- Salvo Vaccaro-
società autoritaria o società libertaria ?
la libertà non può essere spiegata concettualmente e operativamente se non è “singolare plurale”, senza congiunzione disgiuntiva
responsabilità significa mettersi nella dimensione dell’ascolto reciproco e della risposta reciproca, espellendo le dinamiche autoreferenziali
L’idea di libertà quale siamo adusi a praticare e pensare è una tipica conquista dell’epoca moderna, nata:
dai contraddittori processi della blasfema rivoluzione della borghesia scatenata nel XVII e XVIII secolo, avversa alle dinastie monarchiche le cui teste regali caddero tanto rovinosamente quanto incredibilmente, per “pacificarsi” con la diffusione dappertutto dei regimi democratici all’indomani delle due guerre mondiali del XX secolo segnate nel sangue della shoah e della bomba atomica;
dall’emancipazione
degli individui nel lungo e tortuoso percorso che dalla sudditanza arriva sino
alla cittadinanza (con gli alti e bassi delle discriminazioni di genere,
etniche e razziali);
dalle
scoperte scientifiche che sovvertono i quadri dei saperi riconosciuti come
legittimi perché “battezzati” in coerenza alle Sacre scritture;
dai
complicati processi di secolarizzazione che, da un lato, destituiscono dio (e
il suo braccio secolare del papato romano) dal trono mondano dell’al-di-qua per
relegarlo solo all’al-di-là, mentre dall’altro restaurano, dissimulata, una
“teologia” politica nel mito dell’autorità politica dotata di un’aura di
sovranità;
dall’imperialismo
geografico e coloniale che amplifica i limiti del mondo noto, avviando il
processo di globalizzazione politica ed economica e realizzando quell’autonomia
della politica invocata anzitempo da Machiavelli.
Beninteso,
anche i nostri antichi classici – quelli da cui deriviamo culturalmente in
senso euro-centrico, per intenderci – conoscevano la eleutheria o la libertas,
solo che il senso era profondamente diverso da come la traduciamo noi
oggigiorno. Per i romani, la libertas consiste nell’affrancamento da una
condizione servile, è una benevola concessione del padrone che “emancipa” lo
schiavo per i servigi resi nel corso degli anni. Nulla a che vedere con
Spartaco che cerca di liberare i propri simili dal regime di schiavitù imposto
dai romani in seguito alle guerre di conquista di territori stranieri sulla via
dell’edificazione imperiale. Ma anche la concezione moderna della libertà
soggettiva era vissuta come una prerogativa privilegiata in base all’ordine di
nascita, tipica degli appartenenti alle gens
fondative dell’urbe, che poi calcarono le scene del Senatus romano, unitamente
a quel Populus dei Romanorum che
rappresentarono per qualche decennio il duplice pilastro del potere politico e
sociale a Roma.
Per
gli antichi greci, d’altro canto, la libertà era incastonata in una cornice
destinale, certificata da dei, miti e tragedie, al cui interno si giocava la
partita esistenziale dei nobili guerrieri e delle aristocrazie al potere. Lo
scontro tra coscienza razionale e fato divino veniva costantemente
rappresentato nella messa-in-scena delle tragedie, e solo in quel foro
interiore poteva emergere una idea di libertà come cura di sé, come cura del
proprio spirito, come sfacciata parresia che appunto si mostrava nella sua
precarietà mortale, a rischio della propria incolumità come ci insegna la
vicenda di Socrate. Indubbiamente, il cinismo esprime una rivolta libertaria
sin dai segni visibili della forma di vita esibita provocatoriamente, non per
niente i cinici designati tali vivevano come cani, un po’ come potrà
rappresentare la cultura punk alcuni decenni addietro. Ma appunto di irruzione
culturale possiamo parlare, di trasformazione culturale di una cura di sé che
viene estrovertita verso l’esterno e verso l’autorità politica – la frase
sprezzante di Diogene rivolta ad Alessandro Magno imperatore: “Spostati, che mi
fai ombra!”.
Ben
diversa, e scandalosa per quei tempi, fu l’irruzione della plebe ateniese al
potere ai tempi della “breve estate” della democrazia antica, quel paio di
secoli in cui il potere politico fu gestito da un insieme di strati sociali
tanto eterogenei per stirpe, ricchezza e “sangue blu” nelle vene, quanto
omogenea per condizione socio-economica, di cittadinanza “nazionale” e di
vocazione imperiale nella polis di Atene in cui il governo di sé e degli altri
veniva insegnato ai giovani rampolli destinati a governare l’agorà e a
ricoprire a turno cariche di autorità. Talmente scandalosa che il suo declino
dovette aspettare il XVIII secolo d. C. per riemergere dagli abissi della
storia e rinverdire i propri fasti sino ai giorni nostri, in cui da pochi anni
i regimi di democrazia, soprattutto elettorale, sono maggioritari tra gli stati
nazionali del nostro mondo politicamente organizzato.
L’idea
e la pratica della libertà moderna vanno oltre la lotta per l’affrancamento e
l’emancipazione dalla schiavitù per guerra o per debito, va oltre il privilegio
della cura di sé che connotava la condizione stoica del ritiro dal mondo ormai
dato per perso, nel senso della irrevocabilità di una condizione politica
autoritaria e imperiale che monopolizzava nelle mani di pochi lo scettro del
potere politico assoluto e arbitrario. E va oltre, sulla scia di secoli illibertari
in cui solo per brevi sprazzi di tempo e di spazio le popolazioni potevano
respirare un attimo dal giogo loro imposto – si pensi alle comunità islandesi e
nord-europee che si autogovernavano con i primi Parlamenti o ai Comuni in cui
le signorie dinastiche e familiari si appoggiavano alle corporazioni di arti e
mestiere per detenere il loro potere territorialmente circoscritto, a fronte
delle pretese di supremazia mondana tanto del Papato politico quanto
dell’Imperatore.
La
libertà moderna è leggibile in chiave risolutamente anti-teologica e
anti-assolutista. Il millennio cristiano, scatenato dall’opportunismo di
Costantino che revoca il politeismo a favore del cristianesimo quale religione
privilegiata di Roma, viste le indubbie capacità dei cristiani a mobilitarsi
per la propria fede contro ogni repressione, a fortificarsi sotto le insegne
del proprio dio unico, e quindi a prestare la propria resistenza in nome del
declinante impero romano, grazie al dualismo di Cesare e di Dio a cui dare a
ciascuno il suo. Se Carlo Magno riuscirà nell’impresa di riconciliare il Sacro
Romano Impero in nome della spada mondana e sovra-mondana, genuflesso di fronte
al vicario di dio sulla terra, ossia il papa, nella notte di natale dell’800 a
San Pietro, la frantumazione dell’unità cristiana ad opera della chiesa
ortodossa prima, e di Lutero della chiesa protestante poi (per non parlare poi
dell’anglicanesimo che operò una “brexit” religiosa e politica ante litteram) diede il via alla
decadenza della parola di dio negli affari terrestri, avviando l’autonomia
della politica dalla teologia politica e lanciando le rivendicazioni di libertà
di azione al di là della libertà di parola per la quale gli eretici pagarono un
caro prezzo. Ormai la politica e i suoi sovrani acquistavano forza, autorità e
potere politico grazie a imprese militari e a incroci dinastici per i quali il
benestare del papato non serviva più. L’era secolare avviata dalle rivoluzioni
geopolitiche delle conquiste imperiali e dalle rivoluzioni scientifiche che da
Galileo a Copernico toglievano l’ordine divino dalla suprema legge cosmica per
relegarlo ad una mera fede interiore, escludendo l’umano fatto a somiglianza di
dio dal centro del mondo e della vita e affidando a altri saperi il senso e il
significato dell’avventura esistenziale dell’umano nella sua apparizione sulla
terra.
Ma
proprio per l’emergenza di nuovi saperi e di nuove pratiche, quali il commercio
internazionale sulla via della colonizzazione non solo politica ed economica,
ma anche culturale e immaginifica, che la secolarizzazione moderna non va colta
solo in chiave anti-teologica, ma anche in chiave anti-assolutista, ossia nel
quadro di un avvicendamento di equilibrio di potere tra strati emergenti
diversi al crocevia di trasformazioni politiche e economiche legate
all’imperialismo e al passaggio dal feudalesimo legato alla terra e alla
rendita fondiaria al commercio legato alla disponibilità di risorse monetarie
per poi virare decisamente verso l’industrializzazione legata alla
disponibilità di capitali di investimento. Una nuova idea di ricchezza e di
moneta non più conciliabile con il parassitismo aristocratico, con l’arbitrio
sovrano nel disporre di ricchezze altrui ai fini della propria rendita
posizionale e della propria ambizione di conquiste territoriali.
L’epopea
delle tre rivoluzioni liberali di metà XVII secolo in Inghilterra e della
seconda metà del XVIII secolo oltreoceano e in Francia rappresentano
vividamente, e grazie a strumenti di rappresentazione differenziati quali la
cultura visuale delle immagini pittoriche, la cultura scritta dei giornali e
delle gazzette che amplificavano i discorsi politici accrescendo il numero dei
partecipanti alla vita politica delle nazioni, la disponibilità di ricchezze
appropriate privatamente e sottratte alle fiscalità assolutiste, depositano la
concezione moderna della libertà sotto il sigillo di una metamorfosi del sacro
nella autorità che si sostituisce ad esso fagocitandone la logica. L’emblema di
tale metamorfosi è la categoria di rappresentanza dalla quale discenderà
progressivamente l’estensione dei diritti di partecipazione democratica alla
vita politica della nazione. La rappresentanza muove la propria logica dalla
presenza dell’assente, tipica figurazione teologica che legittima la visibilità
potente di dio giusto nella sottrazione alla sua visibilità, se non sotto forma
rappresentata nel culto, nei rituali, nelle manifestazioni liturgiche, nei
precetti normativi del catechismo, nella maestosa visualità degli affreschi e
dei mosaici (anche se quest’ultimo punto, come è noto, è considerato blasfemo
in epoca bizantina e, nell’altra grande religione monoteista islamica,
addirittura inesorabilmente vietato e quindi eretico per definizione). La metamorfosi
di tale nozione teologica avviene con la secolarizzazione della nozione di
popolo, il cui corpo è convocato nella sua fittizia unità esclusivamente nel
momento della sua rappresentazione in quanto corpo elettorale, dapprima
estremamente limitato e selettivo e poi via via estendendosi sino a coprire
ormai buona parte della popolazione attiva e maggiorenne di entrambi i generi
riconosciuti. In tal modo si rinnova il “miracolo” dei pochi che mettono in
scena i molti, dei pochi “eletti” che “parlano” per tutti, la cui voce singola
vale per la vox populi costituzionalmente garantita. L’unità del popolo è
espressione del corpo elettorale che si rappresenta attraverso una sua
quota-parte investita del potere deliberativo e legislativo dai tutti che essa
rappresenta legittimamente. A capo di tale piramide, vi è l’Uno, dapprima il
monarca riconosciuto perché eletto o perché i suoi poteri sono
costituzionalmente delimitati, quindi derivati dal vero sovrano che è il popolo
della nazione, e che poi trapasserà nella figura simbolica del capo dello stato
che riassume in sé l’unità della nazione e poi della repubblica essendo
investito del dono rappresentativo di essere l’uno che contiene tutti.
È
proprio muovendo dalla transizione post-assolutista scatenata dalla rivoluzione
liberale e borghese che assume centralità l’unità statuale della sovranità
popolare che trova corrispettivo non solo immaginario e simbolico
nell’individuo proprietario e nella sua ideologia, l’individualismo
proprietario. Il concetto di individuo colto nella sua pretesa di autonomia
nasce ovviamente dalla volontà di riscatto dall’eteronomia alla quale era stato
condannato nei secoli precedenti dai regimi politici e dagli assetti culturali
ove veniva tenuto imprigionato. A posteriori, altrettanto ovviamente, possiamo
ritenere che la scissione tra l’umano e il cosmo che lo plasma sia
genealogicamente foriera non soltanto della nascita dell’idea di individuo,
quanto della sua radicale e al contempo nociva autonomia dalla relazione con la
natura, con l’ambiente, con i suoi simili con i quali rapportarsi a forza di
violenza e oppressione, o di alleanze interessate e opportuniste.
Indubbiamente,
l’idea di individuo nasce all’interno di una trama di rapporti di saperi e di
potere che ne consente l’emersione e l’affermazione, sino alla sua tutela
giuridica e costituzionale. Nel pensiero e nella pratica liberale, non si
tratta di un individuo tout court, bensì di un individuo dotato di proprietà
(oserei dire, ontologiche), la prima delle quali, secondo Locke, è il diritto
di appropriarsi e detenere in regime esclusivo per sé di tutto ciò che il suo
raggio d’azione abbraccio, tocca e raccoglie. Che nel XVII secolo coincideva
con il lavoro del suo corpo, ma che oggi ricomprende aspetti che esorbitano il
lavoro fisico di ciascuno per raggiungere ogni sforzo intellettuale di
comprensione del mondo. L’individuo proprietario è unico detentore esclusivo
del diritto di appropriazione privata, che ne fa perno sia nella pratica
politica, come attore dotato di forza per imporsi sulla scena e per imporre le
proprie idee e priorità, sia nella prassi economica, come imprenditore
(commerciante, industriale, artigiano, ecc.) la cui opera merita di diventare
assioma centrale dell’attività di creazione di ricchezza, ostacolando ogni
sforzo di una sua redistribuzione improntata a ragioni che esulano dalla
centralità dell’individuo proprietario, sia infine nel campo giuridico, che
intravede nell’individuo il depositario pressoché unico di ogni diritto e di
ogni dovere nei confronti della legge che viene ad essere sagomata dalla sua
centralità. L’individuo proprietario, in ultima analisi, sostanzia la
separazione di una sfera – il mercato – ponendola a baricentro solare di ogni
altro campo della società, divenendo così il metronomo delle azioni regolatorie
affidate ai vari corpi dello stato.
È
in questo diagramma, originatosi al tempo delle rivoluzioni borghesi e
liberali, che si staglia la concezione della libertà tagliata a misura
dell’individuo proprietario, forse sarebbe il caso di precisare: dell’individuo
che si appropria per sé di ciò che intende fare proprio in ragione delle sue
proprietà originarie, appunto come se fossero ontologiche e dunque
indiscutibili. La premessa teorica risiede nel dualismo cartesiano declinato in
prima persona singolare – quel Cogito,
ergo sum che scinde il corpo dalla mente e quindi recide non solo la
relazione cosmica che incastonava l’avventura esistenziale dell’umano nel più
ampio vincolo destinale della terra e della natura animata, che beninteso occultava
la sua sempiterna culturalizzazione linguistica e simbolica; ma anche le
relazioni interumane e pertanto sociali che vengono esternalizzate, dando
luogo, ad esempio in Leibnitz, alla concezione monadica dell’individuo che è
tanto simmetrica con l’individuo proprietario caro al leitmotiv liberale –
seppure Adam Smith ne contemperava l’egoicità, al limite autistica, della sua
strutturazione solipsistica con la teoria dei sentimenti morali che lega gli
umani gli uni agli altri.
L’esito
complesso di tali articolazioni genealogiche restituisce dunque una libertà
saldamente agganciata alle qualità indiscusse di tale individuo proprietario,
libertà che non è pensabile in senso plurale o comune o collettiva se non come
sommatoria casuale di rapporti di forza di individui che si stagliano gli uni
di fronte agli altri nella loro autoreferenzialità. Ne è diretto riflesso la
vulgata secondo la quale la libertà individuale si arresta là dove inizia la
libertà altrui, come se le pretese alle pratiche di libertà fossero sfere
singolari che, rotolando un medesimo piano di inclinazione, si scontrassero le
une contro le altre, dando luogo a conflitti da tenere a bada attraverso patti
sociali, quel contratto ora hobbesiano, ora rousseauviano, nella cui
astrattezza trionfa l’imprinting individualistico dell’epoca liberale. Ma
risulta altrettanta simmetria nell’elaborazione consolidata di Isaiah Berlin,
secondo la quale quel dualismo cartesiano si traduce nella teorizzazione della
politica nella duplice libertà negativa e positiva, volgarmente indicate dalle
locuzione “libertà da” (vincoli, servitù, retaggi, tabù, e via dicendo) e
“libertà di” (parola, azione, professione di fede, associazione e via dicendo),
come se i processi di liberazione e di affermazione libera fossero scindibili e
distinguibili, e non invece una doppia articolazione di un unico processo di
libertà.
Lungi
da porre limiti all’invasione statuale dell’autonomia individuale che ne limita
la libertà, questa specifica declinazione liberale limita il concetto stesso di
libertà che sottrae alla cifra peculiare di una società che ne designa la
qualità letteralmente libertaria, per affidarla al parametro quantitativo
affidato all’individuo, corredato pertanto di un “catalogo” di prerogative che
vengono tutelate via via dal corpo giuridico e giurisdizionale (parlamenti e
tribunali) che disciplinano la libertà tanto del singolo quanto della società:
“libertà obbligatoria”, per usare la locuzione paradossale (mica tanto, a ben
vedere) di Giorgio Gaber. Inforcando gli occhiali liberali prima, e
liberaldemocratici successivamente, quando i regimi si democratizzano
moltiplicando le logiche dei poteri costituiti e preoccupandosi di non
cortocircuitarli, quel che sfugge completamente al pensiero politico moderno è
l’idea associativa della libertà quale struttura della società nelle sue varie
e distinte forme relazionali, informate da una libertà illimitata che si
alimenta ricorsivamente dal prolungamento sempre più esteso e estendibile dei
confini alla libertà quali posti dall’autorità politica a sigillo di posizioni
sociali privilegiate che frenano i processi ellittici di liberazione e di
affermazione libertaria.
Una
idea di libertà che si alimenta delle libertà altrui, non che si arresta di
fronte al perimetro altrui saldamente delimitato e recintato (la metafora di
Hobbes), sorvegliato dalla politica e dalla polizia (nel duplice senso concreto
e allegorico di Rancière). Una concezione della libertà solidale, giusto nel
senso etimologico del termine, ossia che denota i molteplici legami sociali che
cementano la società nel suo insieme caratterizzandola qualitativamente ora
come società autoritaria, ora come società libertaria, nelle sue sfumature e
oscillazioni. Ogni limitazione alla libertà altrui è un limite alla mia libertà
in quanto componente della società: la libertà non può essere spiegata
concettualmente e operativamente se non è “singolare plurale”, senza
congiunzione disgiuntiva, come ci avverte Jean-Luc Nancy. Una libertà solidale
che si nutre di un continuo riscontro tra le libertà operative socialmente, che
si rilanciano le une con le altre, che si saldano anche là dove non sono
palesemente visibili le fila di una medesima trama, perché tale è la libertà
socialmente innervata. E che si nutre, altresì, di un profondo senso di
responsabilità che si diffonde tra i singoli individui nelle loro interazioni
reciproche, a rammentarci che responsabilità significa per l’appunto mettersi
nella dimensione dell’ascolto reciproco e della risposta reciproca, espellendo
le dinamiche autoreferenziali che oggi vengono premiate dalle attuali forme di
società neoliberali.
Il
senso di responsabilità solidale si innesta nel quadro di una rinnovata
concezione della nostra ontologia del presente, ossia nella interdipendenza
reciproca che lega gli umani gli uni con gli altri, nonché gli umani con il
resto delle altre specie, viventi e (ritenute) inorganiche. Più che una mera
petizione di principio, la responsabilità solidale che motiva l’idea di libertà
proviene, secondo Lévinas, da un obbligo morale secondo il quale l’autonomia di
ciascuno essere singolare si precisa solamente nell’essere convocato di fronte
ad altri suoi co-esseri, altrettanto autonomi nella interdipendenza reciproca.
Per cui la singolarità di ciascuno è plurale giusto perché si responsabilizza
liberamente insieme all’altro che è ugualmente costitutivo della propria
individualità.
Ogni
nostro gesto, ogni nostra azione, incide sulla libertà, nostra e collettiva,
singolare plurale, come detto, e proprio per questo occorre interrogarsi
criticamente sul senso di responsabilità che dobbiamo alla tenuta collettiva,
comune del nostro vivere associati da esseri liberi, tutte e tutti. Questa
tensione non è esente dal conflitto, tutt’altro. Nella pratica neoliberale, una
simile concezione della libertà è incompatibile con l’ordine esistente, con le
pretese di potere e di gerarchia che continuamente si affermano istruendo un
mondo sotto l’effigie di una piramide in cui sempre più pochi stanno in alto,
godendo sfacciatamente della stragrande maggioranza delle ricchezze prodotte e
dei servizi esistenti funzionali ad una migliore qualità della vita, mentre il
99,9% della popolazione mondiale si affanna a non precipitare sempre più verso
il basso della piramide. Proprio tale condizione comune alimenta la libertà
responsabile, quella sintonia che da antagonista deve diventare attraverso il
conflitto protagonista di un pianeta degno di essere vissuto in piena libertà.
il contributo che
pubblichiamo è la relazione di Salvo Vaccaro, presentata
al seminario “LA LIBERTÀ PRIMA, DURANTE E DOPO IL CORONAVIRUS”, organizzato dal
Caffè filosofico "Beppe Bonetti"
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