giovedì 21 gennaio 2021

LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ


  
- Salvo Vaccaro-

   società autoritaria o società libertaria ? 

  ogni limitazione alla libertà altrui è un limite alla mia libertà in quanto componente della società 

                                                    la libertà non può essere spiegata concettualmente e operativamente se non è “singolare plurale”, senza congiunzione disgiuntiva

                                 responsabilità significa mettersi nella dimensione dell’ascolto reciproco e della risposta reciproca, espellendo le dinamiche autoreferenziali   


L’idea di libertà quale siamo adusi a praticare e pensare è una tipica conquista dell’epoca moderna, nata:

dai contraddittori processi della blasfema rivoluzione della borghesia scatenata nel XVII e XVIII secolo, avversa alle dinastie monarchiche le cui teste regali caddero tanto rovinosamente quanto incredibilmente, per “pacificarsi” con la diffusione dappertutto dei regimi democratici all’indomani delle due guerre mondiali del XX secolo segnate nel sangue della shoah e della bomba atomica;

dall’emancipazione degli individui nel lungo e tortuoso percorso che dalla sudditanza arriva sino alla cittadinanza (con gli alti e bassi delle discriminazioni di genere, etniche e razziali);

dalle scoperte scientifiche che sovvertono i quadri dei saperi riconosciuti come legittimi perché “battezzati” in coerenza alle Sacre scritture;

dai complicati processi di secolarizzazione che, da un lato, destituiscono dio (e il suo braccio secolare del papato romano) dal trono mondano dell’al-di-qua per relegarlo solo all’al-di-là, mentre dall’altro restaurano, dissimulata, una “teologia” politica nel mito dell’autorità politica dotata di un’aura di sovranità;

dall’imperialismo geografico e coloniale che amplifica i limiti del mondo noto, avviando il processo di globalizzazione politica ed economica e realizzando quell’autonomia della politica invocata anzitempo da Machiavelli.

Beninteso, anche i nostri antichi classici – quelli da cui deriviamo culturalmente in senso euro-centrico, per intenderci – conoscevano la eleutheria o la libertas, solo che il senso era profondamente diverso da come la traduciamo noi oggigiorno. Per i romani, la libertas consiste nell’affrancamento da una condizione servile, è una benevola concessione del padrone che “emancipa” lo schiavo per i servigi resi nel corso degli anni. Nulla a che vedere con Spartaco che cerca di liberare i propri simili dal regime di schiavitù imposto dai romani in seguito alle guerre di conquista di territori stranieri sulla via dell’edificazione imperiale. Ma anche la concezione moderna della libertà soggettiva era vissuta come una prerogativa privilegiata in base all’ordine di nascita, tipica degli appartenenti alle gens fondative dell’urbe, che poi calcarono le scene del Senatus romano, unitamente a quel Populus dei Romanorum che rappresentarono per qualche decennio il duplice pilastro del potere politico e sociale a Roma.

Per gli antichi greci, d’altro canto, la libertà era incastonata in una cornice destinale, certificata da dei, miti e tragedie, al cui interno si giocava la partita esistenziale dei nobili guerrieri e delle aristocrazie al potere. Lo scontro tra coscienza razionale e fato divino veniva costantemente rappresentato nella messa-in-scena delle tragedie, e solo in quel foro interiore poteva emergere una idea di libertà come cura di sé, come cura del proprio spirito, come sfacciata parresia che appunto si mostrava nella sua precarietà mortale, a rischio della propria incolumità come ci insegna la vicenda di Socrate. Indubbiamente, il cinismo esprime una rivolta libertaria sin dai segni visibili della forma di vita esibita provocatoriamente, non per niente i cinici designati tali vivevano come cani, un po’ come potrà rappresentare la cultura punk alcuni decenni addietro. Ma appunto di irruzione culturale possiamo parlare, di trasformazione culturale di una cura di sé che viene estrovertita verso l’esterno e verso l’autorità politica – la frase sprezzante di Diogene rivolta ad Alessandro Magno imperatore: “Spostati, che mi fai ombra!”.

Ben diversa, e scandalosa per quei tempi, fu l’irruzione della plebe ateniese al potere ai tempi della “breve estate” della democrazia antica, quel paio di secoli in cui il potere politico fu gestito da un insieme di strati sociali tanto eterogenei per stirpe, ricchezza e “sangue blu” nelle vene, quanto omogenea per condizione socio-economica, di cittadinanza “nazionale” e di vocazione imperiale nella polis di Atene in cui il governo di sé e degli altri veniva insegnato ai giovani rampolli destinati a governare l’agorà e a ricoprire a turno cariche di autorità. Talmente scandalosa che il suo declino dovette aspettare il XVIII secolo d. C. per riemergere dagli abissi della storia e rinverdire i propri fasti sino ai giorni nostri, in cui da pochi anni i regimi di democrazia, soprattutto elettorale, sono maggioritari tra gli stati nazionali del nostro mondo politicamente organizzato.

L’idea e la pratica della libertà moderna vanno oltre la lotta per l’affrancamento e l’emancipazione dalla schiavitù per guerra o per debito, va oltre il privilegio della cura di sé che connotava la condizione stoica del ritiro dal mondo ormai dato per perso, nel senso della irrevocabilità di una condizione politica autoritaria e imperiale che monopolizzava nelle mani di pochi lo scettro del potere politico assoluto e arbitrario. E va oltre, sulla scia di secoli illibertari in cui solo per brevi sprazzi di tempo e di spazio le popolazioni potevano respirare un attimo dal giogo loro imposto – si pensi alle comunità islandesi e nord-europee che si autogovernavano con i primi Parlamenti o ai Comuni in cui le signorie dinastiche e familiari si appoggiavano alle corporazioni di arti e mestiere per detenere il loro potere territorialmente circoscritto, a fronte delle pretese di supremazia mondana tanto del Papato politico quanto dell’Imperatore.

La libertà moderna è leggibile in chiave risolutamente anti-teologica e anti-assolutista. Il millennio cristiano, scatenato dall’opportunismo di Costantino che revoca il politeismo a favore del cristianesimo quale religione privilegiata di Roma, viste le indubbie capacità dei cristiani a mobilitarsi per la propria fede contro ogni repressione, a fortificarsi sotto le insegne del proprio dio unico, e quindi a prestare la propria resistenza in nome del declinante impero romano, grazie al dualismo di Cesare e di Dio a cui dare a ciascuno il suo. Se Carlo Magno riuscirà nell’impresa di riconciliare il Sacro Romano Impero in nome della spada mondana e sovra-mondana, genuflesso di fronte al vicario di dio sulla terra, ossia il papa, nella notte di natale dell’800 a San Pietro, la frantumazione dell’unità cristiana ad opera della chiesa ortodossa prima, e di Lutero della chiesa protestante poi (per non parlare poi dell’anglicanesimo che operò una “brexit” religiosa e politica ante litteram) diede il via alla decadenza della parola di dio negli affari terrestri, avviando l’autonomia della politica dalla teologia politica e lanciando le rivendicazioni di libertà di azione al di là della libertà di parola per la quale gli eretici pagarono un caro prezzo. Ormai la politica e i suoi sovrani acquistavano forza, autorità e potere politico grazie a imprese militari e a incroci dinastici per i quali il benestare del papato non serviva più. L’era secolare avviata dalle rivoluzioni geopolitiche delle conquiste imperiali e dalle rivoluzioni scientifiche che da Galileo a Copernico toglievano l’ordine divino dalla suprema legge cosmica per relegarlo ad una mera fede interiore, escludendo l’umano fatto a somiglianza di dio dal centro del mondo e della vita e affidando a altri saperi il senso e il significato dell’avventura esistenziale dell’umano nella sua apparizione sulla terra.

Ma proprio per l’emergenza di nuovi saperi e di nuove pratiche, quali il commercio internazionale sulla via della colonizzazione non solo politica ed economica, ma anche culturale e immaginifica, che la secolarizzazione moderna non va colta solo in chiave anti-teologica, ma anche in chiave anti-assolutista, ossia nel quadro di un avvicendamento di equilibrio di potere tra strati emergenti diversi al crocevia di trasformazioni politiche e economiche legate all’imperialismo e al passaggio dal feudalesimo legato alla terra e alla rendita fondiaria al commercio legato alla disponibilità di risorse monetarie per poi virare decisamente verso l’industrializzazione legata alla disponibilità di capitali di investimento. Una nuova idea di ricchezza e di moneta non più conciliabile con il parassitismo aristocratico, con l’arbitrio sovrano nel disporre di ricchezze altrui ai fini della propria rendita posizionale e della propria ambizione di conquiste territoriali.

L’epopea delle tre rivoluzioni liberali di metà XVII secolo in Inghilterra e della seconda metà del XVIII secolo oltreoceano e in Francia rappresentano vividamente, e grazie a strumenti di rappresentazione differenziati quali la cultura visuale delle immagini pittoriche, la cultura scritta dei giornali e delle gazzette che amplificavano i discorsi politici accrescendo il numero dei partecipanti alla vita politica delle nazioni, la disponibilità di ricchezze appropriate privatamente e sottratte alle fiscalità assolutiste, depositano la concezione moderna della libertà sotto il sigillo di una metamorfosi del sacro nella autorità che si sostituisce ad esso fagocitandone la logica. L’emblema di tale metamorfosi è la categoria di rappresentanza dalla quale discenderà progressivamente l’estensione dei diritti di partecipazione democratica alla vita politica della nazione. La rappresentanza muove la propria logica dalla presenza dell’assente, tipica figurazione teologica che legittima la visibilità potente di dio giusto nella sottrazione alla sua visibilità, se non sotto forma rappresentata nel culto, nei rituali, nelle manifestazioni liturgiche, nei precetti normativi del catechismo, nella maestosa visualità degli affreschi e dei mosaici (anche se quest’ultimo punto, come è noto, è considerato blasfemo in epoca bizantina e, nell’altra grande religione monoteista islamica, addirittura inesorabilmente vietato e quindi eretico per definizione). La metamorfosi di tale nozione teologica avviene con la secolarizzazione della nozione di popolo, il cui corpo è convocato nella sua fittizia unità esclusivamente nel momento della sua rappresentazione in quanto corpo elettorale, dapprima estremamente limitato e selettivo e poi via via estendendosi sino a coprire ormai buona parte della popolazione attiva e maggiorenne di entrambi i generi riconosciuti. In tal modo si rinnova il “miracolo” dei pochi che mettono in scena i molti, dei pochi “eletti” che “parlano” per tutti, la cui voce singola vale per la vox populi costituzionalmente garantita. L’unità del popolo è espressione del corpo elettorale che si rappresenta attraverso una sua quota-parte investita del potere deliberativo e legislativo dai tutti che essa rappresenta legittimamente. A capo di tale piramide, vi è l’Uno, dapprima il monarca riconosciuto perché eletto o perché i suoi poteri sono costituzionalmente delimitati, quindi derivati dal vero sovrano che è il popolo della nazione, e che poi trapasserà nella figura simbolica del capo dello stato che riassume in sé l’unità della nazione e poi della repubblica essendo investito del dono rappresentativo di essere l’uno che contiene tutti.

È proprio muovendo dalla transizione post-assolutista scatenata dalla rivoluzione liberale e borghese che assume centralità l’unità statuale della sovranità popolare che trova corrispettivo non solo immaginario e simbolico nell’individuo proprietario e nella sua ideologia, l’individualismo proprietario. Il concetto di individuo colto nella sua pretesa di autonomia nasce ovviamente dalla volontà di riscatto dall’eteronomia alla quale era stato condannato nei secoli precedenti dai regimi politici e dagli assetti culturali ove veniva tenuto imprigionato. A posteriori, altrettanto ovviamente, possiamo ritenere che la scissione tra l’umano e il cosmo che lo plasma sia genealogicamente foriera non soltanto della nascita dell’idea di individuo, quanto della sua radicale e al contempo nociva autonomia dalla relazione con la natura, con l’ambiente, con i suoi simili con i quali rapportarsi a forza di violenza e oppressione, o di alleanze interessate e opportuniste.

Indubbiamente, l’idea di individuo nasce all’interno di una trama di rapporti di saperi e di potere che ne consente l’emersione e l’affermazione, sino alla sua tutela giuridica e costituzionale. Nel pensiero e nella pratica liberale, non si tratta di un individuo tout court, bensì di un individuo dotato di proprietà (oserei dire, ontologiche), la prima delle quali, secondo Locke, è il diritto di appropriarsi e detenere in regime esclusivo per sé di tutto ciò che il suo raggio d’azione abbraccio, tocca e raccoglie. Che nel XVII secolo coincideva con il lavoro del suo corpo, ma che oggi ricomprende aspetti che esorbitano il lavoro fisico di ciascuno per raggiungere ogni sforzo intellettuale di comprensione del mondo. L’individuo proprietario è unico detentore esclusivo del diritto di appropriazione privata, che ne fa perno sia nella pratica politica, come attore dotato di forza per imporsi sulla scena e per imporre le proprie idee e priorità, sia nella prassi economica, come imprenditore (commerciante, industriale, artigiano, ecc.) la cui opera merita di diventare assioma centrale dell’attività di creazione di ricchezza, ostacolando ogni sforzo di una sua redistribuzione improntata a ragioni che esulano dalla centralità dell’individuo proprietario, sia infine nel campo giuridico, che intravede nell’individuo il depositario pressoché unico di ogni diritto e di ogni dovere nei confronti della legge che viene ad essere sagomata dalla sua centralità. L’individuo proprietario, in ultima analisi, sostanzia la separazione di una sfera – il mercato – ponendola a baricentro solare di ogni altro campo della società, divenendo così il metronomo delle azioni regolatorie affidate ai vari corpi dello stato.

È in questo diagramma, originatosi al tempo delle rivoluzioni borghesi e liberali, che si staglia la concezione della libertà tagliata a misura dell’individuo proprietario, forse sarebbe il caso di precisare: dell’individuo che si appropria per sé di ciò che intende fare proprio in ragione delle sue proprietà originarie, appunto come se fossero ontologiche e dunque indiscutibili. La premessa teorica risiede nel dualismo cartesiano declinato in prima persona singolare – quel Cogito, ergo sum che scinde il corpo dalla mente e quindi recide non solo la relazione cosmica che incastonava l’avventura esistenziale dell’umano nel più ampio vincolo destinale della terra e della natura animata, che beninteso occultava la sua sempiterna culturalizzazione linguistica e simbolica; ma anche le relazioni interumane e pertanto sociali che vengono esternalizzate, dando luogo, ad esempio in Leibnitz, alla concezione monadica dell’individuo che è tanto simmetrica con l’individuo proprietario caro al leitmotiv liberale – seppure Adam Smith ne contemperava l’egoicità, al limite autistica, della sua strutturazione solipsistica con la teoria dei sentimenti morali che lega gli umani gli uni agli altri.

L’esito complesso di tali articolazioni genealogiche restituisce dunque una libertà saldamente agganciata alle qualità indiscusse di tale individuo proprietario, libertà che non è pensabile in senso plurale o comune o collettiva se non come sommatoria casuale di rapporti di forza di individui che si stagliano gli uni di fronte agli altri nella loro autoreferenzialità. Ne è diretto riflesso la vulgata secondo la quale la libertà individuale si arresta là dove inizia la libertà altrui, come se le pretese alle pratiche di libertà fossero sfere singolari che, rotolando un medesimo piano di inclinazione, si scontrassero le une contro le altre, dando luogo a conflitti da tenere a bada attraverso patti sociali, quel contratto ora hobbesiano, ora rousseauviano, nella cui astrattezza trionfa l’imprinting individualistico dell’epoca liberale. Ma risulta altrettanta simmetria nell’elaborazione consolidata di Isaiah Berlin, secondo la quale quel dualismo cartesiano si traduce nella teorizzazione della politica nella duplice libertà negativa e positiva, volgarmente indicate dalle locuzione “libertà da” (vincoli, servitù, retaggi, tabù, e via dicendo) e “libertà di” (parola, azione, professione di fede, associazione e via dicendo), come se i processi di liberazione e di affermazione libera fossero scindibili e distinguibili, e non invece una doppia articolazione di un unico processo di libertà.

Lungi da porre limiti all’invasione statuale dell’autonomia individuale che ne limita la libertà, questa specifica declinazione liberale limita il concetto stesso di libertà che sottrae alla cifra peculiare di una società che ne designa la qualità letteralmente libertaria, per affidarla al parametro quantitativo affidato all’individuo, corredato pertanto di un “catalogo” di prerogative che vengono tutelate via via dal corpo giuridico e giurisdizionale (parlamenti e tribunali) che disciplinano la libertà tanto del singolo quanto della società: “libertà obbligatoria”, per usare la locuzione paradossale (mica tanto, a ben vedere) di Giorgio Gaber. Inforcando gli occhiali liberali prima, e liberaldemocratici successivamente, quando i regimi si democratizzano moltiplicando le logiche dei poteri costituiti e preoccupandosi di non cortocircuitarli, quel che sfugge completamente al pensiero politico moderno è l’idea associativa della libertà quale struttura della società nelle sue varie e distinte forme relazionali, informate da una libertà illimitata che si alimenta ricorsivamente dal prolungamento sempre più esteso e estendibile dei confini alla libertà quali posti dall’autorità politica a sigillo di posizioni sociali privilegiate che frenano i processi ellittici di liberazione e di affermazione libertaria.

Una idea di libertà che si alimenta delle libertà altrui, non che si arresta di fronte al perimetro altrui saldamente delimitato e recintato (la metafora di Hobbes), sorvegliato dalla politica e dalla polizia (nel duplice senso concreto e allegorico di Rancière). Una concezione della libertà solidale, giusto nel senso etimologico del termine, ossia che denota i molteplici legami sociali che cementano la società nel suo insieme caratterizzandola qualitativamente ora come società autoritaria, ora come società libertaria, nelle sue sfumature e oscillazioni. Ogni limitazione alla libertà altrui è un limite alla mia libertà in quanto componente della società: la libertà non può essere spiegata concettualmente e operativamente se non è “singolare plurale”, senza congiunzione disgiuntiva, come ci avverte Jean-Luc Nancy. Una libertà solidale che si nutre di un continuo riscontro tra le libertà operative socialmente, che si rilanciano le une con le altre, che si saldano anche là dove non sono palesemente visibili le fila di una medesima trama, perché tale è la libertà socialmente innervata. E che si nutre, altresì, di un profondo senso di responsabilità che si diffonde tra i singoli individui nelle loro interazioni reciproche, a rammentarci che responsabilità significa per l’appunto mettersi nella dimensione dell’ascolto reciproco e della risposta reciproca, espellendo le dinamiche autoreferenziali che oggi vengono premiate dalle attuali forme di società neoliberali.

Il senso di responsabilità solidale si innesta nel quadro di una rinnovata concezione della nostra ontologia del presente, ossia nella interdipendenza reciproca che lega gli umani gli uni con gli altri, nonché gli umani con il resto delle altre specie, viventi e (ritenute) inorganiche. Più che una mera petizione di principio, la responsabilità solidale che motiva l’idea di libertà proviene, secondo Lévinas, da un obbligo morale secondo il quale l’autonomia di ciascuno essere singolare si precisa solamente nell’essere convocato di fronte ad altri suoi co-esseri, altrettanto autonomi nella interdipendenza reciproca. Per cui la singolarità di ciascuno è plurale giusto perché si responsabilizza liberamente insieme all’altro che è ugualmente costitutivo della propria individualità.

Ogni nostro gesto, ogni nostra azione, incide sulla libertà, nostra e collettiva, singolare plurale, come detto, e proprio per questo occorre interrogarsi criticamente sul senso di responsabilità che dobbiamo alla tenuta collettiva, comune del nostro vivere associati da esseri liberi, tutte e tutti. Questa tensione non è esente dal conflitto, tutt’altro. Nella pratica neoliberale, una simile concezione della libertà è incompatibile con l’ordine esistente, con le pretese di potere e di gerarchia che continuamente si affermano istruendo un mondo sotto l’effigie di una piramide in cui sempre più pochi stanno in alto, godendo sfacciatamente della stragrande maggioranza delle ricchezze prodotte e dei servizi esistenti funzionali ad una migliore qualità della vita, mentre il 99,9% della popolazione mondiale si affanna a non precipitare sempre più verso il basso della piramide. Proprio tale condizione comune alimenta la libertà responsabile, quella sintonia che da antagonista deve diventare attraverso il conflitto protagonista di un pianeta degno di essere vissuto in piena libertà.



il contributo che pubblichiamo è la  relazione di Salvo Vaccaro, presentata al seminario “LA LIBERTÀ PRIMA, DURANTE E DOPO IL CORONAVIRUS”, organizzato dal Caffè filosofico "Beppe Bonetti" 

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