-ida dominijanni-
Oltre il Midterm: le elezioni durano un giorno, le legislature quattro anni, ma la scommessa della politica delle donne è più alta e più lunga \Impronte di genere, di classe e di razza: l’intreccio di femminismo, lotta sociale e lotta al razzismo \Dal 9 novembre di due anni fa a oggi la mobilitazione femminista non si è mai arrestata e si è radicalizzata, nei contenuti e nelle pratiche
“Non è l’anno della donna, è l’anno
delle donne”, titola il sito della Cnn. “Non chiamatelo l’anno della donna,
chiamatelo l’alba di una nuova era politica”, scrive Jill Filipovic su Harper’s
Bazar. “Se il 2018 passerà alla storia come l’anno delle donne non
sarà solo per il record di candidate, ma anche e soprattutto per l’ondata di
attivismo che è esplosa tra le donne”, scrive Kate Zernike sul
New York Times. Non ci stanno, loro e tante come loro, a incastonare e
incastrare la mobilitazione femminile degli ultimi due anni nel numero di seggi
rosa che alla fine uscirà dalle urne delle elezioni di metà mandato, né nel
numero di record femminili che verranno stabiliti. Le elezioni durano un
giorno, le legislature quattro anni, ma la scommessa della politica delle donne
è più alta e più lunga. E il record più importante, l’aver messo in moto
un’onda inarrestabile di soggettività politica femminile nel paese più potente
del mondo governato da un presidente suprematista e misogino, è già stato
incassato.
Certo, i numeri aiutano e confortano: su
un totale di 964 candidati, le donne sono 272, e tra queste le candidate di
colore sono cresciute del 75 per cento rispetto al 2012 e le bianche del 36. E
anche i record sono significativi: Alexandria Ocasio-Cortez, la barista di 28
anni di origini portoricane che ha vinto le primarie democratiche del Bronx,
può diventare la deputata più giovane della storia americana; Ilhan Omar, 36
anni, e Rashida Tlaib, 42, che le hanno vinte in Minnesota e in Michigan, le
prime musulmane (e Omar la prima rifugiata); Stacey Abrams, 44, scrittrice e
avvocata, la prima governatrice afroamericana, dopo 82 governatori bianchi, in
uno stato di tradizione segregazionista come la Georgia; Deb Haaland in New
Mexico e Sharice Davids in Kansas le prime deputate native americane e Paulette
Jordan nell’Idaho la prima governatrice anche lei nativa; Gina Ortiz Jones la
prima deputata veterana di guerra e dichiaratamente omosessuale, Lupe Valdez la
prima governatrice ispanica e lesbica (entrambe in Texas), Christine Hallquist
la prima governatrice transgender (del Vermont). E si potrebbe continuare a
volontà considerando anche i seggi in palio al livello locale, ottima scuola di
formazione della futura classe dirigente femminile.
Che vengano conquistati o no, questi primati rendono efficacemente la
novità principale di cui le donne sono portatrici nel campo democratico:
un’impennata del numero di candidate delle cosiddette minoranze coloured e
lgbqt. Attenzione però, non si tratta della tradizionale identity
politics che allinea e coalizza le suddette minoranze per quote di
rappresentanza, ma precisamente del suo superamento nella pratica della
“intersezionalità” rivendicata a lungo dal femminismo americano e diffusasi a
macchia d’olio nelle mobilitazioni femminili più recenti.
“Intersezionali”, ovvero risultanti
dall’intersezione tra diversi tratti identitari, sono gli stessi profili delle
candidate: ciascuna si presenta e si rappresenta come una singolarità meticcia,
che mescola ed elabora in modo originale le impronte di genere, di classe e di
razza da cui la sua storia è marcata, e intreccia di conseguenza femminismo,
lotta sociale e lotta al razzismo, con la consueta capacità delle donne di
costruire reti di relazioni a partire da sé.
da “Le guerriere del Midterm”, Internazionale
immagine: la candidata democratica Alexandria Ocasio-Cortez
durante una manifestazione contro la nomina del giudice Brett Kavanaugh alla
corte suprema, il 1 ottobre 2018 a Boston (Brian Snyder, Reuters/Contrasto)