- Antonio Casano –
dello Stato moderno
Questa è la fondazione di quel grande Leviatano o piuttosto, per parlare con più riverenza, di quel Dio mortale a cui, al di sotto del Dio immortale, noi siamo debitori della nostra pace e difesa [p.68]
... Attraverso questa autorità di cui è stato investito da ogni singolo individuo nello Stato, esso [il Leviatano] è in grado di usare a tal punto il potere e la forza che gli sono stati conferiti, da piegare col terrore la volontà di tutti e fare in modo di indirizzare la volontà di ognuno al mantenimento della pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni [p.75]
Carlo Ginzburg, “Rileggere Hobbes oggi”, in Paura reverenza terrore, Adelphi, 2015
Hill,
in appendice a quel gran bei libro(1) sulla prima rivoluzione
inglese del '600 (vista dal lato del pensiero puritano radicale, o Linkpuritanismus,
così come definito da E. Bernstein(2)) traccia un
parallelismo tra Hobbes e Winstanley, mettendo in risalto una certa affinità
critica fra i due autori, se non addirittura un unico filo conduttore, da cui
trarrà origine il pensiero politico moderno e contemporaneo, come ha cercato di
dimostrare, ma con inclinazione diversa secondo noi, il Fiaschi(3).
Pur partendo da presupposti filosofici diversi e con obiettivi politici
contrapposti, il pensiero dell'uno si intreccia specularmente con quello
dell'altro, nonostante l'assoluta distanza sul piano delle finalità ideologiche
e delle tensioni sociali. Ed ancor più marcato appare questo rapporto se si
mette a confronto il filosofo di Malmesbury con il pensiero politico dei Levellers(4)
pur considerando - a nostro parere - il movimento livellatore parte costitutiva
del pensiero politico radicale, piuttosto che omologabile alla tradizione
ideologica liberal-democratica, come ha tentato di provare nella sua opera
sull'individualismo possessivo il Macpherson(5). Ma questa
vicenda è materia che ci riserviamo di trattare specificatamente in altra sede.
Qui invece ci preme comprendere la carica "sovversiva" che - al di
là, presumibilmente, della sue stesse intenzioni - ha innescato il pensiero di
Hobbes, la cui critica ha contribuito a minare le fondamenta di una concezione
onnipotente ed onnicomprensiva dello Stato, non meno di quanto possa aver fatto
quella elaborata, sul versante della negazione radicale, dal complesso
movimento del Linkpuritanismus - dai Levellers ai Diggers,
sino ai misticilibertini (Seekers, Ranters, etc.).
Certo, considerato che
ad H. si fanno risalire i principi costitutivi dello Stato-assoluto, la chiave
di lettura può - e forse a ragione - far storcere il naso ai
"puristi" delle dottrine politiche. Ce ne scusiamo. Ma non crediamo
si possa rivendicare legittimamente una pseudo-purezza disciplinare
incontaminabile. Concordiamo invece con quanti hanno definito questo
"codice scientifico" una "strana disciplina, dagli incerti
confini, la cui confusa definizione ha costituito per anni materia di deliziose
diatribe accademico-concorsuali e di conseguenti prolusioni"(6).
Non v'è dubbio che questo pur breve approccio (senza alcuna pretesa esaustiva,
ma tuttavia - crediamo - sufficientemente delineato in un quadro di ricerca
percorribile) va a contaminare lo "specifico" dottrinale esclusivamente
focalizzato sulla necessità della ricostruzione storica del processo astratto,
come edificazione progettuale costitutiva della "Ragion di Stato":
alla partitura del paradigma hobbesiano, pochi sono disposti a concedere una
qualche debolezza o una sia pure marginale incoerenza dell'impianto teorico,
lasciando spazi ad altre esplorazioni possibili. Siamo sicuri che costoro non
sarebbero disposti ad ammettere che la critica di Hobbes presta il fianco a
possibili cedimenti del nucleo categoriale del razionalismo hobbesiano che
sorregge l'intera impalcatura: la sovranità è la struttura centrale e portante
dell'asse teorico, eppure ci pare che nella sua esplicazione si mostri spesso
incerta. O meglio, si possono cogliere diverse chiavi ermeneutiche non sempre
convergenti. Ed è proprio questa incerta virtuosità, peraltro rintracciabile
non solo in H-, ma in tutto il pensiero rivoluzionano che attraversa il XVII
sec. (ed in particolare nell'Inghilterra rivoluzionaria degli anni centrali del
secolo) che fa di H. un punto di passaggio obbligato per ogni progettualità
politica.
La sovranità è la
categoria fondante di ogni schema politico e istituzionale che scandisce la
storia del Potere fin dalla sua palingenesi e dal quale in definitiva H. non si
discosta. Laddove, invece, è possibile ravvisare una qualche affinità critica
col radicalismo puritano, questa - a nostro avviso - va intesa nel senso che in
momenti particolari del conflitto (e questo e l'altro elemento fondativo del
processo hobbesiano che au fond caratterizza l'originalità dell'ideologo
del Leviatano e che si innesta, ineluttabilmente, nel processo generale di ogni
qualsiasi origine di forma-Stato) si generano straordinarie trasformazioni.
Cosicché un certo realismo politico si impossessa delle nuove forze del
mutamento, nel tentativo di positivizzare le proprie aspettative, così come,
nello stesso tempo l'impetuosa ventata del cambiamento impone alle stesse forze
della conservazione di riformare le ragioni del proprio comando, nel tentativo
di spiazzare le negatività soggettive non omologabili nel processo di
razionalizzazione della sovranità.
L'ipotesi da cui
partiamo è che in H. la categoria della sovranità non sia nella sua forma e
sostanza, definita una volta e per tutte. E in questo senso assume valenza
essenziale la critica dell'origine divina su cui si reggeva l'ideologia
dominante nell'età feudale, prima degli eventi dirompenti della rivoluzione
puritana: il feudalesimo fu caratterizzato, sotto il profilo della forma del
comando, dal dualismo tra Chiesa e Stato. Per Hobbes l'obiettivo principale era
quello di risolvere questa contraddizione che pesava negativamente
sull'esercizio della sovranità la cui concettualizzazione non ammetteva alcun
equivoco, non sopportando la dualità del comando. Non a caso gran parte
dell'opera di H. è volta a delineare criticamente i rapporti tra Stato e
Chiesa, col preciso intento di eliminare la pretesa di subordinare la sovranità
secolare alla volontà divina, così come esigevano sia la chiesa anglicana che quella
cattolica(7).
La forma della
sovranità è direttamente correlata alle condizioni materiali della società,
connessa cioè al grado di conflittualità sociale che nello sviluppo storico del
XVII secolo, attraverso le sue accelerazioni, si era radicalizzata segnatamente(8).
In questa prospettiva materialistica, come del resto ha dimostrato il
Macpherson, la teoria hobbesiana costituisce il fondamento logico da cui trarrà
origine l'ideologia liberal-democratica che supporterà il divenire della forma
moderna dello Stato, e pertanto le difficoltà incontrate dalla teoria
liberal-democratica hanno "radici più profonde di quanto si
pensasse", e il nodo irrisolto si trova "proprio nell'originario
individualismo del diciassettesimo secolo"(9).
Ora, nelle sue considerazioni
su Macpherson, Negri è riuscito a mettere nitidamente in risalto questa
connessione, vedendo nell'ipotesi di un ritorno ad H., proposta dal Macpherson,
non solo una "esigenza di metodo", bensì anche (attraverso la
riconquista delle intuizioni fondamentali del pensiero hobbesiano) la
possibilità "di conquistare lo schema essenziale attraverso cui si svolge
il dibattito borghese sulla società, a partire dal quale una teoria scientifica
diviene ideologia della società borghese"(10). Quindi
una questione di metodo che si intreccia con la capacità critica del
superamento ideologico e delle sue fissità politico-istituzionali. È questo
l'aspetto decisivo nella teoria hobbesiana (11), nella quale si vede
"sviluppare uno schema scientifico di comprensione del suo tempo, fondato
su una teoria fisiologica dell'uomo, su un conseguente, coerente modello di
società, e infine su un criterio di comprensione delle istituzioni che basa sui
livelli precedenti la sua necessità"(12). In sostanza,
la costruzione del paradigma hobbesiano si indirizza verso l'elaborazione di
una nuova scienza della Politica, sorretta dalla convinzione che i modelli
statuali conosciuti non si reggessero sufficientemente su principi
intelligibili (quale era, in primo luogo, il diritto divino), il cui fondamento
avrebbe dovuto costituirsi sulla comprensione delle tecniche del comando e
quindi sull'esercizio del potere come neutralizzazione dei conflitti.
Legittimata a compiere un siffatto modello statuale-neutrale, al quale si
riconosce il potere della sovranità, sarebbe una macchina istituzionale
autosoggettivizzata nella astrazione impersonale - monarchica o parlamentare è
tecnicamente indifferente(13) - che assicurerebbe i sudditi,
contraenti il Patto, sulla certezza dei rapporti negoziali che si dispiegano
nella sfera autonoma. Di converso, essi stessi - i sudditi - si sentiranno
obbligati verso l'autorità sovrana che esperisce la propria azione per
assicurare il libero esercizio di disposizione dei loro diritti naturali. Il razionalismo hobbesiano
ci conduce ad una necessità insopprimibile. La sovranità è un dato
necessario se si vuole assicurare la libertà e l'autonomia dei
soggetti-sudditi. Perciò la sfora del potere sovrano si distingue dall'autonomo
sviluppo dei rapporti negoziali. Se così non fosse il Sovrano si porrebbe come
un qualsiasi altro soggetto contraente, agente nella propria sfera privata.
Mentre la sfera pubblica, come sappiamo, e la natura contrattualistica del
Patto pongono il Sovrano al di sopra ed al di fuori del negozio originario.
Anzi, il Patto mediante il quale si conferisce la sovranità è posto allo scopo
di assicurare la validità e l'efficacia delle relazioni tra gli individui. La
sfera pubblica si pone sovranamente al di sopra dello scambio, come mero
arbitrato super partes, ossia come macchina regolatrice dei flussi
sociali dei rapporti negoziali, intesi come valore assoluto della società
postmercantile semplice: "È la macchina leonardesca che si fa Stato, e,
come macchina, prodotto della ragione, della tecnica e della convenzione
dell'uomo"(14). Ed è proprio per questa natura di
macchina artificiale che - secondo H. - "È possibile conoscerlo, darne una
definizione scientifica, calcolarne la potenza ed attribuirgli dei fini"(15).
Bobbio ha ben colto la
centralità della critica hobbesiana del diritto divino, riconoscendo ad Hobbes
il merito di aver posto le condizioni teoriche per lo sviluppo dello Stato
moderno, ergendo il pensiero del contrattualista "realista" come un
ponte filosofìco attraversato dallo spirito della società medievale per
compiere la sua determinazione storica oltre i montanti feudali(17).
Certo, la perdita dell'immediata identificazione del potere col sovrano, e
quindi con la sua responsabilità diretta e personale nella gestione politica
degli affari dello Stato, ha creato un sistema di dominazione astratto e
impersonale, forse ancor più totalizzante. Ma il problema posto da Hobbes non è
quello di creare un sistema onnipotente che affievolisca i diritti naturali,
seppur mediati, a fronte del rischio incombente nello "stato di natura".
Semmai, crediamo, sia quello di porre delle condizioni perché la sovranità
possa esperirsi: poste le condizioni nessuno può legittimamente rimettere in
gioco la sovranità. Tuttavia, come vedremo più avanti, anche la sovranità può
subire colpi mortali, vuoi per la "stoltezza" degli uomini che vivono
all'interno della comunità, vuoi anche per mezzo di una aggressione esterna. Ma
l'aver tolto la sacralità al potere sovrano poneva in ogni caso un limite oltre
il quale l'uomo sarebbe ripiombato nello "stato selvaggio". Questo
limite va colto anche nel senso che la ragionevolezza dei comandi deve essere
riconoscibile dalla razionalità di coloro che, per necessità, hanno delegato ad
un potere convenzionale il loro potere naturale. Ad un comando non
comprensibile o irragionevole, il suddito - cui il precetto è rivolto -, ha il
diritto di resistere, soprattutto allorquando esso influisce sulla sfera dei
propri diritti naturali (la proprietà la famiglia, la vita, ecc.).
Non è possibile,
dunque, legittimare esclusivamente la sovranità hobbesiana ne col pactum
unionis ne tanto meno col pactum subiectionis Quello che si instaura
tra suddito e sovrano non può essere efficacemente reso da nessuna delle due
nature pattizie suddette. Ovvero, nel patto hobbesiano ci pare esse siano compresenti
e compresse, seppure siano pronte a contendere per prevalere ora l'una, ora
l'altra. O più semplicemente, come ha precisato Tito Magri, "Hobbes supera
il limite dualistico del contrattualismo tradizionale, riducendo i due patti da
esso previsti (...) ad uno solo, che forma un unico soggetto di diritto
politico"(18). In ogni caso per Hobbes il sovrano non è
mai parte nel contratto, da questo e chiamato in causa tante che non v'è
sottomesso. Non è soggetto ad alcuna obbligazione da adempiere, la sua funzione
deve essere quella di giudice inappellabile, ed in questa veste è chiamato, in
qualità di garante, cioè arbitro disinteressato rispetto alle parti contraenti,
disponendo anche di mezzi eccezionali, e della facoltà di usarli: il potere
sovrano non ha alcun obbligo da adempiere, poiché non fa parte del sinallagma,
essendo il suo esercizio istituzionale di natura mutualistica. La sovranità non
è dettata mai dal potere personale, dall'interesse particolare dell'autorità
preposta dal patto, identificando lo Stato alla stregua di un qualsiasi altro “bene”
come se rientrasse nella sfera dei diritti propri di chi ricopre l'ufficio
sovrano. La sfera dei diritti naturali del sovrano (cioè dei diritti comuni
ad ogni individuo) rimane fuori dalla sfera pubblica, la prima non ingloba
l'altra perché diversa è la loro natura, la mutualità le contraddistingue: solo
da questa essenza traggono legittimazione i suoi comandi, la sua forza è
dettata unicamente dalla necessità, tendente a dare sicurezza ai sudditi ed a difendere
i loro diritti naturali (la vita, la proprietà, ecc...). La sfera pubblica è
scissa nettamente da quella privata, essa è posta in essere come fonte
regolatrice del flusso di rapporti autonomi giuridicamente tutelati, ed
assicura la loro effettualità, riconoscendone l'efficacia. Pertanto, ogni atto
sovrano che travalichi la sua sfera, al di fuori dei postulati per i quali è
stata ordinata, è da considerarsi come un vero e proprio abuso d'esercizio di
potere ovvero una ricaduta nello stato di natura in cui gli uomini si trovano
nella condizione di tutti contro tutti. Ma non solo. E' dalla sfera privata che
risale la legittimazione della sovranità che si formalizza con il
consolidamento del contratto originario, col quale vengono riposte le molteplici
volontà in un'unica volontà sovrana: "la concezione radicalmente
naturalistica dell'uomo tratteggiata da Hobbes metteva in piena evidenza la
meccanica spietata dei rapporti umani, rifiutando ogni occultamento ideologico,
ed esplicitando così il carattere integralmente "laico" della
costituzione dello Stato. Ed è proprio da questa visione naturalistica
dell'uomo e del suo agire che scaturiscono i valori tipicamente moderni della
insopprimibile autonomia dell'individuo, della libertà di coscienza di
pensiero, della necessità del consenso per la fondazione della sovranità"(19).
Il pactum hobbesiano,
cioè il "mutuo trasferimento di diritti", è l'atto attraverso cui si
conferisce il potere sovrano ad una soggettività superpartes, che vigila
sui rapporti liberamente ed autonomamente contratti, per assicurarne la
certezza dei contenuti negoziali. "Un patto, in cui le due parti non
adempiono al presente, ma si concedono credito reciproco, è reso nullo, nella
condizione di sola natura (che è una condizione di guerra di tutti contro
tutti), da qualsiasi ragionevole sospetto. Se invece esiste un potere comune/
posto al di sopra delle parti, con diritto e forza sufficienti a costringere
all'adempimento, il patto non è nullo (...) in uno stato civile, in cui esiste un potere stabilito per costringere
coloro che altrimenti violerebbero la fede, una simile paura non è più
ragionevole; e perciò chi, secondo il patto, deve adempiere per primo è
obbligato a farlo"(20). Hobbes sembra preoccuparsi
dell'efficacia della sovradeterminazione giuridica, tendente ad assicurare la
certezza obbligazionaria che origina dal rapporto strutturale del negozio: lo
scambio. Si avverte qui il passaggio dalle istituzioni sociali di tipo feudale
a quelle della società mercantile possessiva. Un passaggio questo, come abbiamo
già visto, ben sviluppato dal Macpherson.
Ma Hobbes evidentemente
non poteva essere così lungimirante, né poteva immaginare che in nome della
Ragione-suprema si sarebbero potuti compiere atroci misfatti. Tanto più che il
suo primo obiettivo era stato quello di liberare l'origine della sovranità da
ogni vuota ideologia che pretendesse di trarre la sua legittimazione da
precetti apoditticamente pronunciati. Vero è che - in linea di principio - la
forza esercitata dal sovrano, una volta conferita col patto originario, non può
più essere messa in discussione. Tuttavia è altrettanto vero che se il Sovrano
viene meno al patto, infrangendo le ragioni che l'hanno originato, il suddito
che resiste al comando in difesa dei suoi diritti naturali è legittimato ad
esperire la sua azione di resistenza. In definitiva se la legittimazione della
sovranità non può darsi in nome dell'origine divina, nemmeno una Ragione che si
erge a divinità può pretendere di non essere messa in discussione. Quindi se,
da un lato, la critica hobbesiana del "diritto divino" sprigiona una
enorme "carica rivoluzionaria", dall'altro lato, pur riconoscendo il
diritto di resistenza, allorquando si afferma che, una volta conferito il
mandato, la sovranità non potrà più essere rimessa in discussione, è come se si
reintroducesse un qualche potere divinatorio, seppur ammantato delle vesti
della Ragione. In ciò si può cogliere l'aporia hobbesiana di cui abbiamo fatto
cenno all'inizio. Ed è proprio attraverso Hobbes che si mette in discussione
Hobbes. Sarà una debolezza logica dell'impianto hobbesiano o un escamotage
fìlosofico per rimettere in corsa la monarchia in crisi? Comunque sia, a noi
pare di cogliere un'aporia feconda. Perché se assumiamo la critica
dell'origine divina come fondante il discorso di H., va da sé che nessun'altra
assolutizzazione del potere potrà essere posta, tanto più quando si riconosce
che il potere sovrano può essere indifferentemente limitato o illimitato: sta
alla volontà dei sudditi stabilirne la marginalità temporale. Orbene, tutto ciò
equivale a dire che il limite della sovranità è subordinato alla conflittualità
endemica della società, conflittualità naturalmente insopprimibile, tuttalpiù
mediabile - ovvero hobbesianamente governabile - solo grazie al reciproco
riconoscimento degli individui che giungono alla ragionevole coesistenza
mediante la stipula di un Patto
Come si può constatare
la separatezza della sfera "pubblica" da quella "privata",
vogliamo ribadirlo, è ben netta. Il sovrano che incarna la sfera pubblica,
quindi, in nessun caso può sussumere quella privata (cioè quella dei sudditi);
allo stesso modo non può inglobare l'ufficio cui è preposto nella sua propria
sfera di interessi (anch'essi di natura privatistica). In questo senso la
macchina-artificiale (lo Stato) si configura esclusivamente come articolazione
e inveramento del corpo collettivo che agisce razionalmente per il bene comune
(la sopravvivenza e la tutela degli individui) ma non assorbe i soggetti in
unica volontà, se non nei limiti posti in difesa dell'altrui volontà. I termini
politici del rapporto Suddito/Sovrano appaiono qui paradossalmente rovesciati.
Il potere sovrano solo quando viene esercitato per assolvere la funzione
originata dal pactum, non è subordinato ad alcun giudizio, poiché ciò
che il sovrano fa in questa veste -ci fa osservare Hobbes- "È fatto
d'autorità di ogni suddito; quindi chi intenta un'azione contro il sovrano, la
intenta contro se stesso"(22). I sudditi si identificano
coll'unità costitutiva della sovranità, ovvero colla macchina-stato che si
sovradetermina. La dinamica dello Stato-moderno è qui dispiegata in tutta la
sua contraddizione: il soggetto costituisce la macchina pubblica per se stesso,
per i propri bisogni, ma l'identità con la macchina finisce per sussumerlo in
una totalità dove non ci sarà più spazio per la propria autonoma identità. La
ragione hobbesiana finisce col perdersi nella razionalizzazione astratta del
potere come mera tecnica esecutiva e nello sprezzo verso la moltitudine
soggettiva, finché quest'ultima si connota come "sistema politico
irregolare"(23). Purtuttavia il discorso si dipana in
presenza di questa costante contraddittoria: tra riconoscimento dell'autonomia
soggettiva e autonomia della macchina-stato.
Infatti, il rapporto
tra suddito e sovrano in Hobbes non è dettato da uno spirito di comando
assolutistico ex iure divino, semmai da una ragionevole comprensione dei
limiti posti dall'insicurezza dell'arbitrio presenti nello stato di natura,
rinviando la legittimazione del suo compiersi all'elemento fondamentale
dell'impianto teorico: il consenso. Come precisa il Pacchi "l'autonomia
individuale del suddito viene meno solo in seguito ad un contratto, e solo per
esplicito consenso del suddito stesso: è a questo punto, e non prima, che si
incomincia a parlare di situazioni di diritto che vincolano l'autonomia
individuale, solo cioè nelle sfere del diritto positivo, o convenzionale"(24).
L'entità sovrana non risolve perciò le libertà dell'individuo, anzi è posta in
essere per proteggerle. Lo Stato-sovrano non si costituisce in una totalità
onnicomprensiva che non lascia spazi e libertà all'autonomia soggettiva,
nell'ambito della sfera privata. "Al principe assoluto non interessano le
anime dei cittadini, ma solo i corpi"(25), affinché essi
possano esercitare la loro "esteriorità", la loro
"condotta" in modo ordinato e "aliena dalla resistenza al potere
e dalla violenza privata"(26). È una necessità che
utilmente si sostanzia nella efficacia dell'apparato pubblico, per
salvaguardare quelle libertà. "Libertà e necessità non si contraddicono:
come nell'acqua, che ha non solo libertà, ma una necessità di discendere per un
condotto. Allo stesso modo le azioni volontarie degli uomini, in quanto
derivano dalla loro volontà, derivano dalla libertà; e tuttavia, in quanto ogni
atto della volontà umana, e ogni desiderio ed inclinazione, deriva da una
causa, e questa da un'altra causa, in una catena ininterrotta il cui primo
anello è nelle mani di Dio, causa prima, esse derivano dalla necessità"(27).
Parrebbe qui
riaffiorare il presupposto divinatorio, nel rimando al "primo anello"
della catena. Così non è! La prospettiva diventa tutta materialistica dove la
razionalità è un tutt'uno col divino. Hobbes si affretta infatti a sviluppare
il tema della libertà, e nella fattispecie della "libertà naturale, che è
la sola ad essere propriamente detta libertà"(28), dalla
quale si può desumere la categoria della ragione come essenza fondante
dell'origine del potere sovrano: "gli uomini, per conseguire la pace e,
mediante essa, la loro conservazione, hanno costruito un uomo artificiale, che
chiamiamo Stato, così hanno anche costruito delle catene artificiali, dette
leggi civili, che hanno fissato per mezzo di patti reciproci, a un capo, alle
labbra dell'uomo o dell'assemblea cui hanno conferito il potere supremo, e
all'altro capo, alle loro stesse orecchie. Questi vincoli per loro natura sono
molto deboli; ma possono essere rafforzati rendendo pericoloso, se non
difficile, l'infrangerli”(29).
Quanto fin qui detto
non inficia la ricostruzione storica che vede Hobbes schierato tra i più
fervidi e leali sostenitori politici della causa "realista". Tuttavia
ben altro è l'approccio fìlosofico, seppur collocato in una medietà
compromissoria tra volontarismo politico e metodologia di indagine. La messa in
mora della origine divina - operata coll'intento politico di restituire
legittimazione alla monarchia - assume conseguenze così radicali da mettere in
gioco la legittimità stessa dell'ordinamento istituzionale che si voleva
riconsolidare. Spingendo fino all'estremo il ragionamento hobbesiano potremmo
dire che nessun sistema può dirsi sovranamente indissolubile. La chiave
teoretica del paradigma di Hobbes si apre così alla possibilità di realizzare
molteplici forme di potere, pur ritenendo egli – sul piano storico - quella
monarchica la più efficace, se razionalizzata secondo i dettami del nuovo
modello.
Note bibliografiche
(1)
C. Hill, II mondo alla
rovescia. Idee e movimenti rivoluzionavi nell'Inghilterra del Seicento,Torino, 1981.
(2)
La definizione linkpuritanismus è mutuata da E.
Bemstein (Sozialismus una Demokratie in der grossen englischen Revolution,
Stuttgart, 1908), a cui va riconosciuto il merito di aver sollevato - come dice
il Maffi nella sua introduzione al saggio di H. N. Braiisford, I Livellatori
e la Rivoluzione inglese, Milano, 1962, voli. 2 - "il primo velo sulle
correnti politiche di fondo dell'Interregno, riscattando dall'oblio soprattutto
i Levellers e i Diggers".
(3)
G. Fiaschi, Potere, Rivoluzione e Utopia
nell'esperienza di Gerrard Winstanley, Padova, 1982,
(4)
cfr. C. B. Macpherson, Libertà e Proprietà alle
origini del pensiero borghese. La teoria dell'individualismo possessivo da
Hobbes a Locke, Milano, 1973-78.
(5)
ivi, pp. 188/189 (più
precisamente Macpherson parla di "liberali radicali" contrapponendo
la definizione a quella di "democratici radicali". Ma al di là del
formalismo (secondo noi,nda) il concetto non
cambia. Infatti dire "liberal-democratico" - nell'accezione
contemporanea – o "liberal-radicale" è la stessa cosa; come - nel
contempo - è identico dire "democratici-radicali" o
"radical-libertari").
(6)
A. Negri, L'anomalia
selvaggia. Saggio su Potere e Potenza in Baruch Spinoza, Milano, 1981, p.288.7
(7)
cfr. N. Bobbio (a cura di). Opere politiche di
Thomas Hobbes, Torino, 1959, pp. 14/15.
(8)
cfr. A. Negri, op. cit., p. 289.
(9) C.
B. Macpherson, op. cit., p. 27.
(10)
A. Negri, op. cit., p.
270.
(11)
cfr. A. Pacchi(a cura di),Thomas
Hobbes, Il pensiero etico-politico, Firenze,1973-74, p.XXVII
(12)
A. Negri, op. cit., p. 270.
(13) cfr.
A. Pacchi/ op. cit., p. XXVII.
(14)
A. Piazzi, Hobbes: la
geometria del potere, in I1 Politico. Da Hobbes a Smith (a cura di
M. Tronti), Milano 1982, vol. 2, tomo I, pp. 28/29.
(15)
ivi, p. 29.
(16)
16 Bobbio, op. cit., p.
21.
(17)
ivi,p. 19.
(18)
T. Magri (a cura di),
introduzione a T. Hobbes, De Cive, Roma, 1979, p. 38.
(19)
A. Pacchi, op. cit., p.
XLI.
(20)
T. Hobbes, Leviatano,
Roma, 1982, p. 81.
(21)
ivi, pp. 153/154.
(22)
ib.
(23) cfr. P. Virno, Mondanità. L'idea di «mondo» tra esperienza sensibile e sfera pubblica, Manifestolibri. Roma, 1994, pp. 103/107. “È noto lo sprezzo di Hobbes per i «sistemi politici irregolari», la cui perturbante caratteristica è adombrare la Moltitudine in seno al Popolo: «nient’altro che leghe o talvolta mere adunanze di gente, prive di un’unione finalizzata a qualche disegno particolare o determinata da obbligazioni degli uni verso gli altri» (Leviatano,XXII) . Ebbene, l Repubblica dei «molti» consiste proprio in istituti di tal genere: leghe, consigli, soviet. Solo che, contrariamente al giudizio malevolo di Hobbes, non si tratta certo di effimeri assebramenti il cui svolgimento lasci indisturbati i riti della sovranità. Le Leghe , i consigli, i soviet – insomma gli organi della democrazia non rappresentativa – danno piuttosto espressione politica all’agire-di-concerto che, avendo per ordito il general intellect, gode già sempre di una pubblicità tutt’affatto diversa da quella che si addensa nella persona del sovrano. La sfera pubblica delineata dalle «adunanze» in cui non vigono «obbligazioni degli uni vero gli altri» determina la solitudine del re, ovvero riduce la compagine statale a una privatissima banda di periferia, prepotente e però marginale” [Virno, p.106].
(24)
A. Pacchi, op. cit., p.
XXXIII.
(25)
ivi,-p. XXIX.
(26)
ib.
(27)
T. Hobbes, Leviatano,
op. cit., p. 146.
(28)
ib.
(29)
ivi, p.147.
Il contributo che
presentiamo è uno stralcio del saggio “Hobbes e la
rappresentazione della sovranità”, pubblicato dal nostro
autore in Fogli di Anglistica, n.3\1996,
Libreria Dante Editrice, Palermo