lunedì 29 luglio 2024

"RICERCHE SULLA GIURISPRUDENZA NEL LIBERALISMO CLASSICO"

 -Anna Guerini-

IL PROGETTO GIURIDICO 
di Pietro Costa

Una critica che rilevi, al fondo del potere politico moderno, la materialità storicamente determinata dei rapporti intersoggettivi, che eccede i tentativi di renderla pienamente trasparente, per non cadere nelle antinomie del progetto giuridico ed esservi nuovamente sussunta


A cinquant’anni dalla sua pubblicazione, Filippo Del Lucchese e Marco Fioravanti propongono, nella collana Materialismi di DeriveApprodi, una nuova edizione di Il progetto giuridico (1974) di Pietro Costa, arricchito da un’intervista all’autore che inquadra il volume nella sua ricca produzione e nel suo contesto “di nascita”. Come suggerisce il sottotitolo, Ricerche sulla giurisprudenza nel liberalismo classico, Costa scava obliquamente nella mole densissima di materiali della giurisprudenza liberale inglese sei e settecentesca, quale ambito di definizione e accettazione del progetto ideologico, culturale e materiale della classe in via di affermazione egemonica, cioè la borghesia.


L’obliquità dello scavo è duplice. Da un lato, percorrendone puntualmente le linee di tendenza e organizzandole tematicamente, l’autore ricostruisce e situa concetti, forme e valori moderni (felicità, sicurezza, libertà, uguaglianza), ricostruendone la complessa produzione discorsiva attraverso i suoi enunciati primari (bisogno, soddisfazione, differimento, conflitto, proprietà, contratto), per mostrare la rispondenza tra formazione socioeconomica e piano della teoria. Dall’altro, mobilita almeno due riferimenti esterni al suo materiale primario: Marx e Freud.
Nel caso di Freud, l’immagine della topica è traslata dalla coscienza dell’individuo alla società, e il plesso “principio di piacere”, “repressione” e “principio di realtà” viene collegato alla dinamica che lega il desiderio del soggetto, nucleo della zona economico-pulsionale, alle strategie di differimento della sua soddisfazione per ottenere una libertà intersoggettiva non distruttiva. Marx, invece – l’intervista in appendice lo conferma –, fornisce il lessico polemico necessario a inquadrare l’intera operazione di Costa come ricerca sul rapporto sociale di capitale attraverso la sua progettazione giuridica e politica. Il filosofo di Treviri fa capolino ogni volta che un nuovo tassello del progetto giuridico sembra renderlo impenetrabile e insuperabile – demistificando il concetto hobbesiano di bisogno, l’assorbimento del soggetto umano e di tutto ciò che gli è proprio nella proprietà privata e la teoria dell’utilità benthamiana, o mettendo in luce la subordinazione nascosta nella presunta identificazione tra interessi generali e individuali.


Da Hobbes a Bentham, procedendo per détours, Costa mostra che l’emersione e l’affermazione della discorsività del progetto giuridico procede per contestazioni, arricchimenti e adeguamenti. L’invariante che resiste alle variazioni, l’architrave del progetto giuridico, è il concetto hobbesiano di individuo quale soggetto di bisogni, la cui soddisfazione dispone gli uomini uno contro l’altro, l’uno potenzialmente teso alla distruzione dell’altro. I rapporti intersoggettivi sono così segnati geneticamente dal conflitto, tratto caratteristico della «formazione economico-sociale, in linea di tendenza, capitalistica» (38). Hobbes registra la trasformazione delle società moderne occidentali e ne coglie la struttura, elevando la zona dell’economico a suo fulcro e il bisogno che la definisce a principio ermeneutico e oggetto primo di tutti gli enunciati che compongono la discorsività del progetto giuridico a egemonia borghese.


L’interesse individuale, quindi, è eletto a «enunciato riassuntivo e sintetico» (62), e il conflitto intersoggettivo a posta in gioco di ogni teoria sociale che muova da esso: così, il differimento del desiderio si afferma come criterio della sua soddisfazione e dell’ordine sociale. L’economico occupa «per successive rifrazioni, tutto lo spazio discorsivo», marginalizzando progressivamente ogni residuo aristotelico, ogni riferimento alla zona intangibile della virtù. L’esito (benthamiano) è la codificazione di un «modello globale di società» (313), di «una teoria dei luoghi» (107) che ha per contenuto l’insieme di rapporti sociali differenziati e che assume proprietà e contratto a forme giuridiche del rapporto sociale. Con Bentham, riassorbito ogni riferimento alla virtù nella teoria dell’utilità calcolabile, il soggetto ha di fronte a sé un mondo di cose utilizzabili, non più di soggetti in conflitto: eletta a progetto, la possibilità di regolare economicamente la società si realizza nel Codice.


Shaftesbury e Cumberland tentano vanamente di contrapporsi alla logica del bisogno distruttivo, il primo tramite la separazione radicale della mente dal corpo, ridotto a residualità negativa, il secondo riempiendo il vuoto spazio sociale di Hobbes con corpo di parti collaborative che, tuttavia, «sono forme di rapporti sociali già moderne» (121): entrambi rispondono, accettandolo, al quesito di Hobbes, e ragionano a partire da una formazione socioeconomica ormai trasformata.


È, tuttavia, il Locke dei Due trattati sul governo, con la sua definizione della proprietà, a segnare un punto di svolta per l’accettazione definitiva della zona economico-pulsionale. La proprietà – di sé, del lavoro e del prodotto del lavoro – si presenta come soluzione all’instabilità intersoggettiva. Eletta «schema interpretativo generale», la proprietà privata – non più un «concetto generico» ma lo «specifico tipo di proprietà che caratterizzava la società inglese nella sua fase di transizione al capitalismo» (142-143) – limita il desiderio dall’interno, perché limitata è la quantità di soddisfazione che ciascuno può ottenere con il suo lavoro, che del desiderio diventa la regola, la misura. Il denaro, tuttavia, svincolando la proprietà dal consumo, rende i beni disponibili alla smisurata accumulazione, e concepisce il lavoro dell’altro come una merce appropriabile. In un cortocircuito discorsivo, la proprietà lockiana afferma sé stessa tramite il lavoro, e il suo contrario, il lavoro salariato del non-proprietario (o non-proprietà), nel tentativo di neutralizzarne la distruttività.


Il contratto sancisce questo cortocircuito, rinsaldando il nesso tra uguaglianza e diseguaglianze che il binomio proprietà-lavoro elegge a norma sociale. Fondato sulla volontà dei soggetti di bisogni, il contratto concretizza l’eguaglianza nell’istante della sua formulazione, e legittima la subordinazione come suo effetto, ordinando giuridicamente le differenze. Il giuridico, quindi, è l’insieme delle «norme socialmente essenziali» che organizzano il «sistema normativo generale», i cui istituti, proprietà e contratto, esistono e funzionano come sue parti, «comprensibili solo se riferiti alla loro funzione socialmente “ordinante”» (217).
Non mancano i tentativi – ad esempio di Godwin, Hall e Hodgskin – di resistere alla discorsività egemone, svelando il fallimento del tentativo di sublimazione della distruttività: distruttivi sono la non-proprietà, che la proprietà genera necessariamente, il lavoro in quanto non-proprietario, espropriato, il potere politico e la legge, che si rivela essere solo “dei proprietari”. Sono queste contestazioni a obbligare il progetto giuridico a un reinvestimento discorsivo per ricomprendere i soggetti che stanno fuori e/o contro il giuridico, attraverso strategie e apparati ideologici (345) che estendono la logica del giuridico ai luoghi “decentrati” ed “esterni”: in primis, famiglia – «essenziale punto di sutura fra il sociale-generale e l’interiorizzazione del soggetto» (323) –, educazione, religione, filantropia. Il contratto, invece, lavora al “centro” per stratificare la società, assumendo a suo «contenuto materiale […] la costrizione al lavoro attraverso il bisogno» (343) ed eleggendo il lavoro salariato quale ingranaggio del benessere generale. Anch’essi dominati dai bisogni, poveri e salariati hanno solo il lavoro per soddisfarli: riassorbiti nella logica proprietaria, il progetto giuridico li fa sedere, in qualità di ospiti, al «generale banchetto “progressivo”» che ha apparecchiato (339).


Il legislatore di Bentham segna l’apice della pianificazione: getta sopra la società la plasmabile forma-diritto, per ridurre la società, senza residui, a immagine e somiglianza dell’utilità borghese. Rispetto all’economico, vero e proprio piano di realtà dotato di leggi, lo Stato legifera per garantire protezione e promozione indiretta: il diritto è, con Bentham, «composizione delle conflittualità e programmazione politico-giuridica» (225).


Tra le molte linee tematiche individuate da Costa, è utile indicare sinteticamente quelle tracciate dalla temporalità e dalla natura come metafora.
La prima percorre carsicamente il volume, dall’hobbesiano concetto di potere come «impossessamento di tutto il tempo», con il futuro assunto a tempo della soddisfazione, che, irriducibile all’istantaneità, «si gioca tutta nel futuro, ma insieme è giocata dal futuro» (75, 32), fino alla capacità di previsione che Bentham condensa nel Codice, eleggendo la sicurezza a garanzia contro il futuro. Passando per la lockiana proprietà come mezzo per l’immutabilità della soddisfazione (293), con il futuro colto nella sua doppiezza – minaccia della soddisfazione interrotta e miraggio della soddisfazione continuata. Nella temporalità rappresa «nella forma proprietà» (295), che congela ogni dinamismo trasformativo della libertà, si gioca la politica moderna delle passioni, con il futuro, la sua attesa e la sua esorcizzazione – lo confermerà poi Reinhart Koselleck – quali parti integranti della sua tematizzazione giuridica.
La “natura”, invece, è oggetto di trattazione specifica per la sua funzione nella definizione della diade proprietà-lavoro e della metafora quale figura del progetto giuridico e trama del suo tessuto. I contenuti della metafora giusnaturalistica per eccellenza, lo stato di natura, sono le forme sociali essenziali che la giurisprudenza inglese costruisce come fossero essenziali, ordinati, pre-civili. Il tentativo humiano di rompere la metafora, sostenendo che anche la “condizione selvaggia” è sociale, si traduce nella «prosecuzione sotterranea da una metafora all’altra» (308): la giustizia humiana è artificiale, ma in quanto esito della più naturale caratteristica dell’umano, la capacità inventiva. Lo stesso vale per le necessarie forme delle interazioni sociali, proprietà e contratto, effetto non della natura o della volontà, ma delle convenzioni umane, per mezzo delle quali il giuridico organizza la capacità inventiva sollecitata dai bisogni e dalle interazioni tra soggetti. «Ciò che resta del giusnaturalismo in Hume», scrive Costa dandoci un saggio esemplare della forza apparentemente irresistibile del progetto giuridico, «è la sua alterazione in radice: la società trasformata in natura» (310).
Quando Bentham dichiara chiusa «la stagione delle fiction», la naturalizzazione della società arriva al suo apice, resa trasparente dalla progettuale «politica del diritto» del Codice (313-314). A quest’altezza, il giuridico è la metafora che risponde, fuor di metafora, a un economico dominato dal modello del mercato, dandogli forma. Le norme, a questo punto, dettano i termini delle interazioni sociali alla luce di un modello costruito «a immagine e somiglianza» delle classi «solidali col modo di produzione capitalistico» (211). La topica sociale è qualitativamente definita tramite due spaccature: una verticale, che distingue «detentori del potere e obbedienti al potere» (104), e una orizzontale, in forza della quale chi non sa differire – donne, bambini, non-proprietari, devianti – è dominato da chi sa differire, da chi segue la ragione. Sotto questo aspetto, Costa anticipa la riflessione sviluppata da Michel Foucault in quegli anni e condensata in Sorvegliare e punire, pubblicato un anno dopo Il progetto giuridico. Nelle pagine sul “diritto di punire”, il sistema penitenziario benthamiano è luogo in cui si riflette, rovesciata, l’immagine del perfetto uomo borghese (361-380). Il parallelismo benthamiano tra detenuti e lavoratori suggella l’egemonia di questo modello, insieme al Codice, estremo strumento di stabilizzazione della zona economico-pulsionale e della sua distruttività.


L’importanza de Il progetto giuridico, quindi, è duplice. Ricostruendo minuziosamente le varianti teoriche di questa complessa trama ideologica, l’autore ricorda che le contestazioni che gli resistono e lo obbligano a ridefinirsi sono parte integrante della sua storicità. Se, nella maggior parte dei casi, questa ridefinizione è indice della solidità del progetto giuridico stesso, il sottotesto marxiano del volume di Costa rileva la possibilità di una via d’uscita. Il progetto giuridico è conflittuale, perché la formazione sociale che gli corrisponde si cristallizza in una logica fondata sul conflitto distruttivo e sulla necessità di sublimarlo: identificate le varianti storiche della sublimazione, è possibile vagliare quelle che rovesciano criticamente la distruttività e l’intero tessuto di metafore in cui è inserita – bisogno, proprietà, lavoro, contratto, famiglia, codice, pena – privandola della sua irrinunciabilità. Una critica – non semplice – che rilevi, al fondo del potere politico moderno, la materialità storicamente determinata dei rapporti intersoggettivi, che eccede i tentativi di renderla pienamente trasparente, per non cadere nelle antinomie del progetto giuridico ed esservi nuovamente sussunta.

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