- Marco Spagnuolo-
IL REDDITO
DI BASE COME DISPOSITIVO DI CONVERGENZA
“Il reddito di base non è assistenza
- dice Ciccarelli in un’altra recensione del Manifesto per il reddito di base di Federico Chicchi e Emanuele Leonardi-, ma il riconoscimento della produzione
di cui siamo protagonisti al di là dell’impiego precario e dell’occupazione
statisticamente rilevata”.
L’accesso al reddito sganciato dal lavoro salariato
è la premessa della libertà politica ed è –al tempo stesso- rifiuto di una
occupazione qualsiasi: prima il diritto all’esistenza poi la scelta dell’attività
autodeterminata
Dall’inizio della
campagna elettorale, in molti stiamo guardando con soddisfazione l’inattesa
centralità del reddito all’interno del dibattito pubblico italiano.
Soddisfazione critica, ovviamente, ma pur sempre soddisfazione perché non si è
assistito a un dibattito così lungo ed esteso riguardo la questione «reddito»
negli ultimi anni.
La
centralità, e le sue relative ambiguità, che ha assunto il tema del reddito a
livello di dibattito pubblico e istituzionale, apre maggiormente la faglia
italiana prodotta nelle ultime elezioni. Una faglia vera e propria, aperta ai
suoi limiti dalla dirompente – e non più strisciante, come vuole ancora la
retorica socialdemocratica – emersione di un revanchismo in salsa xenofoba e
fascista e dalla morte della socialdemocrazia – già avvenuta, in verità, nella
crisi del 2008, ma ritardata attraverso una virata su una rotta liberista del
PD. In questo quadro, caratterizzato da quella che è già stata definita
stabilizzazione reazionaria, cioè nell’ulteriore tentativo di governare
l’ingovernabilità componendo e scomponendo di volta in volta alleanza, fronti,
coalizioni – insomma, qui dentro ritroviamo il reddito.
Le ambiguità
che circolano intorno al reddito – sulla sua forma, sul suo fine, sul suo
significato, sulla sua provenienza etica prima che politica ed economica –
certificano ancora una volta l’esattezza di una frase che ormai sappiamo a
memoria: «prima la lotta e poi lo sviluppo capitalistico». È proprio il
concetto di fondo che traspira dalle poche ma dense pagine del Manifesto per il reddito di base di
Federico Chicchi e Emanuele Leonardi, pubblicato per la collana manifesti di
Laterza questo mese. Infatti, tenendo fisso in mente il concetto di tendenza
così declinato a loro tempo dagli operaisti, la confusione intorno al reddito
appare dipanarsi un pò. Chicchi e Leonardi hanno così potuto fissare – dopo
aver riportato in sintesi i grandi stravolgimenti nei rapporti reddito/salario,
tempi di lavoro/non lavoro, società/fabbrica, cioè il passaggio dal fordismo al
biocapitalismo cognitivo – due «scenari»
di reddito di base che si vogliono alternativi, ma che alla radice sono
entrambi interni alla logica di un «nuovo compromesso sociale»[p.19]:
«quello turbo-capitalistico, ventilato dai magnati della Silicon Valley» e la
triste «opzione social-democratica
2.0». Da un lato, «si accetterebbe una misera regalia da parte di imprenditori
straricchi in cambio della rinuncia al potere decisionale sui modelli di vita e
di lavoro della società»; dall’altro, si otterrebbe «obbedienza in cambio di
pace sociale, riconoscimento delle nuove forme di produttività diffusa …
nessuna autonomia e scarso potere sulla composizione qualitativa della
produzione»[pp.19-22]. Il primo scenario ripropone il carattere
fortemente estrattivista del capitalismo digitale, mentre il secondo mostra
ancora una volta l’incapacità della social-democrazia di dichiararsi morta,
seppellirsi e aprire nuovi spazi di conflittualità. È su questo aspetto che,
soprattutto rivolgendoci alla situazione della nostra “provincia periferica
dell’Impero”, dobbiamo batterci. Qui, più che altrove, non si tratta solamente
di aprire una breccia nell’immaginario lavorista ereditato dalla “ragionevole
ideologia” pane-lavoro del PCI e della CGIL, ma soprattutto di aprirne un’altra nella falsa alternativa
dicotomica pubblico-privato. Infatti, ben sottolineano questa doppia sfida i
due autori quando scrivono che l’attivazione sociale e i processi di
partecipazione collettiva ex ante ed ex post il reddito rifiutano «i criteri di
valutazione imposti da istituzioni sottomesse al vangelo dell’austerity per
rivendicare il diritto di decidere autonomamente su come stare assieme e su
cosa produrre affinché tutte e tutti possano godere della libertà dal bisogno»[ivi,p25].
Dunque, il
terzo scenario – che si apre affianco ai primi due e contro di essi – è quello
«conflittuale»: un reddito di base universale e incondizionato, allacciato al
welfare tradizionale. E cioè, la formazione di una «complementarità», nella
quale «il secondo ridistribuisce parte del valore prodotto dalla forza-lavoro
salariata, il primo distribuisce direttamente parte del valore prodotto
dall’operosità sociale diffusa»[cfr.pp.19-22]. In altri termini, si
tratta di agganciare l’investimento nella sfera della riproduzione sociale alla
«moltiplicazione di forme garantite d’accesso al reddito (dagli studenti al
lavoro interinale) fondate su diritti oggettivi e universali», collegando fra loro
«mobilità, formazione della forza lavoro e sicurezza del reddito»[Vercellone,
2010,pp.38-39]. Ma al di là della forma, ciò che dà al reddito di base –
così come lo presentiamo da anni e così come lo hanno esposto Chicchi e
Leonardi – la sua propria pregnanza conflittuale sta in una doppia logica:
deve, al tempo stesso, provenire dal conflitto e produrre convergenze fra le
lotte. Si è, infatti, mostrato negli anni come vero e proprio dispositivo di
convergenza delle lotte in termini di potenzialità di intersezioni o di loro
espressioni in eventi. Dobbiamo al Piano[drive.google.com] di Non Una Di Meno la piena espressione del
suo uso per far convergere le lotte: dall’antirazzismo all’antisessismo, fino
alle lotte contro la precarietà e alle diverse espressioni
dell’anticapitalismo.
«La
confusione sotto il cielo è tanta, la situazione è ottima»: non mi sento di
dire che sia proprio attuale e appropriata alla nostra situazione questa frase
di Mao, ma è pur vero che ci troviamo in una faglia. E faglia non significa
solo un ventaglio di possibilità, ma è il non-determinato
e qui dentro vanno incise le proprie direzioni,
le proprie rotte verso le quali tendere le vele per salpare l’ancora. Il
reddito non è la panacea dei nostri tempi, ma è comunque uno dei dispositivi di
lotta più importanti che oggi ci ritroviamo nella nostra cassetta degli
attrezzi. E a questo proposito, per chiudere e rilanciare un discorso militante
a partire da questo, non possiamo non citare la chiusa del Manifesto di Chicchi
e Leonardi: Oggi l’integrazione sociale e la soddisfazione dei bisogni di base
(pane) non hanno più necessità di passare esclusivamente dal
salario-istituzione, cioè dall’accesso al reddito fornito dal lavoro. Questo
terreno rimane importante, ma deve essere affiancato da uno spazio sociale e
politico inedito, in cui la sperimentazione di forme alternative di operosità
(ozio) permette di moltiplicare i modi in cui i singoli e le collettività fanno
esperienza del benessere (champagne). Si tratta però di una possibilità:
renderla effettuale richiede la ripresa di un conflitto sociale ampio e plurale
(molotov)[p.29] .
Federico Chicchi, Emanuele Leonardi, Manifesto per il reddito di base, Laterza, Bari-Roma 2018
Carlo Vercellone,
Modelli di welfare e servizi sociali nella crisi sistemica del capitalismo
cognitivo in «Common», 2010
Il Piano di “Non Una Di Meno” drive.google.com
Roberto Ciccarelli, Oltre il lavoro, reddito di base come
conflitto, Il Manifesto 11/4/2018