Intervista su i suoi novant'anni
" il mio lungo secolo è iniziato con la vittoria bolscevica "
san Francesco è l’amore contro la proprietà: esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai stato ripreso a sufficienza Francesco, né è stato presa in debito conto l’importanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perché voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico
Toni Negri hai compiuto novant’anni. Come vivi
oggi il tuo tempo?
Mi ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non
c’erano l’assistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. L’ultima
volta che l’ho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era
veramente dura. Lo è anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a
questa età sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno
magico. È come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto
meraviglioso. Questo frutto è la vita, probabilmente. È una delle sue grandi
virtù.
Novant’anni sono un secolo breve.
Di secoli brevi ce ne possono essere diversi. C’è il classico periodo definito
da Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. C’è stato il secolo americano che però è
stato molto più breve. È durato dagli accordi monetari e dalla definizione di
una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel
settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo è iniziato con la
vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed è continuato con le lotte
operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.
Questo secolo breve è terminato con una
sconfitta colossale.
È vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata l’epoca di
una globalizzazione pacificata. Nulla di più falso, come vediamo ogni giorno da
più di trent’anni. Siamo in un’età di transizione, ma in realtà lo siamo sempre
stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una
ripresa globale delle lotte contro le quali c’è una risposta dura. Le lotte
operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di più con quelle femministe,
antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertà di movimento, o
ecologiste.
Filosofo, arrivi giovanissimo in cattedra a
Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la rivista dell’operaismo italiano. Fai
inchiesta, fai un lavoro di base nelle fabbriche, a cominciare dal
Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere Operaio prima, di Autonomia
Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a cominciare dall’impetuoso
Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual è stato il momento politico
culminante di questa storia?
Gli anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia
per il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro
industriale insieme all’intero processo di accumulazione del valore. In questa
transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale,
quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base
della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche l’aria, l’acqua,
il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per
contrastare l’abbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire
dagli anni Sessanta.
Perché, dalla metà degli anni Settanta, la
strategia capitalista ha vinto?
Perché è mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, c’è stata
una totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni
Settanta, c’è stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica,
puntuale o di movimento, che tentasse di mostrare l’importanza di questa
trasformazione, e che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio
attorno a nuove forme di socializzazione e di organizzazione politica e
culturale. È stata una tragedia. Qui che appare la continuità del secolo breve
nel tempo che stiamo vivendo ora. C’è stata una volontà della sinistra di
bloccare il quadro politico su quello che possedeva.
E che cosa possedeva quella sinistra?
Un’immagine potente ma già allora inadeguata. Ha mitizzato la figura
dell’operaio industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non
voleva accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua
organizzazione; voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza
schiavizzare nessuno. A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro né
distruggere il pianeta. In fondo è quello che ha scritto Marx nella Critica del
programma di Gotha: contro l’emancipazione attraverso il lavoro mercificato
della socialdemocrazia e per la liberazione della forza lavoro dal lavoro
mercificato. Sono convinto che la direzione presa dall’Internazionale comunista
– in maniera evidente e tragica con lo stalinismo, e poi in maniera sempre più
contraddittoria e irruente -, abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato
masse gigantesche. Per tutta la storia del movimento comunista è stata quella
la battaglia.
Cosa si scontrava su quel campo di battaglia?
Da un lato, c’era l’idea della liberazione. In Italia è stata illuminata dalla
resistenza contro il nazi-fascismo. L’idea di liberazione si è proiettata nella
stessa Costituzione così come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa
vicenda non sottovaluterei l’evoluzione sociale della Chiesa Cattolica che
culminò con il Secondo Concilio Vaticano. Dall’altra parte, c’era il realismo
ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli
Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto è iniziato a precipitare
negli anni Settanta, mentre invece c’era la possibilità di inventare una nuova
forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.
Continui a definirti un comunista. Cosa
significa oggi?
Quello che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale
avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci
bene. Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertà, uguaglianza
e fraternità avrebbero potuto realizzarsi nelle parole d’ordine della
cooperazione, della solidarietà, della democrazia radicale e dell’amore. Lo
pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che
votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed è insopportabile,
ha un rapporto contraddittorio con le virtù essenziali del vivere insieme.
Eppure queste virtù non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e
sono accompagnate dalla trasformazione dell’idea di produttività che non
significa produrre più merci in meno tempo, né fare guerre sempre più
devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare,
rendere felici. Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica
che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale.
L’arresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo
momento della repressione del movimento dell’autonomia operaia, è stato uno
spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo è stato anche per la storia
del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso
giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di
coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno
1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana
Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto
irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?
È stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è
stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si
è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era
diventato.
Che cosa era diventato?
Un oppressore. Ha massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era
andato a ficcare. In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva
un’altra strada, che passava dall’ascolto della classe operaia, del movimento
studentesco, delle donne, di tutte le nuove forme nelle quali le passioni
sociali, politiche e democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto
un’alternativa in maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un
enorme movimento che investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni.
La chiusura da parte del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni
terroristiche: questo è fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente.
Solo io ho fatto complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo
di prigione. Il Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era
completamente idiota che io o altri dell’Autonomia fossimo considerati i
rapitori di Aldo Moro o gli uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna
innocentista che è stata coraggiosa e importante è stato però lasciato sul
fondo un aspetto sostanziale.
Quale?
Eravamo politicamente responsabili di un movimento molto più ampio contro il
compromesso storico tra il Pci e la Dc. Contro di noi c’è stata una risposta
poliziesca della destra, e questo si capisce. Quello che non si vuol capire è
stata invece la copertura che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo,
avevano paura che cambiasse l’orizzonte politico di classe. Se non si comprende
questo nodo storico, come ci si può lamentare dell’inesistenza di una sinistra
oggi in Italia?
Il sette aprile, e il cosiddetto «teorema
Calogero», sono stati considerati un passo verso la conversione di una parte
non piccola della sinistra al giustizialismo e alla delega politica alla
magistratura. Come è stato possibile lasciarsi incastrare in una simile
trappola?
Quando il Pci sostituì la centralità della lotta morale a quella economica e
politica, e lo fece attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area,
ha finito il suo percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo
per costruire il socialismo? Il giustizialismo è una delle cose più care alla
borghesia. È un’illusione devastante e tragica che impedisce di vedere l’uso di
classe del diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli
anni cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li
chiamavano «pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e Diritto ai quali
ho lavorato anch’io. Mi riempivano di gioia perché parlavamo di giustizia di
massa. Poi l’idea di giustizia è stata declinata molto diversamente, riportata
ai concetti di legalità e di legittimità. E nella magistratura non c’è più
stata una presa di parola politica, ma solo schieramenti tra correnti. Oggi,
poi abbiamo una Costituzione ridotta a un pacchetto di norme che non
corrispondono neanche più alla realtà del paese.
In carcere avete continuato la battaglia
politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere, pubblicato da Il
Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava dell’originalità
del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non riducibili agli «anni di
piombo». Come hai vissuto quegli anni?
Quel documento diceva cose importanti con qualche timidezza. Credo dica più o
meno le cose che ho appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro,
dovevamo uscire in qualche maniera. Ti confesso che in quell’immane sofferenza
per me era meglio studiare Spinoza che pensare all’assurda cupezza in cui
eravamo stati rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed è stato una
specie di atto eroico. Non potevo avere più di cinque libri in cella. E
cambiavo carcere speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani,
Fossombrone, Rovigo. Ogni volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare
giorni e ricominciare. L’unico libro che portavo con me era l’Etica di Spinoza.
La fortuna è stata finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981
quando i corpi speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto
uno scossone nella storia della filosofia.
Nel 1983 sei stato eletto in parlamento e
uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in cui votarono
per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in Francia?
Ne soffro ancora molto. Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di
avere fatto bene ad andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire
rapporti tra generazioni e ho studiato. Ho avuto la possibilità di lavorare con
Félix Guattari e sono riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha
aiutato moltissimo a comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato
anch’io, ho insegnato pur non avendo una carta di identità. Mi hanno aiutato i
compagni dell’università di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho
sbagliato. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in
carcere, quelli con cui ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte
in quattro anni di carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male.
Quella galera ha devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro
famiglie. Ho novant’anni e mi sono salvato. Non mi rende più sereno di fronte a
quel dramma.
Anche Rossanda ti criticò…
Sì, mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo
proprio di finire come il filosofo. Per i rapporti che c’erano in galera avrei
potuto morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi
ha rovesciato tutte le colpe del mondo perché non volevo tornarci. Sono stati
in molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia già allora, e forse
aveva ragione.
C’è stata un’altra volta che lo ha fatto?
Sì, quando mi disse di non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni
di esilio. La vidi l’ultima volta prima di partire in un café dalle parti del
Museo di Cluny, il museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto
legami con una catena per impedirmi di prendere quell’aereo.
Perché allora hai deciso di tornare in Italia?
Ero convinto di fare una battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli
anni Settanta. Allora c’era la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei
anni di galera fino al 2003. Forse Rossana aveva ragione.
Che ricordo oggi hai di lei?
Ricordo l’ultima volta che l’ho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si
preoccupava dei miei viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. È stata una
persona meravigliosa, allora e sempre.
Anna Negri, tua figlia, ha scritto «Con un
piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta questa storia dal
punto di vista dei vostri affetti, e di un’altra generazione.
Ho tre figli splendidi Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera
indicibile quello che è successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e
continuo ad essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile
tragedia. Penso ai miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li
vedeva come i figli di un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nell’altra,
hanno sopportato eventi enormi. Sono andati via dall’Italia e ci sono tornati,
hanno attraversato quel lungo inverno in primissima persona. Il minimo che
possono avere è una certa collera nei confronti dei genitori che li hanno messi
in questa situazione. E io ho una certa responsabilità in questa storia. Siamo
tornati ad essere amici. Questo per me è un regalo di una immensa bellezza.
Alla fine degli anni Novanta, in coincidenza
con i nuovi movimenti globali, e poi contro la guerra, hai acquisito una forte
posizione di riconoscibilità insieme a Michael Hardt a cominciare da «Impero».
Come definiresti oggi, in un momento di ritorno allo specialismo e di idee
reazionarie e elitarie, il rapporto tra filosofia e militanza?
È difficile per me rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto
un’opera, io rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. Perché
sono più un militante che un filosofo. Farà ridere qualcuno, ma io mi ci vedo,
come Papageno…
Non c’è dubbio però che tu abbia scritto molti
libri…
Ho avuto la fortuna di trovarmi a metà strada tra la filosofia e la militanza.
Nei migliori periodi della mia vita sono passato in permanenza dall’una
all’altra. Ciò mi ha permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria
capitalista del potere. Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a
Habermas, passando da Kant, Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere
essere combattuta. Di contro la linea Machiavelli-Spinoza-Marx è stata
un’alternativa vera. Ribadisco: la storia della filosofia per me non è una
specie di testo sacro che ha impastato tutto il sapere occidentale, da Platone
ad Heidegger, con la civiltà borghese e ha tramandato con ciò concetti
funzionali al potere. La filosofia fa parte della nostra cultura, ma va usata
per quello che serve, cioè a trasformare il mondo e farlo diventare più giusto.
Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva l’iconografia che lo rappresentava nei
panni di Masaniello. Vorrei che fosse vero per me. Anche adesso che ho
novant’anni continuo ad avere questo rapporto con la filosofia. Vivere la
militanza è meno facile, eppure riesco a scrivere e ad ascoltare, in una
situazione di esule.
Esule, ancora, oggi?
Un po’, sì. È un esilio diverso però. Dipende dal fatto che i due mondi in cui
vivo, l’Italia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In
Francia, l’operaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene
riscoperto. La sinistra di movimento in Francia è sempre stata guidata dal
trotzkismo o dall’anarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur
antérieur, con l’amico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una
mediazione tra gauchisme e operaismo: ha
funzionato per una decina d’anni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il
giudizio sulla politica francese lo lasciavamo ai compagni francesi. L’unico
editoriale importante scritto dagli italiani sulla rivista è stato quello sul
grande sciopero dei ferrovieri del ’95, che assomigliava tanto alle lotte
italiane.
Perché l’operaismo conosce oggi una risonanza
a livello globale?
Perché risponde all’esigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte,
come in altre culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, l’ecologia
politica, la critica postcoloniale ad esempio. E poi perché non è la costola di
niente e di nessuno. Non lo è stato mai, e neanche è stato un capitolo della
storia del Pci, come qualcuno s’illude. È invece un’idea precisa della lotta di
classe e una critica della sovranità che coagula il potere attorno al polo
padronale, proprietario e capitalista. Ma il potere è sempre scisso, ed è
sempre aperto, anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del
potere come estensione del dominio e dell’autorità fatta dalla Scuola di
Francoforte e dalle sue recenti evoluzioni è falsa, anche se purtroppo rimane
egemone. L’operaismo fa saltare questa lettura brutale. È uno stile di lavoro e
di pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono,
cerca la singolarità in una dialettica aperta e produttiva.
I tuoi costanti riferimenti a Francesco
d’Assisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo interesse per il santo e
perché lo hai preso ad esempio della tua gioia di essere comunista?
Da quando ero giovane mi hanno deriso perché usavo la parola amore. Mi
prendevano per un poeta o per un illuso. Di contro, ho sempre pensato che
l’amore era una passione fondamentale che tiene in piedi il genere umano. Può
diventare un’arma per vivere. Vengo da una famiglia che è stata miserabile
durante la guerra e mi ha insegnato un affetto che mi fa vivere ancora oggi.
Francesco è in fondo un borghese che vive in un periodo in cui coglie la
possibilità di trasformare la borghesia stessa, e di fare un mondo in cui la
gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui, per me, è come il richiamo ai
Ciompi di Machiavelli. Francesco è l’amore contro la proprietà: esattamente
quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo
e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai stato ripreso a sufficienza
Francesco, né è stato presa in debito conto l’importanza che ha avuto il
francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perché voglio che parole come amore
e gioia entrino nel linguaggio politico.
***
Dall’infanzia negli anni della guerra
all’apprendistato filosofico alla militanza comunista, dal ’68 alla strage di
piazza Fontana, da Potere Operaio all’autonomia e al ’77, l’arresto, l’esilio.
E di nuovo la galera per tornare libero. Toni Negri lo ha raccontato con
Girolamo De Michele in tre volumi autobiografici Storia di un comunista, Galera
e esilio, Da Genova a Domani (Ponte alle Grazie). Con Mi chael Hardt,
professore di letteratura alla Duke University negli Stati Uniti, ha scritto,
tra l’altro, opere discusse e di larga diffusione: Impero, Moltitudine, Comune
(Rizzoli) e Assemblea (Ponte alle Grazie). Per l’editore anglo-americano Polity
Books ha pubblicato, tra l’altro, sei volumi di scritti tra i quali The Common,
Marx in Movement, Marx and Foucault.
In Italia DeriveApprodi ha ripubblicato il
classico «Spinoza». Per la stessa casa editrice: I libri del rogo, Pipe Line,
Arte e multitudo (a cura di N. Martino), Settanta (con Raffaella Battaglini).
Con Mimesis la nuova edizione di Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di
Giacomo Leopardi. Con Ombre Corte, tra l’altro, Dall’operaio massa all’operaio
sociale (a cura di P. Pozzi-R. Tomassini), Dentro/contro il diritto sovrano
(con G. Allegri), Il lavoro nella costituzione (con A. Zanini).
A partire dal prossimo ottobre Manifestolibri
ripubblicherà i titoli in catalogo con una nuova prefazione: L’inchiesta
metropolitana e altri scritti sociologici, a cura di Alberto De Nicola e Paolo
Do; Marx oltre Marx (prefazione di Sandro Mezzadra); Trentatré Lezioni su Lenin
(Giso Amendola); Potere Costituente (Tania Rispoli); Descartes politico (Marco
Assennato); Kairos, Alma Venus, moltitudo (Judith Revel); Il lavoro di Dioniso,
con Michael Hardt (Francesco Raparelli)