sua progettazione giuridica e politica. Il filosofo
di Treviri fa capolino ogni volta che un nuovo tassello del progetto giuridico
sembra renderlo impenetrabile e insuperabile – demistificando il concetto
hobbesiano di bisogno, l’assorbimento del soggetto umano e di tutto ciò che gli
è proprio nella proprietà privata e la teoria dell’utilità
benthamiana, o mettendo in luce la subordinazione nascosta nella presunta
identificazione tra interessi generali e individuali.
Da Hobbes a Bentham, procedendo per détours, Costa mostra che l’emersione e l’affermazione della
discorsività del progetto giuridico procede per contestazioni, arricchimenti e
adeguamenti. L’invariante che resiste alle variazioni, l’architrave del
progetto giuridico, è il concetto hobbesiano di individuo quale soggetto di
bisogni, la cui soddisfazione dispone gli uomini uno contro l’altro, l’uno
potenzialmente teso alla distruzione dell’altro. I rapporti intersoggettivi sono così segnati
geneticamente dal conflitto, tratto caratteristico della «formazione
economico-sociale, in linea di tendenza, capitalistica» (38). Hobbes registra
la trasformazione delle società moderne occidentali e ne coglie la struttura,
elevando la zona dell’economico a suo fulcro e il bisogno che la definisce a
principio ermeneutico e oggetto primo di tutti gli enunciati che compongono la
discorsività del progetto giuridico a egemonia borghese.
L’interesse individuale, quindi, è eletto a
«enunciato riassuntivo e sintetico» (62), e il conflitto intersoggettivo a
posta in gioco di ogni teoria sociale che muova da esso: così, il differimento
del desiderio si afferma come criterio della sua soddisfazione e dell’ordine
sociale. L’economico occupa «per successive rifrazioni, tutto lo spazio
discorsivo», marginalizzando progressivamente ogni residuo aristotelico, ogni
riferimento alla zona intangibile della virtù. L’esito (benthamiano) è la codificazione di un «modello globale di società» (313), di «una teoria dei
luoghi» (107) che ha per contenuto l’insieme di rapporti sociali differenziati
e che assume proprietà e contratto a forme giuridiche del rapporto sociale. Con Bentham,
riassorbito ogni riferimento alla virtù nella teoria dell’utilità calcolabile,
il soggetto ha di fronte a sé un mondo di cose utilizzabili, non più di
soggetti in conflitto: eletta a progetto, la possibilità di regolare
economicamente la società si realizza nel Codice.
Shaftesbury e Cumberland tentano vanamente di
contrapporsi alla logica del bisogno distruttivo, il primo tramite la separazione
radicale della mente dal corpo, ridotto a residualità negativa, il secondo
riempiendo il vuoto spazio sociale di Hobbes con corpo di parti collaborative
che, tuttavia, «sono forme di rapporti sociali già moderne» (121): entrambi
rispondono, accettandolo, al quesito di Hobbes, e ragionano a partire da una
formazione socioeconomica ormai trasformata.
È, tuttavia, il Locke dei Due trattati sul governo, con la sua definizione della proprietà, a segnare un punto
di svolta per l’accettazione definitiva della zona economico-pulsionale. La
proprietà – di sé, del lavoro e del prodotto del lavoro – si presenta come
soluzione all’instabilità intersoggettiva. Eletta «schema interpretativo
generale», la proprietà privata – non più un «concetto generico» ma lo «specifico
tipo di proprietà che caratterizzava la società inglese nella sua fase di
transizione al capitalismo» (142-143) – limita il desiderio dall’interno,
perché limitata è la quantità di soddisfazione che ciascuno può ottenere con il
suo lavoro, che del desiderio diventa la regola, la misura. Il denaro, tuttavia, svincolando la proprietà dal consumo,
rende i beni disponibili alla smisurata accumulazione, e concepisce il lavoro
dell’altro come una merce appropriabile. In un cortocircuito discorsivo, la
proprietà lockiana afferma sé stessa tramite il lavoro, e il suo contrario, il
lavoro salariato del non-proprietario (o non-proprietà), nel tentativo di
neutralizzarne la distruttività.
Il contratto sancisce questo cortocircuito, rinsaldando il nesso tra
uguaglianza e diseguaglianze che il binomio proprietà-lavoro elegge a norma
sociale. Fondato sulla volontà dei soggetti di bisogni, il contratto
concretizza l’eguaglianza nell’istante della sua formulazione, e legittima la
subordinazione come suo effetto, ordinando giuridicamente le differenze. Il
giuridico, quindi, è l’insieme delle «norme socialmente essenziali» che
organizzano il «sistema normativo generale», i cui istituti, proprietà e
contratto, esistono e funzionano come sue parti, «comprensibili solo se riferiti
alla loro funzione socialmente “ordinante”» (217).
Non mancano i tentativi – ad esempio di Godwin,
Hall e Hodgskin – di resistere alla discorsività egemone, svelando il
fallimento del tentativo di sublimazione della distruttività: distruttivi sono la
non-proprietà, che la proprietà genera necessariamente, il lavoro in quanto non-proprietario, espropriato, il potere
politico e la legge, che si rivela essere solo “dei proprietari”. Sono queste
contestazioni a obbligare il progetto giuridico a un reinvestimento discorsivo
per ricomprendere i soggetti che stanno fuori e/o contro il giuridico,
attraverso strategie e apparati ideologici (345) che estendono la logica del
giuridico ai luoghi “decentrati” ed “esterni”: in primis, famiglia – «essenziale punto di sutura fra il
sociale-generale e l’interiorizzazione del soggetto» (323) –, educazione,
religione, filantropia. Il contratto, invece, lavora al “centro” per
stratificare la società, assumendo a suo «contenuto materiale […] la
costrizione al lavoro attraverso il bisogno» (343) ed eleggendo il lavoro
salariato quale ingranaggio del benessere generale. Anch’essi dominati dai
bisogni, poveri e salariati hanno solo il lavoro per soddisfarli: riassorbiti
nella logica proprietaria, il progetto giuridico li fa sedere, in qualità di
ospiti, al «generale banchetto “progressivo”» che ha apparecchiato (339).
Il legislatore di Bentham segna l’apice della
pianificazione: getta sopra la società la plasmabile forma-diritto, per ridurre
la società, senza residui, a immagine e somiglianza dell’utilità borghese.
Rispetto all’economico, vero e proprio piano di realtà dotato di leggi, lo
Stato legifera per garantire protezione e promozione indiretta: il diritto è,
con Bentham, «composizione delle conflittualità e programmazione
politico-giuridica» (225).
Tra le molte linee tematiche individuate da Costa,
è utile indicare sinteticamente quelle tracciate dalla temporalità e dalla
natura come metafora.
La prima percorre carsicamente il volume,
dall’hobbesiano concetto di potere come «impossessamento di tutto il tempo»,
con il futuro assunto a tempo della soddisfazione, che, irriducibile
all’istantaneità, «si gioca tutta nel futuro, ma insieme è giocata dal futuro»
(75, 32), fino alla capacità di previsione che Bentham condensa nel Codice, eleggendo la sicurezza a
garanzia contro il futuro. Passando per la lockiana proprietà come
mezzo per l’immutabilità della soddisfazione (293), con il futuro colto nella
sua doppiezza – minaccia della soddisfazione interrotta e miraggio della
soddisfazione continuata. Nella temporalità rappresa «nella forma proprietà»
(295), che congela ogni dinamismo trasformativo della libertà, si gioca la
politica moderna delle passioni, con il futuro, la sua attesa e la sua
esorcizzazione – lo confermerà poi Reinhart Koselleck – quali parti integranti
della sua tematizzazione giuridica.
La “natura”, invece, è oggetto di trattazione
specifica per la sua funzione nella definizione della diade proprietà-lavoro e
della metafora quale figura del progetto giuridico e trama del suo
tessuto. I contenuti della metafora giusnaturalistica per eccellenza, lo stato di natura, sono le forme sociali essenziali che la giurisprudenza
inglese costruisce come fossero essenziali, ordinati, pre-civili. Il tentativo
humiano di rompere la metafora, sostenendo che anche la “condizione selvaggia”
è sociale, si traduce nella «prosecuzione sotterranea da una metafora
all’altra» (308): la giustizia humiana è artificiale, ma in quanto esito della più naturale caratteristica dell’umano, la capacità inventiva. Lo
stesso vale per le necessarie forme delle interazioni sociali, proprietà e contratto,
effetto non della natura o della volontà, ma delle convenzioni umane, per mezzo
delle quali il giuridico organizza la capacità inventiva sollecitata dai
bisogni e dalle interazioni tra soggetti. «Ciò che resta del giusnaturalismo in
Hume», scrive Costa dandoci un saggio esemplare della forza apparentemente
irresistibile del progetto giuridico, «è la sua alterazione in radice: la
società trasformata in natura» (310).
Quando Bentham dichiara chiusa «la stagione delle
fiction», la naturalizzazione della società arriva al suo apice, resa
trasparente dalla progettuale «politica del diritto» del Codice (313-314). A
quest’altezza, il giuridico è la metafora che risponde, fuor di metafora, a un economico dominato dal modello del mercato, dandogli
forma. Le norme, a questo punto, dettano i termini delle interazioni sociali
alla luce di un modello costruito «a immagine e somiglianza» delle classi
«solidali col modo di produzione capitalistico» (211). La topica sociale è
qualitativamente definita tramite due spaccature: una verticale, che distingue
«detentori del potere e obbedienti al potere» (104), e una orizzontale, in
forza della quale chi non sa differire – donne, bambini, non-proprietari,
devianti – è dominato da chi sa differire, da chi segue la ragione. Sotto
questo aspetto, Costa anticipa la riflessione sviluppata da Michel Foucault in quegli anni e condensata in Sorvegliare e punire, pubblicato un anno dopo Il progetto giuridico. Nelle pagine sul “diritto di punire”, il sistema
penitenziario benthamiano è luogo in cui si riflette, rovesciata, l’immagine
del perfetto uomo borghese (361-380). Il parallelismo benthamiano tra detenuti
e lavoratori suggella l’egemonia di questo modello, insieme al Codice, estremo
strumento di stabilizzazione della zona economico-pulsionale e della sua
distruttività.
L’importanza de Il progetto giuridico, quindi, è duplice. Ricostruendo minuziosamente le varianti
teoriche di questa complessa trama ideologica, l’autore ricorda che le
contestazioni che gli resistono e lo obbligano a ridefinirsi sono parte
integrante della sua storicità. Se, nella maggior parte dei casi, questa
ridefinizione è indice della solidità del progetto giuridico stesso, il
sottotesto marxiano del volume di Costa rileva la possibilità di una via
d’uscita. Il progetto giuridico è conflittuale, perché la formazione sociale
che gli corrisponde si cristallizza in una logica fondata sul conflitto distruttivo
e sulla necessità di sublimarlo: identificate le varianti storiche della
sublimazione, è possibile vagliare quelle che rovesciano criticamente la
distruttività e l’intero tessuto di metafore in cui è inserita – bisogno,
proprietà, lavoro, contratto, famiglia, codice, pena – privandola della sua
irrinunciabilità. Una critica – non semplice – che rilevi, al fondo del potere
politico moderno, la materialità storicamente determinata dei rapporti
intersoggettivi, che eccede i tentativi di renderla pienamente trasparente, per
non cadere nelle antinomie del progetto giuridico ed esservi nuovamente
sussunta.
https://www.micromega.net/il-progetto-giuridico-ricerche-sulla-giurisprudenza-nel-liberalismo-classico?