-Biagio Quattrocchi \ Francesco Raparelli-
Preparare la svolta del conflitto sociale
il governo giallo-rosé è l’esito di nuove istanze riformatrici nate
nel “laboratorio” ordoliberale del continente
Il progetto sovranista ha
subito una sonora sconfitta politica, mettendo all’angolo quei segmenti imprenditoriali
di quel «capitalismo molecolare» del Nord “poco incline all’innovazione tecnologica
e impoverito dalla crisi”. Più in generale, la crisi di governo giallo-verde è
stata determinata dalla presa d’atto del fallimento degli intenti originari della
compagine neo-corporativa, intenti volti
alla costituzione di un “nuovo «assemblaggio di ceti», che avrebbe dovuto
subordinare gli interessi dei poveri del Meridione (vedi il Reddito di
cittadinanza), alle ambizioni dei piccoli e medi proprietari del Nord alla ricerca
di nuovi profitti (leggi: Flat tax)”
L’esecutivo
giallo-rosé appena varato è – sostanzialmente - il frutto alchemico ordoliberale
che apre a nuove prospettive riformatrici nel vecchio continente, ma è anche
effetto del “nuovo consensus interno alle
élite e alle classi dirigenti del Bel paese”. Il governo giallo-rosè è stato il risultato politico necessario, frutto “della resa dei conti per nulla lieve tra «frazioni» della
borghesia, in permanente e convulso conflitto tra loro”. Ciò che è più importante -dal nostro punto di vista- è interrogarsi sulla apertura di questa complessa fase. Cioè: possono innestarsi sulle contraddizioni del capitale i conflitti sociali per un mutamento dal basso dello
spazio comune europeo? In altri termini, come scrivono Quattrocchi e Raparelli: “ il sindacalismo sociale
può conquistare un’estensione quanto meno europea? I movimenti che ora ci sono
– quello femminista, quello ecologista, quello dei migranti in fuga – possono
essere traino per una ampia convergenza sociale, e per conflitti che superino confini e
steccati identitari?” [accì]
L’agenda della nuova Presidentessa della
Commissione Europea, Ursula von der Leyen, introduce temi che da almeno un
ventennio, se non di più, sono programma dei movimenti sociali: salario minimo
e sussidio di disoccupazione continentali; ovviamente in un quadro di
socializzazione dei debiti sovrani, di uniformazione dei regimi fiscali.
Sappiamo, e lo abbiamo già scritto nella calura d’agosto, che il governo
giallo-rosé appena nato è un effetto di questo “nuovo corso”. Senza revisione
del Patto di Stabilità, per il Sud Europa e non solo il destino ha il nome di
Matteo Salvini. Pochi giorni fa, a Cernobbio, il Presidente della Repubblica
Sergio Mattarella, che non è mai stato comunista, ha detto che occorre quanto
prima tassare le multinazionali. L’Europa al bivio, scossa dai dazi di Trump e
dai populismi autoritari foraggiati da Putin, promuove almeno a parole un mite
riformismo. Non si tratta di buone azioni, intendiamoci: la locomotiva tedesca
si è fermata, lo squilibrio della bilancia commerciale – che ha visto
nell’export germanico il solo protagonista europeo in Europa e nel mondo – non
è più sostenibile.
Arriviamo
al sodo: riteniamo plausibile una vera
stagione di riformismo del capitale europeo? Sì e no. Sì, perché in
assenza di esso l’Europa non può che frammentarsi sotto la spinta della
barbarie, anche bellica. No, perché senza una massiccia dose di scioperi del
lavoro precario, sottopagato, migrante, informale, ecc. niente ci assicura che
alle parole roboanti non seguano topolini ancora ordoliberali. Di più: se
l’Europa non cambia, e può cambiare solo con la pressione delle lotte, Salvini
e i suoi sodali continentali conquisteranno la maggioranza assoluta. L’Europa
al bivio impone a chi non si è arreso all’impotenza e al rancore un salto di
qualità: ora più che mai servono movimenti
sociali radicali, europei, offensivi. Un sindacato continentale,
capace di scioperare lo stesso giorno in dieci città dell’Unione, potrebbe
inaugurare un nuovo ciclo di lotte
vincenti, mentre le tecnocrazie promettono politiche espansive e
investimenti, continuando a tagliare i tassi di interesse.
Prima
di passare il testimone a Christine Lagarde, Mario Draghi ha rilanciato il Quantitive Easing.
A soli dieci mesi dalla fine del primo. La BCE acquisterà titoli di Stato sul
mercato secondario per 20 miliardi al mese. Ciò, fin quando sarà «necessario».
Terminerà dunque solo quando la BCE alzerà i tassi, ovvero una volta che l’inflazione
sarà «robusta e sufficientemente vicina al 2%». Uno scossone: l’euro sarà
debole a fronte del dollaro forte; l’export europeo sarà enormemente
avvantaggiato. Le banche, poi, avranno liquidità a sufficienza per fare credito
alle imprese, che pagheranno tassi di interesse bassissimi. Così dovrebbe
essere per i mutui e i prestiti a favore delle famiglie che investono nel
mattone. Scende lo spread, con ciò che
ne consegue per i paesi come l’Italia molto indebitati. A questo punto,
chiarisce Draghi, la palla passa nelle mani delle politiche fiscali europee e
degli Stati.
Il
rischio ci è già fin troppo noto: l’accesso al denaro è facile, ma il denaro
continua a non circolare; meglio, a circolare sempre nelle stesse mani. Con
imprese che dovrebbero investire in innovazione e ricerca e che, soprattutto in
Italia, continuano a non farlo. Ancora: ma quali sono le famiglie che si
indebitano per il mattone quando la precarietà del lavoro e la disoccupazione
hanno frammentato biografie e affetti? È dal 2008 che gli stimoli monetari non
si traducono in politiche effettivamente espansive, capaci di favorire crescita
dei salari diretti e indiretti (welfare:
previdenza, salute, istruzione). Saprà, il nuovo QE appena
battezzato da Draghi, andare in direzione diversa del precedente? In piccola
parte sì, in buona parte no. Perché la moneta da sola, se non ci sono politiche
pubbliche coraggiose, non “sgocciola” verso il basso. Ma non è forse questo il
momento migliore per rilanciare la parola d’ordine: ‘Quantitative
Easing for the People’? Rispondiamo senza incertezze: sì.
Proprio
oggi, come spesso è accaduto nella storia della lotta di classe, dovremmo
prendere sul serio e praticare from
below i timidi enunciati riformistici del capitalismo europeo.
Compreso quello, assai più globalizzato, dell’economia circolare e del Green New Deal.
Proprio oggi, con la forza dell’esperienza femminista di Ni una menos, e i
potenti scioperi transnazionali dell’8 marzo, con l’esempio dei gilets jaunes francesi,
ci vorrebbero blocchi continentali della
produzione, della circolazione, del consumo. Pretendendo un vero –
e non un miserabile – salario minimo europeo, un reddito di base garantito da
una fiscalità unica comunitaria, un modello di sviluppo sostenibile. Proprio
oggi, in combinazione con i salvataggi in mare e la riapertura di corridoi
umanitari anche aerei, servirebbero scioperi della forza-lavoro migrante per il
salario e per il welfare, antidoti
al razzismo dilagante.
Ma la
domanda da farsi è ovviamente la seguente: il sindacalismo sociale può
conquistare un’estensione quanto meno europea? I movimenti che ora ci sono –
quello femminista, quello ecologista, quello dei migranti in fuga – possono
essere traino per una ampia convergenza sociale,
e per conflitti che superino confini e steccati identitari? Tra ciò che
servirebbe per la trasformazione radicale, e la realtà, difficilmente c’è
coincidenza. Soprattutto nel pieno di un ciclo reazionario che a livello
globale, dagli Stati Uniti alla Russia, dal Brasile all’India, si è tutt’altro che
sopito. E dopo anni in cui i “pozzi” sono stati avvelenati, con la mutazione
antropologica che fa da sfondo e da base sociale della reazione neoliberale e
al tempo stesso sovranista. Eppure non possiamo, e non
dobbiamo, nasconderci la portata epocale della sfida fin qui delineata. Senza
organizzazione e lotte, nessun riformismo è davvero possibile. E se il
riformismo fin qui per la maggior parte enunciato dovesse fallire malamente, la
guerra tornerà in Europa. Ma le
riforme in questione, seppur solo verbali, possono diventare terreno offensivo
per i movimenti.
Forse,
come nel 1929, è stata la relativa passività della «classe operaia», del lavoro
vivo, a favorire la crisi europea e, soprattutto, la «stagnazione secolare» che
ne è conseguita. Ed è proprio adesso allora, che nelle lotte e nei movimenti
occorre preparare la svolta.
abstract dell’ articolo “L’ora della convergenza, il
momento di attaccare”, pubblicato su DINAMOPress