- Antonio Di Stasio -
RECENSIONE AL LIBRO DI
Il libro di Joshua Clover è un tentativo molto stimolante di interpretare le lotte sociali che hanno caratterizzato gli ultimi decenni secondo le coordinate della critica dell’economia politica
Un approccio che ribadisce una volta in più la vitalità delle categorie marxiane e rilancia il metodo materialista nella modificazione storica del conflitto di classe. Quest’ultimo, pur attraversato da molteplici articolazioni soggettive, continua ad assumere nel capitalismo contemporaneo una centralità sempre più evidente – con buona pace di coloro che non hanno perso occasione per ripetere la litania della ‘fine delle grandi narrazioni’ e della ‘conclusione del conflitto di classe’.
Detto questo, a mio avviso, il lavoro di Clover incontra alcuni limiti importanti, sui quali torneremo dopo, legati a un’opposizione un po’ troppo netta tra circolazione e produzione, e, soprattutto, nel mancato rilievo della differenza tra ricchezza sociale e valore che nelle attuali trasformazioni delle soggettività produttive è sempre più decisiva.
Proprio seguendo il metodo marxiano, Clover legge le trasformazioni dell’antagonismo politico alla luce delle modificazioni storiche dei rapporti produttivi che hanno caratterizzato il susseguirsi delle fasi capitalistiche: capitalismo mercantilista, industriale e quello contemporaneo (a cui non attribuisce un’etichetta, ma si riferisce ad esso di volta in volta come post-fordista, finanziario, logistico ecc.). La sua tesi consiste nel sostenere che la prima fase, tra il diciassettesimo e diciannovesimo secolo, sia stata caratterizzata dal primato delle lotte nella circolazione della merce: le enclosures hanno sostanziato una dinamica di spossessamento delle masse contadine senza includerle nella forma salario. Gran parte dei proletari rimaneva quindi esclusa sia dalla possibilità di provvedere autonomamente alla propria sussistenza, sia dalla possibilità di ottenere un salario. Nella ricostruzione di Clover, le lotte in quella fase non potevano configurarsi in altro modo che come riot: saccheggio e blocco dei beni alimentari destinati alle esportazioni e al commercio, così da riappropriarsi della merce e interferire sul livello dei prezzi. La seconda fase poi comincia con la rivoluzione industriale e arriva fino al fordismo. La produzione materiale conosce un enorme processo di espansione e il proletariato viene in larga parte incluso nella forma salario. Diventa quindi preponderante lo sciopero come arma di lotta operaia nei rapporti di produzione diretti: il conflitto si sposta dal prezzo della merce a quello della forza lavoro, facendo del lavoratore salariato il soggetto privilegiato dell’antagonismo. Infine, nella terza fase, a partire dagli anni Settanta, secondo Clover, assistiamo ad un rapido processo di contrazione del capitalismo industriale e ad una progressiva perdita di centralità della produzione materiale a favore della logistica e della finanza. Ciò avrebbe quindi generato sacche sempre più ampie di “una sovrappopolazione che affronta l’antico problema del consumo senza avere accesso diretto al salario” (p. 47). Ne consegue – è questa la tesi forte del testo – che se l’antagonismo politico si presenta oggi come occupazione delle piazze, dei canali di circolazione delle merci, della logistica, come riot anziché come sciopero, ciò sarebbe dovuto alla profonda crisi della riproduzione sociale indotta da un capitalismo industriale in contrazione, non più capace di sfruttare la forza lavoro complessiva. Quando il capitale non è più in grado di disciplinare il lavoro tramite la forma salario, da un lato questa funzione viene assunta dal controllo e dalla repressione statuale, dall’altro ritornano le lotte per avere accesso ai beni essenziali alla riproduzione sociale: ritorna il riot.
A supporto di questa tesi, mobilitando gli studi dei teorici dell’economia-mondo (Arrighi, Brenner ecc.), Clover ci propone tutta una serie di evidenze empiriche. A partire dagli anni Settanta il settore industriale statunitense, e con esso quello di tutto il mondo “sovrasviluppato”, ha conosciuto un lungo processo di svuotamento e un crollo dei livelli di rendimento: “la crescita del PIL globale dagli anni Cinquanta agli anni Settanta è rimasta sempre al di sopra del 4 per cento; in seguito, si è arrestata al 3 per cento o ancora meno, a volte molto meno. Durante la Lunga Crisi, anche il periodo migliore è stato peggiore, nel complesso, della fase peggiore del boom precedente. […]. Questa marcia in parallelo è a sua volta concomitante con le proiezioni della teoria del valore a partire dal mutamento in favore della circolazione: meno produzione di valore, meno profitti di sistema” (pp. 42-43). Logistica e finanziarizzazione sarebbero insomma dei palliativi momentanei necessari soltanto a cercare extraprofitti laddove il mercato non è ancora saturo: il solo modo che il capitale ha di agire in un contesto generale di caduta tendenziale del saggio di profitto, ossia di crollo complessivo della produzione di valore.
In questo quadro la progressiva disfatta delle lotte che si muovono nel contesto della produzione diretta – della classe operaia tradizionale e delle sue forme sindacali – diventa una conseguenza difficilmente evitabile. Con un settore industriale in regressione la conflittualità del lavoro salariato o diventa un mero atto difensivo per non finire in quel sovrappiù espulso dai circuiti produttivi; oppure, peggio, incontra pesanti sconfitte che Clover indica nell’esempio paradigmatico della lotta dei minatori inglesi degli anni Ottanta. In buona sostanza, in un contesto di progressivo ridimensionamento – con processi di profonda precarizzazione e finanziarizzazione – del lavoro salariato classico, lo sciopero, in quanto esercizio di contropotere che mira ad ottenere un miglior ‘prezzo’ della forza lavoro, incontra i suoi limiti storici. Il ritorno del riot, della lotta sui prezzi della merce, diventa una tattica adeguata alle caratteristiche storiche dell’ultimo ciclo capitalistico. Quando fasce sempre più ingenti di forza lavoro rimangono escluse dal cosiddetto mercato del lavoro, la forma salario non risulta più in grado di garantire la riproduzione sociale della forza lavoro nella sua complessità. I dispositivi di razzializzazione e di criminalizzazione operano nella loro più feroce violenza per selezionare e gerarchizzare l’esclusione: “la deindustrializzazione è un processo drammaticamente razzializzato” (p. 175) sottolinea Clover. Il riot allora appare, da un lato, come processo di lotta sui prezzi – nelle modalità di abbassamento del costo della vita, del saccheggio immediato ecc.; dall’altro, come autodifesa del “sovrappiù” nei confronti della violenza di Stato, delle varie forme di discriminazione delle differenze, criminalizzazione dei poveri e razzializzazione. Non è quindi un caso se le rivolte più significative degli ultimi anni sono divampate contro la violenza poliziesca – si pensi, per fare l’esempio più scontato, all’ondata di rivolte seguite all’assassinio di George Floyd. Autodifesa e lotta sui prezzi appaiono dunque come due facce della stessa medaglia: come espressione di un antagonismo che trova la sua ricomposizione in soggettività molto più vicine a quello che Marx chiamava il Lumpenproletariat (sottoproletariato) anziché alla figura tradizionale dell’operaio (Cfr. p. 187).
E tuttavia sebbene l’analisi di Clover presenti numerosi punti di interesse e una efficace ricostruzione storica delle trasformazioni del conflitto, mi sembra che una netta contrapposizione tra lotte della circolazione e lotte della produzione calzi un po’ troppo stretta addosso a questo “sottoproletariato” contemporaneo. Come segnalato nella puntuale postfazione scritta dal collettivo Into the Black Box, proprio nelle lotte della logistica – quello che sembrerebbe essere l’ambito della circolazione per eccellenza – la dimensione di vero e proprio sciopero risulta ancora centrale: autisti, magazzinieri ecc. fanno largo uso dell’arma dello sciopero. Del resto, questo significativo caso limite fa emergere una questione più generale che Clover affronta – solo parzialmente – nel suo poscritto all’edizione italiana: quella del confine oggi realisticamente tracciabile tra produzione e circolazione. L’autore riconosce che la definizione di tale soglia assume dei contorni molto sfumati: il lavoro nei servizi, nella comunicazione, quello dei riders, così come quello legato all’estrattivismo, al trasporto e alla finanziarizzazione, è difficilmente classificabile come lavoro improduttivo, come mera operazione di circolazione della merce. E però, fa notare ancora Clover, restano le evidenze empiriche sulla lunga crisi dei tassi di redditività del capitale: pur tenendo conto delle rendite e dei profitti provenienti dalla finanza e dalle piattaforme (digitali e della logistica), risultano comunque decrescenti. Sicché, insiste Clover, la crisi globale della valorizzazione capitalistica, indipendentemente dalla qualificazione che diamo alle attività di circolazione (produttive o improduttive che siano), rende fattualmente conto di una tendenza sempre maggiore verso una relativa riduzione della produzione di valore; e ciò confermerebbe le condizioni storiche che impongono l’emergenza di quel sovrappiù che non viene incluso nella forma salario (se non in un contesto di endemica sottoccupazione e precarietà) e che trova nel riot la sua tattica di azione politica più efficace.
D’altra parte, a mio avviso, questo rilievo sulla lunga crisi della valorizzazione capitalistica è particolarmente interessante nell’ottica di quelle trasformazioni complessive della produzione sulle quali le teorie neo-operaiste hanno molto insistito. La crisi della forma salario se, da un lato, si configura certo come fattore di disciplinamento, di violenza e di crisi della riproduzione sociale, dall’altro, lungi dal segnalare una improduttività delle fasce più indigenti della forza lavoro, ha a che fare con una moltiplicazione delle forme produttive che si articolano sia ad un livello quantitativo che qualitativo.
Quantitativo poiché l’espansione delle catene globali del valore e la loro intensificazione su tutto il campo sociale rendono sempre più obsoleta la possibilità di operare una netta distinzione tra attività sociali produttive e improduttive. È ormai assodata la mole di attività non remunerate che sia nel campo della riproduzione (lavoro di cura, affettivo ecc.), sia nel campo del digitale (dati, informazioni ecc.) e in quello della conoscenza (cooperazione sociale, trasmissione di saperi taciti e non ecc.) intervengono direttamente o indirettamente a coprodurre dei valori d’uso di cui il capitale si appropria per poi mettere a valore. Siamo dinanzi ad una produzione biopolitica che eccede ampiamente il tempo di lavoro certificato dal salario e che non consente più una realistica separazione concettuale tra tempo di lavoro e tempo di consumo. Le rivendicazioni sulla riproduzione sociale – reddito di base, welfare di qualità, diritto alla casa, riduzione del costo della vita ecc. –, quando lo spazio domestico, le tecnologie di comunicazione o i mezzi di trasporto diventano tra i principali luoghi e mezzi di lavoro, non possono essere considerate esclusivamente come istanze di lotta sui prezzi della merce: hanno a che fare immediatamente con le condizioni di un lavoro che va al di là del tempo di produzione certificato, con la dimensione sociale del salario. L’enorme mobilitazione che proprio in questi mesi ha attraversato la Francia attorno alla questione della pensione investe esattamente questa dimensione. Come ha sostenuto Etienne Balibar (2023) in una recente intervista: “è sorprendente constatare a che punto il dibattito sulle pensioni verifichi il concetto marxista o marxiano, molto semplice ma fondamentale, del valore della forza-lavoro e del suo sfruttamento. A condizione evidentemente – e questo è nella stessa logica di Marx, credo – di uscire dal punto di vista micro-economico, cioè di credere che il valore della forza-lavoro si definisca soltanto sulla scala della giornata e dell’anno. Si tratta invece di un concetto che concerne la vita intera del lavoratore. Se ci poniamo la questione di sapere a quale prezzo la forza-lavoro è comprata e venduta, venduta dai lavoratori e comprata dal capitale, bisogna evidentemente nel sistema attuale – e questo non valeva per l’epoca di Marx – includere in questo valore al contempo i salari che le persone guadagnano durante la loro vita e le pensioni che toccano in seguito. E dunque da questo punto di vista, l’offensiva attuale del capitale francese è di esercitare una pressione massimale su questa remunerazione totale. È la stessa logica che troviamo nel capitolo del Capitale dedicato alla giornata lavorativa, salvo che qui non ragioniamo a livello della giornata di lavoro, ma della vita intera.”1
C’è poi un livello qualitativo, perché questa diffusa produttività sociale non si presenta sempre e immediatamente iscritta nel circuito di valorizzazione capitalista: lo può eccedere e di fatto lo eccede in ogni momento. Come scrivono Vercellone e Brancaccio (2023) ancora a proposito delle lotte francesi: “in realtà, la maggior parte dei pensionati in buona salute lavora nel senso “antropologico” del termine: basti pensare che un gran numero di sindaci sono pensionati, che i pensionati costituiscono una gran parte di volontari nell’economia sociale e solidale e nei beni comuni della conoscenza, senza dimenticare che spesso svolgono funzioni essenziali nella cura dei bambini e delle persone non autosufficienti, e così via. Se si traducesse tutto questo in equivalenti monetari, potremmo persino dire che con il loro lavoro i pensionati pagano gran parte delle loro pensioni”2. Vi è una produzione diffusa di valori d’uso, di ricchezza sociale, che, seppur attaccata da tutti i lati, rimanda all’effettività di altri rapporti di produzione e riproduzione sociale che eccedono costitutivamente la forma salario. Nei riot e negli scioperi contemporanei è allora possibile intravedere tentativi di istituzionalizzazione di altre forme di produzione, distribuzione e riconoscimento della ricchezza.
Insomma, il libro di Clover, nella sua insistenza sulla crisi della valorizzazione, si inserisce e approfondisce un dibattito sempre più urgente relativo alle molteplici forme di antagonismo che si muovono negli spazi metropolitani e della logistica. Si tratta di forme di lotta che, qualificandosi proprio entro una dimensione legata alla riproduzione, ad un livello biopolitico, o non possono essere mediate dalla forma salario, oppure ne impongono una dimensione sociale legata alla vita stessa. Muovendosi oltre la mediazione classica determinano uno spazio di conflittualità che tende ad eccedere i circuiti della produzione di capitale per incanalarsi verso quelli della riproduzione sociale. Nell’ultimo bel capitolo su “Comune e catastrofe” sembra approssimarsi ad un’intuizione simile quando scrive che “la comune è anche una rottura rispetto alla costituzione del riot come imposizione dei prezzi, perché al suo interno non si trova più l’approvvigionamento dei mezzi per la sussistenza. È al di là dello sciopero e del riot. In questa situazione, la comune non emerge come un evento ma come una strategia per la riproduzione sociale” (p. 215); verrebbe da aggiungere che emerge proprio come comune, ossia in quanto rapporto sociale di produzione antagonista e come apertura del processo di transizione. Un libro da leggere e discutere questo di Clover.
Note
Bibliografia
Balibar E. (2023), Francia – Insurrezione democratica e nuova invenzione istituzionale: intervista al filosofo Etienne Balibar, In: https://www.globalproject.info/it/mondi/francia-insurrezione-democratica-e-nuova-invenzione-istituzionale-intervista-al-filosofo-etienne-balibar/24426?fbclid=IwAR3MceboImGKaTvd7l-gQFpK8AoO3Sl9Tq5GqJ_BDtJ-XapBXbsL9dZIRCE#.ZDlOt09-uWk.facebook [visitato: 07/05/2023]
Brancaccio F. e Vercellone C. (2023), Crisi e riforma del sistema pensionistico e della sécurité sociale in Francia attraverso il prisma del comune e del salario socializzato. Una prospettiva storica e teorica, In: https://effimera.org/crisi-e-riforma-del-sistema-pensionistico-e-della-securite-sociale-in-francia-attraverso-il-prisma-del-comune-e-del-salario-socializzato-una-prospettiva-storica-e-teorica-di-francesco-brancaccio-e/ [visitato 07/05/2023]
Clover J. (2023), Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Milano, Meltemi.
Questa recensione è stata pubblicata per Blog Studi sulla questione criminale online, consultabile al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/?p=5477