giovedì 31 dicembre 2020

HOMO SACER, UNA RIFLESSIONE SUL LIBRO DI AGAMBEN

-Luciano Ferra Bravo-

      UNA FORMA GENERALE DI REGIME DI «CONTROLLO»

INCARDINATA SU TECNOLOGIE ELETTRONICHE
Ad una lettura superficiale, il giudizio senza sconti che Ferrari Bravo formula a proposito di Homo sacer, sembra voler avvertire il lettore che la soluzione alla problematica sollevata dall’autore non sia raggiungibile per la via che Agamben stesso traccia. Similmente, l’ammissione d’imprescindibilità del testo di Agamben può apparire più come un gesto retorico che come un vero e proprio invito alla sua consultazione. Niente di più sbagliato. La recensione di Ferrari Bravo è, infatti, il tassello di un’indagine più ampia che lo coinvolge in quegli anni: la comprensione del salto di paradigma che la globalizzazione impone da un lato, alle forme della rappresentanza politica, dall’altro, alla forma Stato 
(Luigi Emilio Pischedda)    
[...]

Il significato foucaultiano di biopolitica non può essere sganciato da questa essenziale dimensione «molecolare»: è essa, a ben vedere, a dar ragione della «produttività» del Potere medesimo (in una prospettiva teorica potenzialmente coerente con quella marxiana). In questo senso la critica serrata all’ideologia dei «diritti umani», in sé perfettamente condivisibile, deve porre attenzione a non gettare il bambino con l’acqua sporca. Che qualsiasi corpo vivente sia dotato (sia «vestito») in quanto tale di diritti naturali è antica pretesa ideologica, preda necessaria di una falsa alternativa tra giusnaturalismo e formalismo, ove venga riferita all’ordine della physis; ma assume potenzialmente ben altro significato quando faccia perno su quella seconda o ennesima «natura» che è frutto della fatica e della creatività, del dolore e della ribellione dell’uomo. Il fuoco della ricerca di A. è concentrato sul coglimento della «struttura originaria» del potere politico (in Occidente), all’insegna di una strategia teorica animata da una passione politica che può ricordare quella, insieme affascinante e inguaribilmente limitata, dell’anarchismo - di un anarchismo all’altezza dei tempi, che ha attraversato la lezione heideggeriana. Non deve perciò sorprendere che il risultato principale del suo lavoro - che rimarrà in ogni caso, d’ora in avanti, un punto di riferimento inaggirabile di qualsiasi riflessione sul potere - lasci disarmato chi intenda comprendere le differenze tra le grandi configurazioni di potere che quella stessa storia esibisce. Se la tesi dì A. è corretta, cosa consente di distinguere la struttura profonda del potere imperiale romano da quella, poniamo, dello Stato nazionale moderno? O la configurazione di una polity «democratica» da una «totalitaria»? Che entrambe queste ultime giacciano sotto la stessa coperta, secondo la tesi «filosofica» ribadita da A., non è forse dovuto (oltre che ad un’implicita, e condivisi- bile, critica alla categoria stessa di totalitarismo) ad una mancata tematizzazione critica, «decostruttiva» delle condizioni di pensabilità di un potere politico democratico? In una delle molte gemme sparse nel testo di A., nell’importante scolio dedicato al concetto di popolo (pp. 198-201), si tocca il cuore del problema. Ma l’identificazione della costitutiva ambiguità dei concetto di popolo tralascia del tutto, a mio parere, una componente già ben presente (anche se in maniera contraddittoria) nell’analisi aristotelica e in ogni caso piantata nel mezzo della storia reale della democrazia (imperiale) ateniese: vale a dire il ruolo centrale che vi assume non già semplicemente il plethos dei « poveri, i diseredati, gli esclusi» ma la figura di ciò che potremmo chiamare modernamente i «working poors» (i teti, i marinai, gli artigiani ecc.) - la differenza, con tutta evidenza, non è «sociologica»! Anche in questo senso ritengo che la trasposizione sul terreno di un’indagine «fondamentale» della categoria foucaultiana di biopolitica possa far perdere per un verso ciò che fa guadagnare per un altro. Com’è noto, in Foucault, l’emergere di una dimensione biopolitica è legata ad uno specifico passaggio storico, quello che segna la crisi dei «regimi di sovranità» propri delle società di antico regime e che accompagna l’imporsi di società capitalistiche nella forma di una rete crescente e differenziata di «discipline» che «producono», appunto, una nuova visione dei corpi (in termini di grandi numeri) e tecnologie adeguate di assoggettamento. Discipline e biopolitica costituiscono così due facce di una stessa medaglia e non vi è dubbio che la rete teorica predisposta da Foucault consenta di catturare qualcosa di essenziale dello sviluppo capitalistico fin dentro la sua maturità di tipo «fordista» . Il problema semmai - col quale siamo oggi confrontati, nel quale siamo immersi - è quello di cogliere il senso della mutazione di paradigma, anche e prima di tutto «politico», che la crisi della società fordista determina. Alcune folgoranti intuizione di Deleuze, proprio in sede di riflessione critica sul testo foucaultiano, indicano delle direzioni di ricerca a mio parere fondamentali. In particolare la rotazione dell’asse del paradigma dalla coppia individuo-massa a quella «dividuels-échantillons» invita a guardare ad una forma generale di regime di «controllo» incardinata su tecnologie elettroniche, che potrebbe ben essere considerata un’alternativa (tutto sommato più «realistica», malgrado la sua estrema astrazione) al quadro teorico suggerito da A., imperniato sulla figura del «campo». La questione è naturalmente aperta. Salvo ribadire un punto centrale: il «denudamento» della vita - questa incessante, micidiale, prestazione del potere che è merito di A. aver posto a tema - ha come suo oggetto primo, e privilegiato, il «proletario». Agli occhi del potere (agli occhi dei «padroni») è lui che deve essere, prima di ogni altro, sistematica- mente ricondotto alla sua costitutiva, doppia, nudità: come povero e come suddito. Che le vecchie figure di questa fondamentale condizione umana siano tramontate, che dunque non si possa che dire «addio al (vecchio) proletariato» non toglie (al contrario!) che è solo dal seno della sua metamorfosi in un insieme di relazioni infinitamente più ricche, e terribili, di quelle del passato, che può nascere - che già nasce - il bisogno più acuto di una «veste» degna dell’uomo in genere: quella di una reale comunità.

 

estratto della recensione [/Homo sacer.pdf] uscita originariamente per Futuro anteriore (1996) e poi ripubblicata nella raccolta Dal fordismo alla globalizzazione. Cristalli di tempo politico (Manifestolibri, 2001) 

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