-Romaric Godin-
Secondo il padronato e gli attuali governanti francesi il programma del Nuovo Fronte Popolare sarebbe “delirante", invece il loro …
Dal 9 luglio si sono moltiplicati i processi mediatici sull'impossibilità del programma del Nuovo Fronte Popolare. Un'operazione di squalifica che equivale, implicitamente, a rendere le politiche finora perseguite le uniche possibili, nonostante i risultati e i rischi che comportano
Chi conosce la storia conosce anche la “musica”. Quando la sinistra, anche
la più saggia, si avvicina al potere, le grida di dolore del capitale si
sentono e promettono le disgrazie più terribili al Paese. Queste ultime sono
inevitabilmente le stesse: ciò che abbiamo davanti è la bancarotta,
l’isolamento, il collasso. La melodia è ovviamente familiare. L’abbiamo
ritrovata inevitabilmente nel 1936, nel 1981, nel 1997 e anche nel 2012.
Era nell'ordine delle cose che la canzone fosse reinterpretata in questo
mese di luglio 2024, in cui il Nuovo Fronte Popolare (NFP) rivendica la
vittoria nelle ultime elezioni politiche.
La sera dei risultati, domenica 9 luglio, il ministro dell'Economia e delle
Finanze, Bruno Le Maire, ha previsto una “crisi finanziaria” in caso di
applicazione del programma PFN e ha dato l’intonazione al lamento a
venire.
Ha proseguito il presidente del Medef [il padronato francese], Patrick
Martin. L'applicazione del programma della sinistra, ha denunciato lo stesso
giorno all'AFP [l’Ansa francese], "sarebbe fatale per l'economia francese
e accelererebbe il nostro declino".
Il giorno prima, il comunicato stampa del sindacato dei datori di lavoro
aveva promesso la “crisi economica profonda e duratura”. Poi si è alzato il
coro di persone in lutto che denunciavano il pericolo e la follia del programma
PFN.
L'“incoscienza e l'irrealismo di tale programma” vogliono ovviamente
squalificare la sinistra rispetto all'esercizio del potere ancor più
dell'aritmetica parlamentare.
Questa è anche l'analisi di Jacques Attali su Les Échos: ritiene che
il sicuro fallimento del programma PFN screditerà a lungo la sinistra. E,
bisogna ammetterlo, è senza dubbio questo l’obiettivo principale della manovra
padronale (dei dominanti). Come sempre, si tratta di allineare la sinistra,
o escludendola dal potere, oppure, come nel 1983 o nel 2012, facendole
accettare le politiche dei suoi avversari.
Infine, questa famosa melodia è proprio la famosa Tina [There is
not alternative /Non c’è alternativa: la parola d’ordine della Thatcher]
degli inizi del neoliberismo. Ciò che potremmo tradurre politicamente in questo
modo, un po’ più bruscamente ma un po’ più realisticamente: in democrazia,
le persone votano, ma il vero potere è detenuto dal capitale. Questo è ciò
che Patrick Martin chiama elegantemente il “ritorno alla realtà”.
A fronte: disastri passati e futuri
Il programma PFN non è esente da problemi e difficoltà. Evita alcuni
problemi importanti. Ciò è del tutto normale per un programma elettorale
scritto in fretta e furia fra partiti che non sempre sono d'accordo su tutto.
Non è quindi né perfetto né miracoloso. Ma, come invita il capo dei capi (del
Medef), dobbiamo ritornare alla realtà.
E questo ha due facce. Quello della valutazione innanzitutto, cioè della
situazione provocata dalla politica sostenuta, messa in atto o raccomandata da
Medef, Bruno Le Maire e da tutto il coro dei dolenti (dominanti). Dopo sette
anni – si potrebbe dire anche quindici – è difficile che non lo rivendichino
nella sua interezza. Possiamo far finta di pensare, come fa chi è ancora
inquilino di Bercy, che tutto vada bene nel migliore dei mondi possibili, ma
“la realtà” assomiglia molto di più a questa: dalla radicalizzazione delle
politiche neoliberiste in Francia con Nicolas Sarkozy, la situazione economica
è peggiorata e l’estrema destra è diventata la principale forza politica del
paese.
Lo stato del Paese, la disuguaglianza e il reddito sono il carburante della
crisi politica, e non viceversa. Dobbiamo confrontare le proposte del PFN con
quelle dei suoi concorrenti.
Per la stragrande maggioranza dei francesi l’urgenza era quella di
allontanarsi da questa logica delle politiche neoliberiste. Questa è la
valutazione letterale che possiamo fare del primo turno delle elezioni
legislative, ma anche dei movimenti sociali che si sono susseguiti negli ultimi
anni.
Il Nuovo Fronte Popolare si propone innanzitutto di allontanarsi da queste
politiche. Il suo programma è quindi innanzitutto un programma di inversione
e di abolizione delle politiche finora portate avanti: è
democraticamente legittimo e piuttosto logico sul piano economico.
Se una politica è disfunzionale, se non è nemmeno capace, nonostante quasi
250 miliardi di euro di spesa, di ritornare al trend pre-crisi e di preservare
i salari reali dei lavoratori, non sembra folle cercare un’altra strada.
L'altro lato della realtà è che dobbiamo confrontare le proposte del PFN
con quelle dei suoi concorrenti. Se la loro applicazione è un “disastro”, che
dire del programma del “blocco centrale” (cioè il partito di Macron e le destre
tradizionali), che ama definirsi come "moderato"?
La sua principale promessa è quella di una severa austerità in un momento
in cui la crescita è più debole (l’INSEE non prevede più dell’1,1% per il 2024
sulla base di ipotesi piuttosto favorevoli). Giovedì 11 luglio, lo stesso Bruno
Le Maire, che aveva predetto alla Francia le sette piaghe d'Egitto in caso di
applicazione del programma PFN, aveva rilanciato la cifra di 5 miliardi di euro
come “bisogno di economia” della Francia e inviato una lettera di notifica ai
ministeri, affinché riducessero il tetto di spesa. In totale, quest’anno
dovrebbero essere tagliati 25 miliardi di euro di spesa.
E questo è solo l'inizio. Secondo l'economista tedesco Philipp Heimberger
lo sforzo di risanamento del bilancio richiesto dalle nuove regole europee
ammonta a 3,8% del Pil in tre anni, più del doppio dello sforzo compiuto dalla
Francia tra il 2011 e il 2014. E ancora una volta, queste cifre non tengono
conto dell’impatto di questa austerità sulla crescita.
Insomma, chi dà lezioni dimentica un elemento importante: suggerisce con un
sorriso di ripetere gli errori degli anni 2010 e sostiene che l’austerità è una
condizione per la crescita. Il ritorno del più grande errore economico del
secolo, quello dell’“austerità espansiva” difesa nel 2010 da Jean-Claude
Trichet, allora presidente della Banca Centrale Europea, la dice lunga sulla
sua “gravità”. L’austerità, per un paese come la Francia, è certamente la
rovina. Da allora, diversi studi sono arrivati a dimostrare che l’austerità
ha avuto un effetto negativo a lungo termine sulla crescita e sulla
produttività (vedi qui, per
esempio). E i fatti hanno supportato questa ricerca: il divario di crescita tra
Europa e Stati Uniti riflette in gran parte gli effetti degli errori degli anni
2010. Ma ora ci viene assicurato che non esiste alcuna alternativa e che si
tratta di una politica basata sul buon senso. Ora, va detto: l’austerità, per
un Paese come la Francia, largamente dipendente dal consumo di servizi
domestici e dagli appalti pubblici, è certamente una rovina. I mercati
senza dubbio applaudirebbero, ma presto rimarrebbero delusi e chiederebbero
sempre di più. Non osiamo immaginare a cosa porterebbe politicamente al Paese
questo tipo di scelte.
Un programma di sostegno economico
La demonizzazione del programma della sinistra è un gioco mainstream dei
dominanti. Le classi dirigenti soffrono meno dell’austerità, che favorisce chi
possiede attività finanziarie, rispetto alla maggioranza degli abitanti che
vedranno i servizi pubblici peggiorare ulteriormente.
Ma l’approccio consiste nel far credere che gli interessi dei detentori del
capitale siano gli interessi generali della società. Pertanto, qualsiasi
politica che metta in discussione questo interesse – o ciò che le classi
dominanti interpretano come tale interesse – è ritenuta inaccettabile e
destabilizzante per la società. Anche se questa società sarebbe già
destabilizzata da politiche favorevoli al capitale.
Diciamolo però: il capitale è molto ingrato, perché il programma PFN è
stato depurato da ogni richiesta di modifica dell'assetto sociale e di
controllo delle leve economiche.
Si concentra su una politica di correzione degli eccessi del macronismo e
delle disuguaglianze che ha provocato. È un programma di notevole
moderazione.
Il controllo dell’economia rimane in gran parte nelle mani del settore
privato che si spera di sostenere attraverso una politica volta a rilanciare la
domanda. In un certo senso, il programma NFP spera addirittura di salvare il
capitalismo dagli errori dei capitalisti.
Facendo pressione sul tasso di profitto, non immagina di provocare una
caduta della proprietà privata dei mezzi di produzione, al contrario, spera di
vederlo come un incentivo agli investimenti e al miglioramento dei guadagni di
produttività, che è il male fondamentale dell’economia contemporanea.
La scommessa [del PFN] è quella di “gestire meglio” il capitalismo. [É un
programma da riformismo socialdemocratico, quindi nulla di radicale. Fu, ad
esempio, quello di Roosevelt e del keynesismo dopo la crisi del 1929.
NdT].
Tuttavia, anche in questo caso, la diagnosi è logica. Per quattro decenni
abbiamo sostenuto il tasso di profitto nella speranza che questi profitti
venissero reinvestiti nel miglioramento della produttività.
Questa cosiddetta politica “dal lato dell’offerta” è un palese fallimento:
gli incrementi di produttività hanno continuato a diminuire. Logicamente, la
sinistra propone un altro metodo, certamente più duro nei confronti del
capitale, ma senza dubbio meno dannoso dell’austerità: la pressione sui costi.
Le imprese, soggette a ciò e alla crescente pressione fiscale, ma avendo un
mercato alimentato dall’aumento della domanda, dovranno migliorare la propria
produttività per aumentare il tasso di profitto. Si tratta di una vecchia
ricetta che, di fatto, vincola – per il suo bene ultimo – il settore privato.
Capiamo che questo gli dispiaccia, ma la logica economica non è più “folle” di
quella dell’austerità.
Inoltre, abbiamo la prova che il PFN non è anticapitalista e che è quindi
favorevole all’attuale sistema economico: l’idea di “tassare i ricchi” per
finanziare le spese ricorrenti sottintende persino la possibilità di eliminare
questa tassa. Presuppone la permanenza dei “ricchi” e la loro capacità di
creare valore. La sfida è quindi quella di “gestire meglio” il capitalismo. Fu,
ad esempio, quella di Roosevelt. Anche in questo caso abbiamo un approccio
piuttosto logico e razionale.
Lo stesso vale per la volontà di ripristinare i servizi pubblici. Fare
pressione sulla spesa per i servizi pubblici per finanziare le politiche di
sostegno alle imprese è stata la politica centrale di un paese come la Germania
negli anni 1995-2015. I risultati sono disastrosi sia politicamente che
economicamente. La Germania ha un basso rapporto debito/PIL. Ma a quale costo?
Quella di un Paese con infrastrutture carenti, innovazione inesistente e
un’industria che invecchia. Ed è proprio questo modello che ci viene ancora
presentato come la “normalità” della politica economica?
In realtà i servizi pubblici sono elementi di attrattività, produttività e
innovazione. Al contrario, un paese vicino, la Spagna, ha condotto dal 2018 una
politica di rifiuto dell’austerità, ha aumentato il salario minimo, ha
inasprito le leggi sul lavoro, ha introdotto una tassa sui profitti bancari ed
è attualmente il paese più dinamico del continente.
Il calo del tasso di disoccupazione in Spagna
Nel 2024, la crescita del PIL spagnolo è stata del 2,4%, più del doppio di
quella della Francia (1,1%) dove, secondo i difensori della politica
macronista, stiamo conducendo una politica economica quasi ideale.
Naturalmente, il caso spagnolo ha le sue particolarità. Il punto di
partenza, i tempi e la struttura economica dei due paesi non sono gli stessi, e
l’agenda della PFN va, in molti casi, oltre. Ma resta il fatto: i mercati non
hanno attaccato la Spagna, che ha ridotto il suo deficit senza austerità, il
che indebolisce notevolmente la posizione di “razionalità” dei critici
ortodossi del programma di sinistra.
In un certo senso, potremmo invertire il ragionamento di Jacques Attali:
volendo garantire il suo imperialismo economico, il neoliberismo che difende
non potrà più sfuggire a lungo alla realtà dei suoi risultati. Lanciandosi
nell’austerità, getta il paese nel caos politico che lo travolgerà. Ma già
alcuni si stanno preparando a riciclare questo programma con l’estrema
destra.
Qualunque sia il colore del Parlamento, è il capitale che governa.
L’apocalisse attraverso il salario minimo?
Uno degli elementi concreti del programma PFN, il più criticato, è quello
dell'aumento del salario minimo a 1.600 euro netti, che rappresenta un aumento
del 14%. Gli editorialisti economici soffocano con questa idea che
distruggerebbe la competitività delle imprese, aumenterebbe il costo del lavoro
e porterebbe ad un’esplosione dell’inflazione. Questo sarebbe “buon senso”.
Su France Info, l’11 luglio, François Villeroy de Galhau, governatore della
Banque de France, ex alto dirigente di BNP Paribas ed erede di una dinastia
industriale, affermava con sicurezza: “Le nostre aziende non possono essere
appesantite da costi salariali eccessivi, compresi il salario minimo […]. Ciò
sarebbe molto dannoso per l’occupazione nell’immediato e per il potere
d’acquisto a lungo termine.”
Ma il “buon senso” è innanzitutto pigrizia intellettuale. Stranamente,
l’impatto del salario minimo è molto dibattuto negli ambienti economici. Nel
2021, la Banca di Svezia ha assegnato il premio per le scienze economiche in
omaggio ad Alfred Nobel a David Card, che
aveva dimostrato, attraverso studi empirici, che il “senso comune”
dell’ortodossia non necessariamente funziona: il salario minimo non distrugge
posti di lavoro.
La prova che qui le critiche sono più ideologiche che razionali.
In effetti, su questo argomento sono numerosi gli studi contraddittori sui
quali, contrariamente a quanto si sente dire in Francia, non esiste consenso.
Nel 2023, uno studio pubblicato sulla molto seria Review of
Economic Studies, sicuramente non una
gazzetta ‘marxisteggiante’, mostrava che il salario minimo aveva effetti
positivi sull'impiego, smentendo la teoria centrale che vede questo salario
minimo come una “rigidità” dei prezzi.
Insomma, le cose non sono semplici. Per quanto riguarda la Francia, una
ricerca dell'Istituto di ricerche economiche e sociali (Ires -francese)
realizzato da Pierre Concialdi ha
esplorato le conseguenze di un aumento del 15% del salario minimo. Lo studio è
interessante in quanto presenta già tre elementi chiave del contesto.
Innanzitutto, il salario minimo francese è il più basso tra i paesi in cui il salario minimo supera i 1.500 euro. È molto inferiore a quello di Belgio, Paesi Bassi, Germania, Irlanda e Lussemburgo. Allora è il minimo “caricato” di contributi. Infine, è quello che, nei grandi paesi europei, ha fatto meno progressi in dieci anni. Tra gennaio 2014 e gennaio 2024, il valore reale del salario minimo è diminuito dello 0,1%, rispetto a un aumento dell’11,3% in Germania e del 17% nel Regno Unito.
La conclusione è chiara: siamo lontani da “costi salariali
eccessivi”.
La perdita di valore reale del salario minimo nell’arco di dieci anni
rafforza la giustificazione per una correzione al rialzo. Tanto più che lo
stesso studio sottolinea che il livello salariale “dignitoso” è, per una
persona sola, pari a 1,23 del salario minimo all’inizio del 2022.
Questo divario suggerisce che il previsto aumento del salario minimo
sosterrà effettivamente i consumi delle famiglie, il che non sarà un lusso per
un settore del commercio di beni in grande difficoltà in Francia.
In altre parole: l'occupazione non dipende solo dai costi aziendali, ma
anche dal reddito. Se la domanda aumenta, aumenterà anche l’occupazione,
soprattutto nei servizi in cui gli incrementi di produttività sono ridotti.
Ad esempio, gli studi stimano che l’aumento del 22% del salario minimo
spagnolo nel 2019 abbia reso più difficile la ricerca di un lavoro a breve
termine dell’1,7%. Ma, alla fine, l’occupazione spagnola è complessivamente
migliorata, in parte perché questo effetto negativo è stato
controbilanciato dall’effetto complessivo dell’aumento dei redditi. Tanto più
che l’aumento del salario minimo spagnolo è stato essenziale per il tenore di
vita delle famiglie.
Per quanto riguarda il costo del lavoro, non aumenterebbe, dati i bassi
contributi al salario minimo e anche tenendo conto dell’effetto a catena sul
resto degli stipendi. Lo studio Ires stima che l'aumento del 15% del salario
minimo porterà ad un aumento complessivo dell'1,6% delle retribuzioni nette e
ad una diminuzione dello 0,7% dei costi salariali. Tenendo conto del calo del bonus
di attività, l'economista Clément Carbonnier stima il costo aggiuntivo per le
finanze pubbliche in 10 miliardi di euro. Costo non solo sopportabile, ma anche
riassorbibile attraverso una riduzione delle esenzioni sulle retribuzioni che
superano una certa soglia.
Problemi, ma non più che con i concorrenti
Non vi è quindi alcuna ragione perché questo aumento del salario minimo
provochi un collasso economico. La strategia della paura evita ogni
razionalità.
Ciò significa che il programma PFN non pone problemi? Certamente no.
Niente dice che sia in grado di affrontare le sfide del capitalismo
contemporaneo. Osservando da vicino la situazione, si potrebbe addirittura pensare che non sia così. Il
problema centrale sarà, ovviamente, quello del suo finanziamento, nel caso in
cui i mercati smettessero di concedere prestiti alla Francia. Questo è un
problema serio. Ma è innanzitutto un problema politico e non economico. Va
innanzitutto chiarito che una simile resa dei conti non può essere data per
scontata: i mercati non finanzieranno una politica di rottura, ma questo non è
il progetto del PFN.
Sul piano economico, esistono alternative di finanziamento e va ricordato
che una crisi del debito francese sarebbe un cataclisma finanziario globale,
poiché le banche europee hanno una pletora di titoli francesi nei loro
bilanci.
Resta il fatto che qualsiasi politica di sinistra deve anticipare
l’equilibrio di potere con le strutture di capitale esistenti e prepararsi ad
esso. La vera questione non sarà tanto quella del finanziamento in sé quanto
quella di sapere chi cederà per primo.
[Purtroppo] La sinistra finora non ha mai mostrato molta resistenza
alle pressioni e la debolezza della sua posizione elettorale non fa ben
sperare. Ma non c'è “impossibilità” di finanziamento in sé. È possibile dare
priorità alla spesa, rivedere i massicci trasferimenti di 200 miliardi di euro
concessi al settore privato e organizzare finanziamenti alternativi (il
programma PFN menziona anche una banca pubblica per raccogliere e indirizzare
il risparmio, ma si possono citare anche i prestiti forzati).
È innegabile che ci siano ostacoli all’applicazione del programma PFN, che
ha i suoi limiti e i suoi vicoli ciechi. Ma non è, come ha affermato Gérald
Darmanin giovedì 11 luglio, più “delirante” del programma della destra e
dell’estrema destra, che non tiene conto né dello stato attuale del capitalismo
né dei fallimenti passati delle strategie di austerità.
Una versione ridotta dello stesso è stata rilanciata dalla redazione italiana di pressenza.com