domenica 14 luglio 2024

IL PROGRAMMA DEL NOUVEAU FRONT POPULAIRE È «DELIRANTE»?

 -Romaric Godin-

Secondo il padronato e gli attuali governanti francesi il programma del Nuovo Fronte Popolare sarebbe “delirante", invece il loro …


 


Dal 9 luglio si sono moltiplicati i processi mediatici sull'impossibilità del programma del Nuovo Fronte Popolare. Un'operazione di squalifica che equivale, implicitamente, a rendere le politiche finora perseguite le uniche possibili, nonostante i risultati e i rischi che comportano  

Chi conosce la storia conosce anche la “musica”. Quando la sinistra, anche la più saggia, si avvicina al potere, le grida di dolore del capitale si sentono e promettono le disgrazie più terribili al Paese. Queste ultime sono inevitabilmente le stesse: ciò che abbiamo davanti è la bancarotta, l’isolamento, il collasso. La melodia è ovviamente familiare. L’abbiamo ritrovata inevitabilmente nel 1936, nel 1981, nel 1997 e anche nel 2012. 

Era nell'ordine delle cose che la canzone fosse reinterpretata in questo mese di luglio 2024, in cui il Nuovo Fronte Popolare (NFP) rivendica la vittoria nelle ultime elezioni politiche. 

La sera dei risultati, domenica 9 luglio, il ministro dell'Economia e delle Finanze, Bruno Le Maire, ha previsto una “crisi finanziaria” in caso di applicazione del programma PFN e ha dato l’intonazione al lamento a venire. 

Ha proseguito il presidente del Medef [il padronato francese], Patrick Martin. L'applicazione del programma della sinistra, ha denunciato lo stesso giorno all'AFP [l’Ansa francese], "sarebbe fatale per l'economia francese e accelererebbe il nostro declino".

Il giorno prima, il comunicato stampa del sindacato dei datori di lavoro aveva promesso la “crisi economica profonda e duratura”. Poi si è alzato il coro di persone in lutto che denunciavano il pericolo e la follia del programma PFN. 

L'“incoscienza e l'irrealismo di tale programma” vogliono ovviamente squalificare la sinistra rispetto all'esercizio del potere ancor più dell'aritmetica parlamentare. 

Questa è anche l'analisi di Jacques Attali su Les Échos: ritiene che il sicuro fallimento del programma PFN screditerà a lungo la sinistra. E, bisogna ammetterlo, è senza dubbio questo l’obiettivo principale della manovra padronale (dei dominanti). Come sempre, si tratta di allineare la sinistra, o escludendola dal potere, oppure, come nel 1983 o nel 2012, facendole accettare le politiche dei suoi avversari

Infine, questa famosa melodia è proprio la famosa Tina [There is not alternative /Non c’è alternativa: la parola d’ordine della Thatcher] degli inizi del neoliberismo. Ciò che potremmo tradurre politicamente in questo modo, un po’ più bruscamente ma un po’ più realisticamente: in democrazia, le persone votano, ma il vero potere è detenuto dal capitale. Questo è ciò che Patrick Martin chiama elegantemente il “ritorno alla realtà”. 

 

A fronte: disastri passati e futuri 

Il programma PFN non è esente da problemi e difficoltà. Evita alcuni problemi importanti. Ciò è del tutto normale per un programma elettorale scritto in fretta e furia fra partiti che non sempre sono d'accordo su tutto. Non è quindi né perfetto né miracoloso. Ma, come invita il capo dei capi (del Medef), dobbiamo ritornare alla realtà. 

E questo ha due facce. Quello della valutazione innanzitutto, cioè della situazione provocata dalla politica sostenuta, messa in atto o raccomandata da Medef, Bruno Le Maire e da tutto il coro dei dolenti (dominanti). Dopo sette anni – si potrebbe dire anche quindici – è difficile che non lo rivendichino nella sua interezza. Possiamo far finta di pensare, come fa chi è ancora inquilino di Bercy, che tutto vada bene nel migliore dei mondi possibili, ma “la realtà” assomiglia molto di più a questa: dalla radicalizzazione delle politiche neoliberiste in Francia con Nicolas Sarkozy, la situazione economica è peggiorata e l’estrema destra è diventata la principale forza politica del paese. 

Lo stato del Paese, la disuguaglianza e il reddito sono il carburante della crisi politica, e non viceversa. Dobbiamo confrontare le proposte del PFN con quelle dei suoi concorrenti. 

Per la stragrande maggioranza dei francesi l’urgenza era quella di allontanarsi da questa logica delle politiche neoliberiste. Questa è la valutazione letterale che possiamo fare del primo turno delle elezioni legislative, ma anche dei movimenti sociali che si sono susseguiti negli ultimi anni. 

Il Nuovo Fronte Popolare si propone innanzitutto di allontanarsi da queste politiche. Il suo programma è quindi innanzitutto un programma di inversione e di abolizione delle politiche finora portate avanti: è democraticamente legittimo e piuttosto logico sul piano economico

Se una politica è disfunzionale, se non è nemmeno capace, nonostante quasi 250 miliardi di euro di spesa, di ritornare al trend pre-crisi e di preservare i salari reali dei lavoratori, non sembra folle cercare un’altra strada. 

L'altro lato della realtà è che dobbiamo confrontare le proposte del PFN con quelle dei suoi concorrenti. Se la loro applicazione è un “disastro”, che dire del programma del “blocco centrale” (cioè il partito di Macron e le destre tradizionali), che ama definirsi come "moderato"?

La sua principale promessa è quella di una severa austerità in un momento in cui la crescita è più debole (l’INSEE non prevede più dell’1,1% per il 2024 sulla base di ipotesi piuttosto favorevoli). Giovedì 11 luglio, lo stesso Bruno Le Maire, che aveva predetto alla Francia le sette piaghe d'Egitto in caso di applicazione del programma PFN, aveva rilanciato la cifra di 5 miliardi di euro come “bisogno di economia” della Francia e inviato una lettera di notifica ai ministeri, affinché riducessero il tetto di spesa. In totale, quest’anno dovrebbero essere tagliati 25 miliardi di euro di spesa. 

E questo è solo l'inizio. Secondo l'economista tedesco Philipp Heimberger lo sforzo di risanamento del bilancio richiesto dalle nuove regole europee ammonta a 3,8% del Pil in tre anni, più del doppio dello sforzo compiuto dalla Francia tra il 2011 e il 2014. E ancora una volta, queste cifre non tengono conto dell’impatto di questa austerità sulla crescita. 

Insomma, chi dà lezioni dimentica un elemento importante: suggerisce con un sorriso di ripetere gli errori degli anni 2010 e sostiene che l’austerità è una condizione per la crescita. Il ritorno del più grande errore economico del secolo, quello dell’“austerità espansiva” difesa nel 2010 da Jean-Claude Trichet, allora presidente della Banca Centrale Europea, la dice lunga sulla sua “gravità”. L’austerità, per un paese come la Francia, è certamente la rovina. Da allora, diversi studi sono arrivati a dimostrare che l’austerità ha avuto un effetto negativo a lungo termine sulla crescita e sulla produttività (vedi qui, per esempio). E i fatti hanno supportato questa ricerca: il divario di crescita tra Europa e Stati Uniti riflette in gran parte gli effetti degli errori degli anni 2010. Ma ora ci viene assicurato che non esiste alcuna alternativa e che si tratta di una politica basata sul buon senso. Ora, va detto: l’austerità, per un Paese come la Francia, largamente dipendente dal consumo di servizi domestici e dagli appalti pubblici, è certamente una rovina. I mercati senza dubbio applaudirebbero, ma presto rimarrebbero delusi e chiederebbero sempre di più. Non osiamo immaginare a cosa porterebbe politicamente al Paese questo tipo di scelte. 

 

Un programma di sostegno economico 

La demonizzazione del programma della sinistra è un gioco mainstream dei dominanti. Le classi dirigenti soffrono meno dell’austerità, che favorisce chi possiede attività finanziarie, rispetto alla maggioranza degli abitanti che vedranno i servizi pubblici peggiorare ulteriormente. 

Ma l’approccio consiste nel far credere che gli interessi dei detentori del capitale siano gli interessi generali della società. Pertanto, qualsiasi politica che metta in discussione questo interesse – o ciò che le classi dominanti interpretano come tale interesse – è ritenuta inaccettabile e destabilizzante per la società. Anche se questa società sarebbe già destabilizzata da politiche favorevoli al capitale.

Diciamolo però: il capitale è molto ingrato, perché il programma PFN è stato depurato da ogni richiesta di modifica dell'assetto sociale e di controllo delle leve economiche. 

Si concentra su una politica di correzione degli eccessi del macronismo e delle disuguaglianze che ha provocato. È un programma di notevole moderazione. 

Il controllo dell’economia rimane in gran parte nelle mani del settore privato che si spera di sostenere attraverso una politica volta a rilanciare la domanda. In un certo senso, il programma NFP spera addirittura di salvare il capitalismo dagli errori dei capitalisti. 

Facendo pressione sul tasso di profitto, non immagina di provocare una caduta della proprietà privata dei mezzi di produzione, al contrario, spera di vederlo come un incentivo agli investimenti e al miglioramento dei guadagni di produttività, che è il male fondamentale dell’economia contemporanea. 

La scommessa [del PFN] è quella di “gestire meglio” il capitalismo. [É un programma da riformismo socialdemocratico, quindi nulla di radicale. Fu, ad esempio, quello di Roosevelt e del keynesismo dopo la crisi del 1929. NdT]. 

Tuttavia, anche in questo caso, la diagnosi è logica. Per quattro decenni abbiamo sostenuto il tasso di profitto nella speranza che questi profitti venissero reinvestiti nel miglioramento della produttività. 

Questa cosiddetta politica “dal lato dell’offerta” è un palese fallimento: gli incrementi di produttività hanno continuato a diminuire. Logicamente, la sinistra propone un altro metodo, certamente più duro nei confronti del capitale, ma senza dubbio meno dannoso dell’austerità: la pressione sui costi. 

Le imprese, soggette a ciò e alla crescente pressione fiscale, ma avendo un mercato alimentato dall’aumento della domanda, dovranno migliorare la propria produttività per aumentare il tasso di profitto. Si tratta di una vecchia ricetta che, di fatto, vincola – per il suo bene ultimo – il settore privato. Capiamo che questo gli dispiaccia, ma la logica economica non è più “folle” di quella dell’austerità. 

Inoltre, abbiamo la prova che il PFN non è anticapitalista e che è quindi favorevole all’attuale sistema economico: l’idea di “tassare i ricchi” per finanziare le spese ricorrenti sottintende persino la possibilità di eliminare questa tassa. Presuppone la permanenza dei “ricchi” e la loro capacità di creare valore. La sfida è quindi quella di “gestire meglio” il capitalismo. Fu, ad esempio, quella di Roosevelt. Anche in questo caso abbiamo un approccio piuttosto logico e razionale. 

Lo stesso vale per la volontà di ripristinare i servizi pubblici. Fare pressione sulla spesa per i servizi pubblici per finanziare le politiche di sostegno alle imprese è stata la politica centrale di un paese come la Germania negli anni 1995-2015. I risultati sono disastrosi sia politicamente che economicamente. La Germania ha un basso rapporto debito/PIL. Ma a quale costo? Quella di un Paese con infrastrutture carenti, innovazione inesistente e un’industria che invecchia. Ed è proprio questo modello che ci viene ancora presentato come la “normalità” della politica economica? 

In realtà i servizi pubblici sono elementi di attrattività, produttività e innovazione. Al contrario, un paese vicino, la Spagna, ha condotto dal 2018 una politica di rifiuto dell’austerità, ha aumentato il salario minimo, ha inasprito le leggi sul lavoro, ha introdotto una tassa sui profitti bancari ed è attualmente il paese più dinamico del continente.

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Il calo del tasso di disoccupazione in Spagna

Nel 2024, la crescita del PIL spagnolo è stata del 2,4%, più del doppio di quella della Francia (1,1%) dove, secondo i difensori della politica macronista, stiamo conducendo una politica economica quasi ideale. 

Naturalmente, il caso spagnolo ha le sue particolarità. Il punto di partenza, i tempi e la struttura economica dei due paesi non sono gli stessi, e l’agenda della PFN va, in molti casi, oltre. Ma resta il fatto: i mercati non hanno attaccato la Spagna, che ha ridotto il suo deficit senza austerità, il che indebolisce notevolmente la posizione di “razionalità” dei critici ortodossi del programma di sinistra. 

In un certo senso, potremmo invertire il ragionamento di Jacques Attali: volendo garantire il suo imperialismo economico, il neoliberismo che difende non potrà più sfuggire a lungo alla realtà dei suoi risultati. Lanciandosi nell’austerità, getta il paese nel caos politico che lo travolgerà. Ma già alcuni si stanno preparando a riciclare questo programma con l’estrema destra. 

Qualunque sia il colore del Parlamento, è il capitale che governa. 

 

L’apocalisse attraverso il salario minimo? 

Uno degli elementi concreti del programma PFN, il più criticato, è quello dell'aumento del salario minimo a 1.600 euro netti, che rappresenta un aumento del 14%. Gli editorialisti economici soffocano con questa idea che distruggerebbe la competitività delle imprese, aumenterebbe il costo del lavoro e porterebbe ad un’esplosione dell’inflazione. Questo sarebbe “buon senso”.

Su France Info, l’11 luglio, François Villeroy de Galhau, governatore della Banque de France, ex alto dirigente di BNP Paribas ed erede di una dinastia industriale, affermava con sicurezza: “Le nostre aziende non possono essere appesantite da costi salariali eccessivi, compresi il salario minimo […]. Ciò sarebbe molto dannoso per l’occupazione nell’immediato e per il potere d’acquisto a lungo termine.” 

Ma il “buon senso” è innanzitutto pigrizia intellettuale. Stranamente, l’impatto del salario minimo è molto dibattuto negli ambienti economici. Nel 2021, la Banca di Svezia ha assegnato il premio per le scienze economiche in omaggio ad Alfred Nobel a David Card, che aveva dimostrato, attraverso studi empirici, che il “senso comune” dell’ortodossia non necessariamente funziona: il salario minimo non distrugge posti di lavoro. 

La prova che qui le critiche sono più ideologiche che razionali. 

In effetti, su questo argomento sono numerosi gli studi contraddittori sui quali, contrariamente a quanto si sente dire in Francia, non esiste consenso. Nel 2023, uno studio pubblicato sulla molto seria Review of Economic Studies, sicuramente non una gazzetta ‘marxisteggiante’, mostrava che il salario minimo aveva effetti positivi sull'impiego, smentendo la teoria centrale che vede questo salario minimo come una “rigidità” dei prezzi. 

Insomma, le cose non sono semplici. Per quanto riguarda la Francia, una ricerca dell'Istituto di ricerche economiche e sociali (Ires -francese) realizzato da Pierre Concialdi ha esplorato le conseguenze di un aumento del 15% del salario minimo. Lo studio è interessante in quanto presenta già tre elementi chiave del contesto. 

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Innanzitutto, il salario minimo francese è il più basso tra i paesi in cui il salario minimo supera i 1.500 euro. È molto inferiore a quello di Belgio, Paesi Bassi, Germania, Irlanda e Lussemburgo. Allora è il minimo “caricato” di contributi. Infine, è quello che, nei grandi paesi europei, ha fatto meno progressi in dieci anni. Tra gennaio 2014 e gennaio 2024, il valore reale del salario minimo è diminuito dello 0,1%, rispetto a un aumento dell’11,3% in Germania e del 17% nel Regno Unito. 

La conclusione è chiara: siamo lontani da “costi salariali eccessivi”. 

La perdita di valore reale del salario minimo nell’arco di dieci anni rafforza la giustificazione per una correzione al rialzo. Tanto più che lo stesso studio sottolinea che il livello salariale “dignitoso” è, per una persona sola, pari a 1,23 del salario minimo all’inizio del 2022. 

Questo divario suggerisce che il previsto aumento del salario minimo sosterrà effettivamente i consumi delle famiglie, il che non sarà un lusso per un settore del commercio di beni in grande difficoltà in Francia. 

In altre parole: l'occupazione non dipende solo dai costi aziendali, ma anche dal reddito. Se la domanda aumenta, aumenterà anche l’occupazione, soprattutto nei servizi in cui gli incrementi di produttività sono ridotti.


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Ad esempio, gli studi stimano che l’aumento del 22% del salario minimo spagnolo nel 2019 abbia reso più difficile la ricerca di un lavoro a breve termine dell’1,7%. Ma, alla fine, l’occupazione spagnola è complessivamente migliorata, in parte perché questo effetto negativo è stato controbilanciato dall’effetto complessivo dell’aumento dei redditi. Tanto più che l’aumento del salario minimo spagnolo è stato essenziale per il tenore di vita delle famiglie. 

Per quanto riguarda il costo del lavoro, non aumenterebbe, dati i bassi contributi al salario minimo e anche tenendo conto dell’effetto a catena sul resto degli stipendi. Lo studio Ires stima che l'aumento del 15% del salario minimo porterà ad un aumento complessivo dell'1,6% delle retribuzioni nette e ad una diminuzione dello 0,7% dei costi salariali. Tenendo conto del calo del bonus di attività, l'economista Clément Carbonnier stima il costo aggiuntivo per le finanze pubbliche in 10 miliardi di euro. Costo non solo sopportabile, ma anche riassorbibile attraverso una riduzione delle esenzioni sulle retribuzioni che superano una certa soglia. 

 

Problemi, ma non più che con i concorrenti

Non vi è quindi alcuna ragione perché questo aumento del salario minimo provochi un collasso economico. La strategia della paura evita ogni razionalità.

 Ciò significa che il programma PFN non pone problemi? Certamente no. Niente dice che sia in grado di affrontare le sfide del capitalismo contemporaneo. Osservando da vicino la situazione, si potrebbe addirittura pensare che non sia così. Il problema centrale sarà, ovviamente, quello del suo finanziamento, nel caso in cui i mercati smettessero di concedere prestiti alla Francia. Questo è un problema serio. Ma è innanzitutto un problema politico e non economico. Va innanzitutto chiarito che una simile resa dei conti non può essere data per scontata: i mercati non finanzieranno una politica di rottura, ma questo non è il progetto del PFN.

Sul piano economico, esistono alternative di finanziamento e va ricordato che una crisi del debito francese sarebbe un cataclisma finanziario globale, poiché le banche europee hanno una pletora di titoli francesi nei loro bilanci. 

Resta il fatto che qualsiasi politica di sinistra deve anticipare l’equilibrio di potere con le strutture di capitale esistenti e prepararsi ad esso. La vera questione non sarà tanto quella del finanziamento in sé quanto quella di sapere chi cederà per primo. 

[Purtroppo] La sinistra finora non ha mai mostrato molta resistenza alle pressioni e la debolezza della sua posizione elettorale non fa ben sperare. Ma non c'è “impossibilità” di finanziamento in sé. È possibile dare priorità alla spesa, rivedere i massicci trasferimenti di 200 miliardi di euro concessi al settore privato e organizzare finanziamenti alternativi (il programma PFN menziona anche una banca pubblica per raccogliere e indirizzare il risparmio, ma si possono citare anche i prestiti forzati). 

È innegabile che ci siano ostacoli all’applicazione del programma PFN, che ha i suoi limiti e i suoi vicoli ciechi. Ma non è, come ha affermato Gérald Darmanin giovedì 11 luglio, più “delirante” del programma della destra e dell’estrema destra, che non tiene conto né dello stato attuale del capitalismo né dei fallimenti passati delle strategie di austerità.


tradotto da Salvatore Turi Palidda  pubblichiamo l'articolo apparso il 12 luglio 2024 su  Mediapart.fr  firmato da Romaric Godin (giornalista nel campo economico-finanziario) . 

Una versione ridotta dello stesso è stata rilanciata dalla redazione italiana di  pressenza.com