- jason w. moore –
RIPENSARE IL LAVORO NEL CAPITALISMO
\«Il capitalismo non
potrebbe sopravvivere un giorno senza […] l’appropriazione dell’attività umana
non retribuita, per lo più riprodotta al di fuori della forma-denaro. Per
questo una politica rivoluzionaria della sostenibilità deve riconoscere una
divisione tripartita del lavoro nel capitalismo: la forza-lavoro, il lavoro
umano non retribuito, e il lavoro della natura nel suo complesso.
È questa la “trilettica” del lavoro nell’ecologia-mondo capitalistica. La questione dello sfruttamento della forza-lavoro presuppone non solo un meccanismo espansivo di appropriazione della natura extra-umana, ma anche lo sfruttamento del lavoro non pagato delle donne»
(ANTROPOCENE O CAPITALOCENE [conclusioni] )
È questa la “trilettica” del lavoro nell’ecologia-mondo capitalistica. La questione dello sfruttamento della forza-lavoro presuppone non solo un meccanismo espansivo di appropriazione della natura extra-umana, ma anche lo sfruttamento del lavoro non pagato delle donne»
(ANTROPOCENE O CAPITALOCENE [conclusioni] )
Il
capitalismo è, prima di ogni altra cosa, uno specifico modo di produzione teso
all’infinita accumulazione di capitale. E cos’è il capitale? Ogni marxista ve
lo potrebbe dire: “valore in movimento”… Ma la spiegazione deve scavare più in
profondità. Il valore è una cristallizzazione specifica delle fonti di ogni
ricchezza: il lavoro umano e non umano (Marx 2007, p. 7). Marx dedicò una cura
particolare al fatto che il lavoro – così come la politica socialista – non può
essere astratto dalla natura:
Il
lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è
tanto la fonte dei valori d’uso (e non consiste in questi la ricchezza
materiale?) quanto il lavoro, che è esso stesso solo l’espressione di
una forza naturale, della forza-lavoro (Marx 2007, p. 33; corsivo
aggiunto).
Il
pensiero marxista e quello ambientalista – così come i progetti politici a essi
collegati – hanno troppo spesso fallito nella ricerca di un terreno comune
perché hanno attributo quella che Marx chiama “forza creatriva soprannaturale”
(ivi, p. 34) all’uno o all’altro lato della diade Natura/Società. Due
fondamentalismi uguali e contrari – del lavoro e della natura – hanno finito
col prevalere nel dibattito. Dal punto di vista politico, questa situazione si
manifesta nell’assurdo e falso conflitto tra “posti di lavoro” e “ambiente”. La
tragedia di questo conflitto mistificante si è mostrata ancora una volta
nell’inverno 2016 riguardo al progetto Dakota Access Pipeline – un oleodotto di
quasi 2000 chilometri che trasporterebbe greggio dal North Dakota all’Illinois
meridionale (Sammon 2016). Il maggiore sindacato del paese, l’afl-cio ha fatto
pressione sul Governo Federale affinché assicurasse il completamento dei lavori
(2016), benché a Standing Rock la tribù dei Sioux e i suoi alleati stessero
organizzando un’opposizione molto agguerrita (Queally 2016)[1]. Questa volta,
però, la protesta ha trovato sostegno anche tra le fila del movimento operaio,
non da ultimo nel sindacato delle infermiere [National Nurses United] che ha
bollato il progetto come “minaccia continua alla salute pubblica” (2016).
Questa convergenza tra sindacato e movimenti attorno alla difesa della
riproduzione socio-ecologica (latamente intesa) suggerisce lo sviluppo
dell’intuizione di O’Connor (1998). Quanto più il capitale estende la
forma-denaro nella sfera della riproduzione, tanto più esso minaccia il
benessere delle nature umane ed extra-umane stabilendo nuove condizioni di
lotta anti-capitalista. Queste “nuove condizioni” riguardano da vicino il
terreno della riproduzione (salute, educazione – ma anche beni comuni globali)
e favoriscono una politica radicale del lavoro e della vita che necessariamente
va al di là del riduzionismo economico.
Non
sappiamo se il movimento operaio e quello ambientalista riusciranno a trovare
un terreno d’intesa in tempi sufficientemente rapidi per evitare le disastrose
conseguenze del riscaldamento globale (Barca 2016b). La stagnazione della
crescita della produttività del lavoro a partire dagli anni Settanta del xx
secolo potrà certamente intensificare il ricatto occupazionale, anche se rivela
con altrettanta evidenza la bancarotta del modello capitalistico di crescita
economica (Gordon 2012). Rileggere Marx non risolverà magicamente il conflitto.
Eppure un’interpretazione radicalmente ecologica e femminista della storia del
capitalismo (del suo sfruttamento e della sua appropriazione) ci fornisce la
chiave per parlare di lavoro in modo nuovo, per ripensarlo come un fronte
comune – che chiamo energia-lavoro – senza cadere nei
particolarismi delle singole pratiche ed esperienze di lavoro. Da questo punto
di vista Marx potrebbe indicare una via per liberarci delle mistificazioni del
dualismo Lavoro/Natura – un dualismo materiale in quanto astrazione reale e
violento in quanto negazione di ogni progetto socialista che intenda emancipare
non una ma tutte le forme di vita.
Perché
il lavoro si muove sempre nella e attraverso la rete della vita. Quando
pronunciamo la frase “lavoro e natura” dovremmo essere consapevoli che ci
riferiamo a un’unità dialettica: lavoro-nella-natura, natura-nel-lavoro. I due
momenti non sono separati – non lo erano nelle piantagioni di zucchero, nelle
miniere d’argento o nei cantieri navali nel xvi secolo, e non lo sono oggi nei
laboratori clandestini, nei data centers, nelle catene di fast
food. Il lavoro è sempre lavoro-nella-natura. Questo concetto
di lavoro implica una triplice trasformazione: di noi stessi, delle nature
esterne, delle nostre relazioni con gli altri esseri umani (Marx 1987a). E se
il processo è più complesso per quanto riguarda le civiltà, nondimeno anch’esse
devono “lavorare”. Cos’è infatti una civiltà se non un dispositivo specifico di
mobilitazione del lavoro – umano, certo, ma anche vegetale, animale, geologico?
Il
capitalismo, tuttavia, non potrebbe sopravvivere un giorno senza un terzo
momento del lavoro: l’appropriazione dell’attività umana non
retribuita, perlopiù riprodotta al di fuori della forma-denaro. Per questo una
politica rivoluzionaria della sostenibilità deve riconoscere una divisione
tripartita del lavoro nel capitalismo: la forza-lavoro, il lavoro umano non
retribuito, e il lavoro della natura nel suo complesso. È questa la
“trilettica” del lavoro nell’ecologia-mondo capitalistica. Perché la questione
dello sfruttamento della forza-lavoro presuppone non solo un meccanismo
espansivo di appropriazione della natura extra-umana, ma anche lo sfruttamento
del lavoro non pagato delle donne. Infatti l’emergere del capitalismo fu legato
a doppio filo all’espulsione delle donne dalla Società e alla loro forzosa
ri-localizzazione nel regno delle nature “a buon mercato” (von Werlhof 1985;
Federici 2014; Mies 1986; Moore 2015a, 2015b).
Una
politica della natura fondata sul deterioramento ambientale piuttosto che sul
lavoro sostenibile rende la visione radicale vulnerabile rispetto a una critica
in particolare – quella che sostiene che la natura incontaminata non è mai
esistita, che viviamo in un’altra tra le molte epoche di cambiamento ambientale
che può essere governata attraverso l’innovazione tecnologica (Lynas 2011;
Shellenberger e Nordhaus 2011). Partiamo dal presupposto che questa tipo di
argomenti sono solo spazzatura. Il contro-argomento, per il Capitalocene,
mostra il deterioramento della natura come espressione specifica
dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Il “lavoro” assume molte forme in
questa concezione: è un processo geo-ecologico molteplice e multi-specista.
Questa definizione ci permette di pensare alla tecnologia come un fenomeno
radicato nelle nature co-prodotte dal capitalismo. Ci permette di vedere come
il capitalismo abbia prosperato utilizzando il lavoro della natura nella sua
totalità, l’attività umana nelle forme del lavoro “retribuita” o “non
retribuita” e catturando il lavoro-energia della biosfera.
Ripensare
il lavoro nel capitalismo – al di là del fondamentalismo del lavoro – è un
compito cruciale per uscire dalla realtà attuale, tutt’altro che piacevole. Una
visione rivoluzionaria dev’essere in grado di articolare una politica che
connetta la crisi della biosfera e la crisi del lavoro produttivo e
riproduttivo. Una politica della natura rivoluzionaria che non sappia parlare
del precariato e dell’insicurezza sociale, dell’“umanità in surplus” (Davis
2006), della violenza razziale e di genere, è votata al fallimento. Una
politica del lavoro rivoluzionaria che non parli dell’attuale crisi della vita
su scala planetaria e dei continui e incombenti “cambiamenti di stato” dei
sistemi del pianeta, sarà altrettanto condannata. È giunto il momento di aprire
un dibattito serio su come forgiare una visione radicale che assuma come
proprie premesse la totalità organica della vita, la biosfera, la produzione e
la riproduzione.
[1] Opposizione
che fino al momento in cui scriviamo – dicembre 2016 – ha avuto successo
[N.d.C.]
Immagine
d’apertura: installazione Fata Morgana di Alberto Timossi, lago del Col d’Olen,
Valle D’Aosta, luglio 2017
Il
testo è tratto da Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella
crisi planetaria, di Jason W. Moore, (Ombre Corte, Verona 2017), pubblicato
da Effimera
in preparazione della giornata di studi “Ecologie politiche del presente“,
tenutasi a Napoli lo scorso 9 giugno