-Luciano Ferra Bravo-
UNA FORMA GENERALE DI REGIME DI «CONTROLLO»
INCARDINATA SU TECNOLOGIE ELETTRONICHEAd una lettura superficiale, il giudizio senza sconti che Ferrari Bravo formula a proposito di Homo sacer, sembra voler avvertire il lettore che la soluzione alla problematica sollevata dall’autore non sia raggiungibile per la via che Agamben stesso traccia. Similmente, l’ammissione d’imprescindibilità del testo di Agamben può apparire più come un gesto retorico che come un vero e proprio invito alla sua consultazione. Niente di più sbagliato. La recensione di Ferrari Bravo è, infatti, il tassello di un’indagine più ampia che lo coinvolge in quegli anni: la comprensione del salto di paradigma che la globalizzazione impone da un lato, alle forme della rappresentanza politica, dall’altro, alla forma Stato
(Luigi Emilio Pischedda)
[...]
Il
significato foucaultiano di biopolitica non può essere sganciato da questa
essenziale dimensione «molecolare»: è essa, a ben vedere, a dar ragione della
«produttività» del Potere medesimo (in una prospettiva teorica potenzialmente
coerente con quella marxiana). In questo senso la critica serrata all’ideologia
dei «diritti umani», in sé perfettamente condivisibile, deve porre attenzione a
non gettare il bambino con l’acqua sporca. Che qualsiasi corpo vivente sia
dotato (sia «vestito») in quanto tale di diritti naturali è antica pretesa
ideologica, preda necessaria di una falsa alternativa tra giusnaturalismo e
formalismo, ove venga riferita all’ordine della physis; ma assume
potenzialmente ben altro significato quando faccia perno su quella seconda o
ennesima «natura» che è frutto della fatica e della creatività, del dolore e
della ribellione dell’uomo. Il fuoco della ricerca di A. è concentrato sul
coglimento della «struttura originaria» del potere politico (in Occidente),
all’insegna di una strategia teorica animata da una passione politica che può
ricordare quella, insieme affascinante e inguaribilmente limitata,
dell’anarchismo - di un anarchismo all’altezza dei tempi, che ha attraversato
la lezione heideggeriana. Non deve perciò sorprendere che il risultato
principale del suo lavoro - che rimarrà in ogni caso, d’ora in avanti, un punto
di riferimento inaggirabile di qualsiasi riflessione sul potere - lasci
disarmato chi intenda comprendere le differenze tra le grandi configurazioni di
potere che quella stessa storia esibisce. Se la tesi dì A. è corretta, cosa
consente di distinguere la struttura profonda del potere imperiale romano da
quella, poniamo, dello Stato nazionale moderno? O la configurazione di una
polity «democratica» da una «totalitaria»? Che entrambe queste ultime giacciano
sotto la stessa coperta, secondo la tesi «filosofica» ribadita da A., non è
forse dovuto (oltre che ad un’implicita, e condivisi- bile, critica alla
categoria stessa di totalitarismo) ad una mancata tematizzazione critica, «decostruttiva»
delle condizioni di pensabilità di un potere politico democratico? In una delle
molte gemme sparse nel testo di A., nell’importante scolio dedicato al concetto
di popolo (pp. 198-201), si tocca il cuore del problema. Ma l’identificazione della
costitutiva ambiguità dei concetto di popolo tralascia del tutto, a mio parere,
una componente già ben presente (anche se in maniera contraddittoria)
nell’analisi aristotelica e in ogni caso piantata nel mezzo della storia reale
della democrazia (imperiale) ateniese: vale a dire il ruolo centrale che vi
assume non già semplicemente il plethos dei « poveri, i diseredati, gli
esclusi» ma la figura di ciò che potremmo chiamare modernamente i «working
poors» (i teti, i marinai, gli artigiani ecc.) - la differenza, con tutta
evidenza, non è «sociologica»! Anche in questo senso ritengo che la
trasposizione sul terreno di un’indagine «fondamentale» della categoria
foucaultiana di biopolitica possa far perdere per un verso ciò che fa
guadagnare per un altro. Com’è noto, in Foucault, l’emergere di una dimensione
biopolitica è legata ad uno specifico passaggio storico, quello che segna la
crisi dei «regimi di sovranità» propri delle società di antico regime e che
accompagna l’imporsi di società capitalistiche nella forma di una rete
crescente e differenziata di «discipline» che «producono», appunto, una nuova
visione dei corpi (in termini di grandi numeri) e tecnologie adeguate di
assoggettamento. Discipline e biopolitica costituiscono così due facce di una
stessa medaglia e non vi è dubbio che la rete teorica predisposta da Foucault
consenta di catturare qualcosa di essenziale dello sviluppo capitalistico fin
dentro la sua maturità di tipo «fordista» . Il problema semmai - col quale
siamo oggi confrontati, nel quale siamo immersi - è quello di cogliere il senso
della mutazione di paradigma, anche e prima di tutto «politico», che la crisi
della società fordista determina. Alcune folgoranti intuizione di Deleuze,
proprio in sede di riflessione critica sul testo foucaultiano, indicano delle
direzioni di ricerca a mio parere fondamentali. In particolare la rotazione
dell’asse del paradigma dalla coppia individuo-massa a quella
«dividuels-échantillons» invita a guardare ad una forma generale di regime di
«controllo» incardinata su tecnologie elettroniche, che potrebbe ben essere
considerata un’alternativa (tutto sommato più «realistica», malgrado la sua
estrema astrazione) al quadro teorico suggerito da A., imperniato sulla figura
del «campo». La questione è naturalmente aperta. Salvo ribadire un punto
centrale: il «denudamento» della vita - questa incessante, micidiale,
prestazione del potere che è merito di A. aver posto a tema - ha come suo
oggetto primo, e privilegiato, il «proletario». Agli occhi del potere (agli
occhi dei «padroni») è lui che deve essere, prima di ogni altro, sistematica-
mente ricondotto alla sua costitutiva, doppia, nudità: come povero e come
suddito. Che le vecchie figure di questa fondamentale condizione umana siano
tramontate, che dunque non si possa che dire «addio al (vecchio) proletariato»
non toglie (al contrario!) che è solo dal seno della sua metamorfosi in un
insieme di relazioni infinitamente più ricche, e terribili, di quelle del
passato, che può nascere - che già nasce - il bisogno più acuto di una «veste»
degna dell’uomo in genere: quella di una reale comunità.
estratto della
recensione [/Homo
sacer.pdf] uscita originariamente
per Futuro anteriore (1996) e poi ripubblicata nella raccolta Dal fordismo alla
globalizzazione. Cristalli di tempo politico (Manifestolibri, 2001)
http://www.archiviolfb.eu/