venerdì 22 gennaio 2021

“L’APORIA HOBBESIANA”

- Antonio Casano –

     La secolarizzazione   

 dello Stato moderno 

        

Questa è la fondazione di quel grande Leviatano o piuttosto, per parlare con più riverenza, di quel Dio mortale a cui, al di sotto del Dio immortale, noi siamo debitori della nostra pace e difesa [p.68]   

... Attraverso questa autorità di cui è stato investito da ogni singolo individuo nello Stato, esso [il Leviatano] è in grado di usare a tal punto il potere e la forza che gli sono stati conferiti, da piegare col terrore la volontà di tutti e fare in modo di indirizzare la volontà di ognuno al mantenimento della pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni [p.75]       

Carlo Ginzburg, “Rileggere Hobbes oggi”, in Paura reverenza terrore, Adelphi, 2015

 

          

Hill, in appendice a quel gran bei libro(1) sulla prima rivoluzione inglese del '600 (vista dal lato del pensiero puritano radicale, o Linkpuritanismus, così come definito da E. Bernstein(2)) traccia un parallelismo tra Hobbes e Winstanley, mettendo in risalto una certa affinità critica fra i due autori, se non addirittura un unico filo conduttore, da cui trarrà origine il pensiero politico moderno e contemporaneo, come ha cercato di dimostrare, ma con inclinazione diversa secondo noi, il Fiaschi(3). Pur partendo da presupposti filosofici diversi e con obiettivi politici contrapposti, il pensiero dell'uno si intreccia specularmente con quello dell'altro, nonostante l'assoluta distanza sul piano delle finalità ideologiche e delle tensioni sociali. Ed ancor più marcato appare questo rapporto se si mette a confronto il filosofo di Malmesbury con il pensiero politico dei Levellers(4) pur considerando - a nostro parere - il movimento livellatore parte costitutiva del pensiero politico radicale, piuttosto che omologabile alla tradizione ideologica liberal-democratica, come ha tentato di provare nella sua opera sull'individualismo possessivo il Macpherson(5). Ma questa vicenda è materia che ci riserviamo di trattare specificatamente in altra sede. Qui invece ci preme comprendere la carica "sovversiva" che - al di là, presumibilmente, della sue stesse intenzioni - ha innescato il pensiero di Hobbes, la cui critica ha contribuito a minare le fondamenta di una concezione onnipotente ed onnicomprensiva dello Stato, non meno di quanto possa aver fatto quella elaborata, sul versante della negazione radicale, dal complesso movimento del Linkpuritanismus - dai Levellers ai Diggers, sino ai misticilibertini (Seekers, Ranters, etc.).

            Certo, considerato che ad H. si fanno risalire i principi costitutivi dello Stato-assoluto, la chiave di lettura può - e forse a ragione - far storcere il naso ai "puristi" delle dottrine politiche. Ce ne scusiamo. Ma non crediamo si possa rivendicare legittimamente una pseudo-purezza disciplinare incontaminabile. Concordiamo invece con quanti hanno definito questo "codice scientifico" una "strana disciplina, dagli incerti confini, la cui confusa definizione ha costituito per anni materia di deliziose diatribe accademico-concorsuali e di conseguenti prolusioni"(6). Non v'è dubbio che questo pur breve approccio (senza alcuna pretesa esaustiva, ma tuttavia - crediamo - sufficientemente delineato in un quadro di ricerca percorribile) va a contaminare lo "specifico" dottrinale esclusivamente focalizzato sulla necessità della ricostruzione storica del processo astratto, come edificazione progettuale costitutiva della "Ragion di Stato": alla partitura del paradigma hobbesiano, pochi sono disposti a concedere una qualche debolezza o una sia pure marginale incoerenza dell'impianto teorico, lasciando spazi ad altre esplorazioni possibili. Siamo sicuri che costoro non sarebbero disposti ad ammettere che la critica di Hobbes presta il fianco a possibili cedimenti del nucleo categoriale del razionalismo hobbesiano che sorregge l'intera impalcatura: la sovranità è la struttura centrale e portante dell'asse teorico, eppure ci pare che nella sua esplicazione si mostri spesso incerta. O meglio, si possono cogliere diverse chiavi ermeneutiche non sempre convergenti. Ed è proprio questa incerta virtuosità, peraltro rintracciabile non solo in H-, ma in tutto il pensiero rivoluzionano che attraversa il XVII sec. (ed in particolare nell'Inghilterra rivoluzionaria degli anni centrali del secolo) che fa di H. un punto di passaggio obbligato per ogni progettualità politica.

            La sovranità è la categoria fondante di ogni schema politico e istituzionale che scandisce la storia del Potere fin dalla sua palingenesi e dal quale in definitiva H. non si discosta. Laddove, invece, è possibile ravvisare una qualche affinità critica col radicalismo puritano, questa - a nostro avviso - va intesa nel senso che in momenti particolari del conflitto (e questo e l'altro elemento fondativo del processo hobbesiano che au fond caratterizza l'originalità dell'ideologo del Leviatano e che si innesta, ineluttabilmente, nel processo generale di ogni qualsiasi origine di forma-Stato) si generano straordinarie trasformazioni. Cosicché un certo realismo politico si impossessa delle nuove forze del mutamento, nel tentativo di positivizzare le proprie aspettative, così come, nello stesso tempo l'impetuosa ventata del cambiamento impone alle stesse forze della conservazione di riformare le ragioni del proprio comando, nel tentativo di spiazzare le negatività soggettive non omologabili nel processo di razionalizzazione della sovranità.

            L'ipotesi da cui partiamo è che in H. la categoria della sovranità non sia nella sua forma e sostanza, definita una volta e per tutte. E in questo senso assume valenza essenziale la critica dell'origine divina su cui si reggeva l'ideologia dominante nell'età feudale, prima degli eventi dirompenti della rivoluzione puritana: il feudalesimo fu caratterizzato, sotto il profilo della forma del comando, dal dualismo tra Chiesa e Stato. Per Hobbes l'obiettivo principale era quello di risolvere questa contraddizione che pesava negativamente sull'esercizio della sovranità la cui concettualizzazione non ammetteva alcun equivoco, non sopportando la dualità del comando. Non a caso gran parte dell'opera di H. è volta a delineare criticamente i rapporti tra Stato e Chiesa, col preciso intento di eliminare la pretesa di subordinare la sovranità secolare alla volontà divina, così come esigevano sia la chiesa anglicana che quella cattolica(7).

            La forma della sovranità è direttamente correlata alle condizioni materiali della società, connessa cioè al grado di conflittualità sociale che nello sviluppo storico del XVII secolo, attraverso le sue accelerazioni, si era radicalizzata segnatamente(8). In questa prospettiva materialistica, come del resto ha dimostrato il Macpherson, la teoria hobbesiana costituisce il fondamento logico da cui trarrà origine l'ideologia liberal-democratica che supporterà il divenire della forma moderna dello Stato, e pertanto le difficoltà incontrate dalla teoria liberal-democratica hanno "radici più profonde di quanto si pensasse", e il nodo irrisolto si trova "proprio nell'originario individualismo del diciassettesimo secolo"(9).

            Ora, nelle sue considerazioni su Macpherson, Negri è riuscito a mettere nitidamente in risalto questa connessione, vedendo nell'ipotesi di un ritorno ad H., proposta dal Macpherson, non solo una "esigenza di metodo", bensì anche (attraverso la riconquista delle intuizioni fondamentali del pensiero hobbesiano) la possibilità "di conquistare lo schema essenziale attraverso cui si svolge il dibattito borghese sulla società, a partire dal quale una teoria scientifica diviene ideologia della società borghese"(10). Quindi una questione di metodo che si intreccia con la capacità critica del superamento ideologico e delle sue fissità politico-istituzionali. È questo l'aspetto decisivo nella teoria hobbesiana (11), nella quale si vede "sviluppare uno schema scientifico di comprensione del suo tempo, fondato su una teoria fisiologica dell'uomo, su un conseguente, coerente modello di società, e infine su un criterio di comprensione delle istituzioni che basa sui livelli precedenti la sua necessità"(12). In sostanza, la costruzione del paradigma hobbesiano si indirizza verso l'elaborazione di una nuova scienza della Politica, sorretta dalla convinzione che i modelli statuali conosciuti non si reggessero sufficientemente su principi intelligibili (quale era, in primo luogo, il diritto divino), il cui fondamento avrebbe dovuto costituirsi sulla comprensione delle tecniche del comando e quindi sull'esercizio del potere come neutralizzazione dei conflitti. Legittimata a compiere un siffatto modello statuale-neutrale, al quale si riconosce il potere della sovranità, sarebbe una macchina istituzionale autosoggettivizzata nella astrazione impersonale - monarchica o parlamentare è tecnicamente indifferente(13) - che assicurerebbe i sudditi, contraenti il Patto, sulla certezza dei rapporti negoziali che si dispiegano nella sfera autonoma. Di converso, essi stessi - i sudditi - si sentiranno obbligati verso l'autorità sovrana che esperisce la propria azione per assicurare il libero esercizio di disposizione dei loro diritti naturali. Il razionalismo hobbesiano ci conduce ad una necessità insopprimibile. La sovranità è un dato necessario se si vuole assicurare la libertà e l'autonomia dei soggetti-sudditi. Perciò la sfora del potere sovrano si distingue dall'autonomo sviluppo dei rapporti negoziali. Se così non fosse il Sovrano si porrebbe come un qualsiasi altro soggetto contraente, agente nella propria sfera privata. Mentre la sfera pubblica, come sappiamo, e la natura contrattualistica del Patto pongono il Sovrano al di sopra ed al di fuori del negozio originario. Anzi, il Patto mediante il quale si conferisce la sovranità è posto allo scopo di assicurare la validità e l'efficacia delle relazioni tra gli individui. La sfera pubblica si pone sovranamente al di sopra dello scambio, come mero arbitrato super partes, ossia come macchina regolatrice dei flussi sociali dei rapporti negoziali, intesi come valore assoluto della società postmercantile semplice: "È la macchina leonardesca che si fa Stato, e, come macchina, prodotto della ragione, della tecnica e della convenzione dell'uomo"(14). Ed è proprio per questa natura di macchina artificiale che - secondo H. - "È possibile conoscerlo, darne una definizione scientifica, calcolarne la potenza ed attribuirgli dei fini"(15).

 

             L'apporto hobbesiano nel divenire dello Stato-moderno ha avuto lo stesso impatto che si è potuto registrare nel campo scientifico con le rivoluzionarie scoperte avviate con l'era copernicana. «Il metodo scientifico che Hobbes intende applicare allo studio del problema politico è quello stesso per il quale tanti continui e duraturi progressi hanno fatto le scienze naturali: il metodo della composizione (sintesi) e della risoluzione (analisi). È il metodo che permette di affrontare la ricerca delle cause partendo dagli effetti noti o degli effetti partendo dalle cause note.(...) E se si osserva che questi due processi di composizione e di risoluzione si possono assimilare alle due operazioni aritmetiche della addizione e sottrazione, si dovrà convenire che il ragionamento scientifico è calcolo e quindi la scienza è una matematica applicata alle cose della natura. A questa matematizzazione del sapere scientifico, nella quale non si può non scorgere una piena aderenza al clima culturale del secolo di Cartesio, deve partecipare, secondo Hobbes, anche la scienza politica, o come egli la chiama, per la mancata distinzione di scienza e filosofia, la filosofia civile»(16). In sostanza, come nel quadro scientifico le nuove asserzioni avevano liberato la scienza dall'oscurantismo fìlosofìco-clericale, anche sul piano politico si avvertiva la necessità di liberare le ragioni del potere dalle credenze e dai pregiudizi irragionevoli che erano postulati nel dominio dello stato-feudale dominazione in primo luogo sull'anima. Hobbes, in questo senso, ha il merito di aver gettato le basi di una nuova concezione della sovranità, riducendola a necessità materiale, razionalmente comprensibile - nell'interesse generale - dagli uomini.

            Bobbio ha ben colto la centralità della critica hobbesiana del diritto divino, riconoscendo ad Hobbes il merito di aver posto le condizioni teoriche per lo sviluppo dello Stato moderno, ergendo il pensiero del contrattualista "realista" come un ponte filosofìco attraversato dallo spirito della società medievale per compiere la sua determinazione storica oltre i montanti feudali(17). Certo, la perdita dell'immediata identificazione del potere col sovrano, e quindi con la sua responsabilità diretta e personale nella gestione politica degli affari dello Stato, ha creato un sistema di dominazione astratto e impersonale, forse ancor più totalizzante. Ma il problema posto da Hobbes non è quello di creare un sistema onnipotente che affievolisca i diritti naturali, seppur mediati, a fronte del rischio incombente nello "stato di natura". Semmai, crediamo, sia quello di porre delle condizioni perché la sovranità possa esperirsi: poste le condizioni nessuno può legittimamente rimettere in gioco la sovranità. Tuttavia, come vedremo più avanti, anche la sovranità può subire colpi mortali, vuoi per la "stoltezza" degli uomini che vivono all'interno della comunità, vuoi anche per mezzo di una aggressione esterna. Ma l'aver tolto la sacralità al potere sovrano poneva in ogni caso un limite oltre il quale l'uomo sarebbe ripiombato nello "stato selvaggio". Questo limite va colto anche nel senso che la ragionevolezza dei comandi deve essere riconoscibile dalla razionalità di coloro che, per necessità, hanno delegato ad un potere convenzionale il loro potere naturale. Ad un comando non comprensibile o irragionevole, il suddito - cui il precetto è rivolto -, ha il diritto di resistere, soprattutto allorquando esso influisce sulla sfera dei propri diritti naturali (la proprietà la famiglia, la vita, ecc.).

            Non è possibile, dunque, legittimare esclusivamente la sovranità hobbesiana ne col pactum unionis ne tanto meno col pactum subiectionis Quello che si instaura tra suddito e sovrano non può essere efficacemente reso da nessuna delle due nature pattizie suddette. Ovvero, nel patto hobbesiano ci pare esse siano compresenti e compresse, seppure siano pronte a contendere per prevalere ora l'una, ora l'altra. O più semplicemente, come ha precisato Tito Magri, "Hobbes supera il limite dualistico del contrattualismo tradizionale, riducendo i due patti da esso previsti (...) ad uno solo, che forma un unico soggetto di diritto politico"(18). In ogni caso per Hobbes il sovrano non è mai parte nel contratto, da questo e chiamato in causa tante che non v'è sottomesso. Non è soggetto ad alcuna obbligazione da adempiere, la sua funzione deve essere quella di giudice inappellabile, ed in questa veste è chiamato, in qualità di garante, cioè arbitro disinteressato rispetto alle parti contraenti, disponendo anche di mezzi eccezionali, e della facoltà di usarli: il potere sovrano non ha alcun obbligo da adempiere, poiché non fa parte del sinallagma, essendo il suo esercizio istituzionale di natura mutualistica. La sovranità non è dettata mai dal potere personale, dall'interesse particolare dell'autorità preposta dal patto, identificando lo Stato alla stregua di un qualsiasi altro “bene” come se rientrasse nella sfera dei diritti propri di chi ricopre l'ufficio sovrano. La sfera dei diritti naturali del sovrano (cioè dei diritti comuni ad ogni individuo) rimane fuori dalla sfera pubblica, la prima non ingloba l'altra perché diversa è la loro natura, la mutualità le contraddistingue: solo da questa essenza traggono legittimazione i suoi comandi, la sua forza è dettata unicamente dalla necessità, tendente a dare sicurezza ai sudditi ed a difendere i loro diritti naturali (la vita, la proprietà, ecc...). La sfera pubblica è scissa nettamente da quella privata, essa è posta in essere come fonte regolatrice del flusso di rapporti autonomi giuridicamente tutelati, ed assicura la loro effettualità, riconoscendone l'efficacia. Pertanto, ogni atto sovrano che travalichi la sua sfera, al di fuori dei postulati per i quali è stata ordinata, è da considerarsi come un vero e proprio abuso d'esercizio di potere ovvero una ricaduta nello stato di natura in cui gli uomini si trovano nella condizione di tutti contro tutti. Ma non solo. E' dalla sfera privata che risale la legittimazione della sovranità che si formalizza con il consolidamento del contratto originario, col quale vengono riposte le molteplici volontà in un'unica volontà sovrana: "la concezione radicalmente naturalistica dell'uomo tratteggiata da Hobbes metteva in piena evidenza la meccanica spietata dei rapporti umani, rifiutando ogni occultamento ideologico, ed esplicitando così il carattere integralmente "laico" della costituzione dello Stato. Ed è proprio da questa visione naturalistica dell'uomo e del suo agire che scaturiscono i valori tipicamente moderni della insopprimibile autonomia dell'individuo, della libertà di coscienza di pensiero, della necessità del consenso per la fondazione della sovranità"(19).

            Il pactum hobbesiano, cioè il "mutuo trasferimento di diritti", è l'atto attraverso cui si conferisce il potere sovrano ad una soggettività superpartes, che vigila sui rapporti liberamente ed autonomamente contratti, per assicurarne la certezza dei contenuti negoziali. "Un patto, in cui le due parti non adempiono al presente, ma si concedono credito reciproco, è reso nullo, nella condizione di sola natura (che è una condizione di guerra di tutti contro tutti), da qualsiasi ragionevole sospetto. Se invece esiste un potere comune/ posto al di sopra delle parti, con diritto e forza sufficienti a costringere all'adempimento, il patto non è nullo (...) in uno stato civile, in cui esiste un potere stabilito per costringere coloro che altrimenti violerebbero la fede, una simile paura non è più ragionevole; e perciò chi, secondo il patto, deve adempiere per primo è obbligato a farlo"(20). Hobbes sembra preoccuparsi dell'efficacia della sovradeterminazione giuridica, tendente ad assicurare la certezza obbligazionaria che origina dal rapporto strutturale del negozio: lo scambio. Si avverte qui il passaggio dalle istituzioni sociali di tipo feudale a quelle della società mercantile possessiva. Un passaggio questo, come abbiamo già visto, ben sviluppato dal Macpherson.

 

             La ragione per cui nello schema hobbesiano si perviene dunque al mutuo-contratto, al Patto, va ricercata essenzialmente nella certezza che le libertà fondamentali naturali sono tutelate e garantite da un potere-sovrano investito dal riconoscimento dei sudditi contraenti. Tutela e garanzia che devono essere osservate perfino anche contro chi - godendo dell'investitura dei sudditi - ricopre l'ufficio pubblico della sovranità. Infatti, costui - il sovrano o foss'anche un governo popolare - non può modificare le posizioni giuridiche acquisite dalla libera negoziazione ne le posizioni giuridiche quesite per diritto naturale o per preesistenti regole: "Se un suddito ha una controversia con il sovrano, riguardo un debito, un diritto di possesso su terre o su beni, un servizio richiestogli, o una pena corporale o pecuniaria, sul fondamento di una legge precedente, egli è libero di far causa per il suo diritto, come se querelasse un altro suddito (...) Ma se il sovrano chiede o prende qualcosa a titolo del suo potere, non è possibile alcuna azione legale, perché ciò che il sovrano fa in virtù del suo potere, è fatto d'autorità di ogni suddito; quindi chi intenta un'azione contro il sovrano, la intenta contro se stesso"(21). In sostanza v'è una reciprocità di legittimazione tra suddito e sovrano: vero è che alla "legge civile", promulgata dal sovrano, il suddito è tenuto a prestare obbedienza, ma altrettanto vero è che a tale osservanza è tenuto nel suo esclusivo interesse, in virtù di quel patto originario nel quale risiede la sua volontà. Il sovrano è il mezzo attraverso cui si materializza e si formalizza la volontà dei contraenti. La sintesi dialettica incarnata dalla macchina-stato, ovvero la ragione positiva che si concretizza nella formulazione della persona giuridica. Questa prospettiva ha in nuce il germe dello statalismo moderno in tutte le sue varianti, comprese quelle forme di organizzazione sociale regolate in nome delle "ragioni degli oppressi".

            Ma Hobbes evidentemente non poteva essere così lungimirante, né poteva immaginare che in nome della Ragione-suprema si sarebbero potuti compiere atroci misfatti. Tanto più che il suo primo obiettivo era stato quello di liberare l'origine della sovranità da ogni vuota ideologia che pretendesse di trarre la sua legittimazione da precetti apoditticamente pronunciati. Vero è che - in linea di principio - la forza esercitata dal sovrano, una volta conferita col patto originario, non può più essere messa in discussione. Tuttavia è altrettanto vero che se il Sovrano viene meno al patto, infrangendo le ragioni che l'hanno originato, il suddito che resiste al comando in difesa dei suoi diritti naturali è legittimato ad esperire la sua azione di resistenza. In definitiva se la legittimazione della sovranità non può darsi in nome dell'origine divina, nemmeno una Ragione che si erge a divinità può pretendere di non essere messa in discussione. Quindi se, da un lato, la critica hobbesiana del "diritto divino" sprigiona una enorme "carica rivoluzionaria", dall'altro lato, pur riconoscendo il diritto di resistenza, allorquando si afferma che, una volta conferito il mandato, la sovranità non potrà più essere rimessa in discussione, è come se si reintroducesse un qualche potere divinatorio, seppur ammantato delle vesti della Ragione. In ciò si può cogliere l'aporia hobbesiana di cui abbiamo fatto cenno all'inizio. Ed è proprio attraverso Hobbes che si mette in discussione Hobbes. Sarà una debolezza logica dell'impianto hobbesiano o un escamotage fìlosofico per rimettere in corsa la monarchia in crisi? Comunque sia, a noi pare di cogliere un'aporia feconda. Perché se assumiamo la critica dell'origine divina come fondante il discorso di H., va da sé che nessun'altra assolutizzazione del potere potrà essere posta, tanto più quando si riconosce che il potere sovrano può essere indifferentemente limitato o illimitato: sta alla volontà dei sudditi stabilirne la marginalità temporale. Orbene, tutto ciò equivale a dire che il limite della sovranità è subordinato alla conflittualità endemica della società, conflittualità naturalmente insopprimibile, tuttalpiù mediabile - ovvero hobbesianamente governabile - solo grazie al reciproco riconoscimento degli individui che giungono alla ragionevole coesistenza mediante la stipula di un Patto

            Come si può constatare la separatezza della sfera "pubblica" da quella "privata", vogliamo ribadirlo, è ben netta. Il sovrano che incarna la sfera pubblica, quindi, in nessun caso può sussumere quella privata (cioè quella dei sudditi); allo stesso modo non può inglobare l'ufficio cui è preposto nella sua propria sfera di interessi (anch'essi di natura privatistica). In questo senso la macchina-artificiale (lo Stato) si configura esclusivamente come articolazione e inveramento del corpo collettivo che agisce razionalmente per il bene comune (la sopravvivenza e la tutela degli individui) ma non assorbe i soggetti in unica volontà, se non nei limiti posti in difesa dell'altrui volontà. I termini politici del rapporto Suddito/Sovrano appaiono qui paradossalmente rovesciati. Il potere sovrano solo quando viene esercitato per assolvere la funzione originata dal pactum, non è subordinato ad alcun giudizio, poiché ciò che il sovrano fa in questa veste -ci fa osservare Hobbes- "È fatto d'autorità di ogni suddito; quindi chi intenta un'azione contro il sovrano, la intenta contro se stesso"(22). I sudditi si identificano coll'unità costitutiva della sovranità, ovvero colla macchina-stato che si sovradetermina. La dinamica dello Stato-moderno è qui dispiegata in tutta la sua contraddizione: il soggetto costituisce la macchina pubblica per se stesso, per i propri bisogni, ma l'identità con la macchina finisce per sussumerlo in una totalità dove non ci sarà più spazio per la propria autonoma identità. La ragione hobbesiana finisce col perdersi nella razionalizzazione astratta del potere come mera tecnica esecutiva e nello sprezzo verso la moltitudine soggettiva, finché quest'ultima si connota come "sistema politico irregolare"(23). Purtuttavia il discorso si dipana in presenza di questa costante contraddittoria: tra riconoscimento dell'autonomia soggettiva e autonomia della macchina-stato.

            Infatti, il rapporto tra suddito e sovrano in Hobbes non è dettato da uno spirito di comando assolutistico ex iure divino, semmai da una ragionevole comprensione dei limiti posti dall'insicurezza dell'arbitrio presenti nello stato di natura, rinviando la legittimazione del suo compiersi all'elemento fondamentale dell'impianto teorico: il consenso. Come precisa il Pacchi "l'autonomia individuale del suddito viene meno solo in seguito ad un contratto, e solo per esplicito consenso del suddito stesso: è a questo punto, e non prima, che si incomincia a parlare di situazioni di diritto che vincolano l'autonomia individuale, solo cioè nelle sfere del diritto positivo, o convenzionale"(24). L'entità sovrana non risolve perciò le libertà dell'individuo, anzi è posta in essere per proteggerle. Lo Stato-sovrano non si costituisce in una totalità onnicomprensiva che non lascia spazi e libertà all'autonomia soggettiva, nell'ambito della sfera privata. "Al principe assoluto non interessano le anime dei cittadini, ma solo i corpi"(25), affinché essi possano esercitare la loro "esteriorità", la loro "condotta" in modo ordinato e "aliena dalla resistenza al potere e dalla violenza privata"(26). È una necessità che utilmente si sostanzia nella efficacia dell'apparato pubblico, per salvaguardare quelle libertà. "Libertà e necessità non si contraddicono: come nell'acqua, che ha non solo libertà, ma una necessità di discendere per un condotto. Allo stesso modo le azioni volontarie degli uomini, in quanto derivano dalla loro volontà, derivano dalla libertà; e tuttavia, in quanto ogni atto della volontà umana, e ogni desiderio ed inclinazione, deriva da una causa, e questa da un'altra causa, in una catena ininterrotta il cui primo anello è nelle mani di Dio, causa prima, esse derivano dalla necessità"(27).

            Parrebbe qui riaffiorare il presupposto divinatorio, nel rimando al "primo anello" della catena. Così non è! La prospettiva diventa tutta materialistica dove la razionalità è un tutt'uno col divino. Hobbes si affretta infatti a sviluppare il tema della libertà, e nella fattispecie della "libertà naturale, che è la sola ad essere propriamente detta libertà"(28), dalla quale si può desumere la categoria della ragione come essenza fondante dell'origine del potere sovrano: "gli uomini, per conseguire la pace e, mediante essa, la loro conservazione, hanno costruito un uomo artificiale, che chiamiamo Stato, così hanno anche costruito delle catene artificiali, dette leggi civili, che hanno fissato per mezzo di patti reciproci, a un capo, alle labbra dell'uomo o dell'assemblea cui hanno conferito il potere supremo, e all'altro capo, alle loro stesse orecchie. Questi vincoli per loro natura sono molto deboli; ma possono essere rafforzati rendendo pericoloso, se non difficile, l'infrangerli”(29).

 

            Quanto fin qui detto non inficia la ricostruzione storica che vede Hobbes schierato tra i più fervidi e leali sostenitori politici della causa "realista". Tuttavia ben altro è l'approccio fìlosofico, seppur collocato in una medietà compromissoria tra volontarismo politico e metodologia di indagine. La messa in mora della origine divina - operata coll'intento politico di restituire legittimazione alla monarchia - assume conseguenze così radicali da mettere in gioco la legittimità stessa dell'ordinamento istituzionale che si voleva riconsolidare. Spingendo fino all'estremo il ragionamento hobbesiano potremmo dire che nessun sistema può dirsi sovranamente indissolubile. La chiave teoretica del paradigma di Hobbes si apre così alla possibilità di realizzare molteplici forme di potere, pur ritenendo egli – sul piano storico - quella monarchica la più efficace, se razionalizzata secondo i dettami del nuovo modello.

 

 

Note bibliografiche

(1)     C. Hill, II mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionavi nell'Inghilterra del Seicento,Torino, 1981.

(2)     La definizione linkpuritanismus è mutuata da E. Bemstein (Sozialismus una Demokratie in der grossen englischen Revolution, Stuttgart, 1908), a cui va riconosciuto il merito di aver sollevato - come dice il Maffi nella sua introduzione al saggio di H. N. Braiisford, I Livellatori e la Rivoluzione inglese, Milano, 1962, voli. 2 - "il primo velo sulle correnti politiche di fondo dell'Interregno, riscattando dall'oblio soprattutto i Levellers e i Diggers".

(3)     G. Fiaschi, Potere, Rivoluzione e Utopia nell'esperienza di Gerrard Winstanley,  Padova, 1982,

(4)     cfr. C. B. Macpherson, Libertà e Proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell'individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Milano, 1973-78.

(5)     ivi, pp. 188/189 (più precisamente Macpherson parla di "liberali radicali" contrapponendo la definizione a quella di "democratici radicali". Ma al di là del formalismo (secondo noi,nda) il concetto non cambia. Infatti dire "liberal-democratico" - nell'accezione contemporanea – o "liberal-radicale" è la stessa cosa; come - nel contempo - è identico dire "democratici-radicali" o "radical-libertari").

(6)     A. Negri, L'anomalia selvaggia. Saggio su Potere e Potenza in Baruch Spinoza, Milano, 1981, p.288.7

(7)     cfr. N. Bobbio (a cura di). Opere politiche di Thomas Hobbes, Torino, 1959, pp. 14/15.

(8)     cfr. A. Negri, op. cit., p. 289.

(9)     C. B. Macpherson, op. cit., p. 27.

(10)  A. Negri, op. cit., p. 270.

(11)  cfr. A. Pacchi(a cura di),Thomas Hobbes, Il pensiero etico-politico, Firenze,1973-74, p.XXVII

(12)   A. Negri, op. cit., p. 270.

(13)  cfr. A. Pacchi/ op. cit., p. XXVII.

(14)  A. Piazzi, Hobbes: la geometria del potere, in I1 Politico. Da Hobbes a Smith (a cura di M. Tronti), Milano 1982, vol. 2, tomo I, pp. 28/29.

(15)  ivi, p. 29.

(16)  16 Bobbio, op. cit., p. 21.

(17)  ivi,p. 19.

(18)  T. Magri (a cura di), introduzione a T. Hobbes, De Cive, Roma, 1979, p. 38.

(19)  A. Pacchi, op. cit., p. XLI.

(20)  T. Hobbes, Leviatano, Roma, 1982, p. 81.

(21)  ivi, pp. 153/154.

(22)  ib.

(23)  cfr. P. Virno, Mondanità. L'idea di «mondo» tra esperienza sensibile e sfera pubblica, Manifestolibri. Roma, 1994, pp. 103/107. “È noto lo sprezzo di Hobbes per i «sistemi politici irregolari», la cui perturbante caratteristica è adombrare la Moltitudine in seno al Popolo: «nient’altro che leghe o talvolta mere adunanze di gente, prive di un’unione finalizzata a qualche disegno particolare o  determinata da obbligazioni degli uni verso gli altri» (Leviatano,XXII) . Ebbene, l Repubblica dei «molti» consiste proprio in istituti di tal genere: leghe, consigli, soviet. Solo che, contrariamente al giudizio malevolo di Hobbes, non si tratta certo di effimeri assebramenti il cui svolgimento lasci indisturbati i riti della sovranità. Le Leghe , i consigli, i soviet – insomma gli organi della democrazia non rappresentativa – danno piuttosto espressione politica all’agire-di-concerto che, avendo per ordito il general intellect, gode già sempre di una pubblicità tutt’affatto diversa da quella che si addensa nella persona del sovrano. La sfera pubblica delineata dalle «adunanze» in cui non vigono «obbligazioni degli uni vero gli altri» determina la solitudine del re, ovvero riduce la compagine statale a una privatissima banda di periferia, prepotente e però marginale” [Virno, p.106].

(24)  A. Pacchi, op. cit., p. XXXIII.

(25)  ivi,-p. XXIX.

(26)  ib.

(27)  T. Hobbes, Leviatano, op. cit., p. 146.

(28)  ib.

(29)  ivi, p.147.

  

Il contributo che presentiamo è uno stralcio del saggio “Hobbes e la rappresentazione della sovranità”, pubblicato dal nostro autore in Fogli di Anglistica, n.3\1996, Libreria Dante Editrice, Palermo