mercoledì 7 marzo 2018

abstract&screening\ SOVRANITÀ E LA TRASFORMAZIONE DELLA FORMA STATO

- luciano ferrari bravo-
LA RIORGANIZZAZIONE COMPLESSIVA DEGLI SPAZI GLOBALI SONO COSTITUTIVAMENTE ANNODATI /la globalizzazione non è un processo che si sviluppa dall’esterno e sulle teste degli stati, ma è strettamente connessa alla loro modificazione. Il concetto di sovranità diventa perciò la chiave decisiva per leggere i processi globali: la sovranità, Giano bifronte, è infatti il punto preciso in cui la faccia interna del processo, la sovranità come principio di organizzazione dello Stato, si mostra indisgiungibile da quella esterna, la sovranità come principio regolatore dei rapporti internazionali


[…] «Tagliare la testa al re» può ben essere assunto come il motto, e insieme l'ossessione, da cui liberarsi, della parte centrale della produzione foucaultiana, secondo una strategia di ricerca che, com'è noto, procede obliquamente, trasversalmente, mirando a ricostruire i modi di funzionamento delle reti di potere-sapere costituite da un incessante movimento di tattiche e strategie, di resistenze e codificazioni, di poste in gioco mai assegnate una volta per tutte. Alcuni tratti comuni consentono di raggruppare l'insieme di tali reti secondo grandi scansioni storiche chiamate da Foucault «regimi». Egli propone di riservare il termine di «regime di sovranità» a quello proprio dell'age classique. Nel passaggio tra diciottesimo e diciannovesimo secolo esso viene gradualmente sostituito da un regime generale di tipo «disciplinare». Si può forse tentare di sintetizzare il senso di questo passaggio (sulla scorta di una esplicita indicazione foucaultiana), ricorrendo alla rotazione del motto che presiede a ciascuno: da «far morire e lasciar vivere» al suo opposto. La vita è in qualche modo la posta in palio di entrambi, ma nel primo, nella forma della esemplarità della minaccia di messa a morte (incarnata dalla macchina barocca del supplizio pubblico), lasciando ai sudditi la cura della propria vita, come nella celebre battuta di Federico di Prussia che li accomuna ai daini delle proprie tenute. Di contro, nel regime disciplinare, la «governamentalità» che balza al centro della scena è precisamente orientata alla regolazione – in certo senso alla stessa produzione – della vita delle popolazioni e perciò, prima ancora, alla pluralità di saperi che le riguardano (in un ulteriore senso del termine disciplina, di cui il dispositivo «panottico» è solo un ideale mai realmente raggiungibile). La rete disciplinare disegna insomma una sorta di topografia sociale, una partizione dello spazio sociale in ambiti definiti entro i quali soltanto può aver luogo un dressage specifico, e perciò effettuale. Esercito, workhouse, scuola, prigione, famiglia, fabbrica: una pluralità di spazi, ciascuno con proprie regole di accesso e di condotta, entro i quali si dipana un incessante corpo a corpo, una guerriglia m di tipo fordista. La sua erosione appare senza scampo, dopo decenni di opposizione sorda o patente, nella modalità della lotta aperta o della secessione e dell'esodo (sia operaio che capitalistico). Ma l'indebolimento del muro portante fa traballare l'intero edificio. Crepe si aprono ovunque. Le vecchie distinzioni, o almeno il loro assetto tradizionale, non tengono più - tra economico e politico, politico e sociale, pubblico e privato. Tra lavoro e vita. L'esplosione comunicativa di una società dello spettacolo alla seconda potenza, che è insieme causa ed effetto di tale nuova situazione, le attraversa tutte destituendole di senso, con conseguenze particolarmente evidenti sulla conformazione della sfera pubblica tradizionale e sulle logiche di funzionamento del subsistema politico, Vi sono due modi polarmente opposti di affrontare la lettura di questo nuovo scenario. Per il primo, che finisce per accomunare il «pensiero unico» liberale e le posizioni schierate a difesa del grande compromesso sociale postbellico, quel che accade è il tentativo di un gigantesco ritorno all'indietro in direzione di una società dominata puramente e semplicemente dal mercato (visto da opposte sponde come promessa di sviluppo illimitato o come premessa di immancabile catastrofe). Se si prende sul serio la traccia foucaultiana, come ha cominciato a fare una promettente discussione internazionale (Deleuze), occorre guardare in un'altra direzione. La perdita di tenuta della topografia sociale disciplinare – ma soprattutto la crescente sovrapposizione di lavoro e vita che è sempre di più al centro dei nuovi paradigmi produttivi, come messa al lavoro di capacità comunicative, cognitive e affettive distribuite su tutta la superficie sociale – non è regolabile in forma puramente mercantile più di quanto lo sia mai stata storicamente, lo è anzi assai di meno. Dove non giunge la capacità di tenuta dei vecchi quadri disciplinari (che si continua naturalmente a tenere in vita fin dove è possibile), deve intervenire un mutamento di forma, e di livello, della regolazione sociale che chiameremo «regime di controllo» per seguire la convenzione formatasi nel dibattito di cui s'è fatto cenno. Un regime di controllo sarà perciò tale per cui si assume senz'altro l'impraticabilità, e insieme e soprattutto, la improduttività delle divisioni correnti lungo le vecchie «cerchie» sociali; in cui si assume la società come irreversibilmente permeabile al circolare di ogni genere di flussi; in cui, di contro, debbono essere congegnati meccanismi di monitoraggio e intervento volti ad impedire strappi troppo bruschi del legame sociale, in una perenne emergenza di aggiustamenti al limite e di misure puntuali. Ma in che sedi, e collocata a quale livello, può darsi tale ipotizzata transizione di regime? E su questo punto che si incrocia il problema della sovranità statale «esterna», nella forma di un'alternativa tra sovranità e globalizzazione divenuta ormai un Leitmotiv della discussione internazionale. L'insieme di processi raccolti sotto quest'ultimo concetto non designa infatti qualcosa che «accade» indipendentemente dalle linee di mutamento cui s'è fatto cenno, aggiungendovisi semmai a complicare un quadro già di per sé complesso. Al contrario, la globalizzazione è la forma – l'unica forma possibile - in cui un regime produttivo e di «controllo» postfordista possa venire in esistenza. Superare il regime di accumulazione fordista equivale ad andar oltre l'insieme di meccanismi neocorporativi o pluralisti e di logiche di regolazione macro che si sono fusi nei decenni centrali del secolo in una specifica forma statale «keinesiana», ma la dimensione dei flussi, materiali e immateriali, su cui il nuovo regime dev'essere costruito è fin dall'inizio a scala globale: è la gestione della crisi internazionale degli anni Settanta che lo tiene a battesimo. Ma andiamo con ordine. Le ambiguità e, insieme, la sovradeterminazione insite nel concetto di sovranità sono presenti anche nella sua faccia esterna, ma, come s'è detto, secondo modulazioni differenti. Tre punti meritano di essere sottolineati. In primo luogo, se lo stato territoriale sovrano diviene, a partire da Westfalia, l'unità-base dei sistemi, o per usare l'efficace immagine di G. Ruggie, il suo philum cioè il suo «piano di organizzazione», ciò comporta che il sistema stesso si costituisce fin dall'origine sulla base di un’inaggirabile tensione tra l'eurocentrismo del suo codice genetico e l'universalismo della sua pretesa di validità. L'affermazione universale della forma stato è di fatto il frutto tardivo, successivo alla seconda guerra mondiale, dei lunghi cicli storici dell'espansione coloniale e imperialista e delle resistenze che essi stessi suscitano. Ma la tensione non è mai venuta meno, si è anzi accentuata: nella sua diffusione generale il senso del concetto di stato sovrano s'è venuto talmente stirando da rischiare l'evaporazione. A giusto titolo s'è parlato dei nuovi stati dell'ex Terzo mondo come di quasi-stati, rispetto ai quali nulla più rimane della sostanza storica del concetto (riaprendo Archivio Luciano Ferrari Bravo – www.archiviolfb.eu – info@archiviolfb.eu così una divaricazione tra stato e sovranità che si voleva concettualmente esclusa), In secondo luogo, se il principio della eguale sovranità – mediato da una serie circolare di reciproci «riconoscimenti» di cui risulti indecidibile il carattere dichiarativo o costitutivo – si afferma come principio organizzatore del sistema, ecco che quest'ultimo è destinato a rimanere sottodeterminato, insaturo. Si tratta qui della sua natura «anarchica», della costitutiva assenza di un Terzo. Ora, l'anarchia può ben dar luogo ad una qualche forma di ordine (quest'ultimo sorgendo in via continuativa dal disordine) ma si tratterà inevitabilmente di assetti condannati ad oscillare di continuo, come la storia del sistema dimostra, tra fasi di stabilità egemonica e/o di «concerto» e fasi di esplosione affidate alla misura esplicita dei rapporti di forza (col periodico riaffiorare di progetti «imperiali»). Il secolo che ora volge al termine ha portato all'estremo entrambe le tendenze: la seconda col parossismo «sovrano» delle guerre mondiali, la prima con la lunga ricerca di una stabilizzazione del sistema sfociata infine nella costruzione dell'Onu, Pensare un ordine internazionale purgato del principio di sovranità (come nel grande disegno teorico kelseniano) s'è rivelata una lirica di tendenza assai meno utopica di quanto molte irrisioni «realiste» pretendessero ma non poteva storicamente dar luogo che a quella soluzione di compromesso tra principii contraddittori su cui la Carta è costruita. Un compromesso che, con la fine dell'equilibrio postbellico, si mostra sempre meno stabile, riaprendo il problema della sua natura storicamente «transitoria». In terzo luogo, e soprattutto, se la sovranità interna è preda, come s'è visto, di una costitutiva ambiguità tra piano della pretesa e piano della effettività, altrettanto accade a quella esterna, prendendo su questo versante la forma di un circolo iscritto nella sua stessa genesi. Se la sovranità implica il possesso di risorse e di capabilities tali da renderla effettiva e dotata di finalità sostanziali (secondo un modello idealtipico di Stato «chiuso»), queste stesse risorse dipendono fin dall'origine dall'inserimento di tutti gli Stati in una divisione del lavoro dettata dai ritmi di sviluppo del mercato mondiale. L'indipendenza si rovescia in dipendenza e quest'ultima nella prima in una circolarità costitutiva del sistema interstatale. Si tratta di un nesso che non entra se non come variabile interveniente nei paradigmi geopolitici delle teorie dominanti; ma che costituisce il punto, e il problema, cruciali della tradizione marxista. A giusto titolo, ad esempio, I. Wallerstein ha fatto della cogenesi di Stato e mercato mondiale l'asse portante della sua teoria dell'economia-mondo. E lecito tuttavia chiedersi se il modello di Wallerstein (ed altri consimili con i quali non è possibile entrare qui in una discussione ravvicinata), ammessa per amor di semplicità la sua tenuta per il passato, sia in grado di dar conto delle trasformazioni intervenute negli ultimi decenni. Se si sono richiamate le linee di tensione e di frattura costitutive del sistema internazionale di stati – tra statualità e sovranità, tra sovranità formale e sostanziale, tra dipendenza e indipendenza – lo si è fatto per preparare il terreno alla domanda principale attorno a cui ruota oggi il problema della sovranità, quella del senso della globalizzazione Al di là, infatti, della varietà dei fenomeni raccolti sotto questo termine inflazionato e della effettiva novità che ciascuno di essi rappresenta, non si può evitare ulteriormente l'ipotesi di un paradigmatic shift, cioè di un mutamento del quadro metateorico degli assiomi e delle condizioni di pensabilità dei fenomeni medesimi che la globalizzazione mette in gioco. L'intreccio di processi di territorializzazione e riterritorializzazione in corso ricorda irresistibilmente nella sua imponenza la macrooscillazione che, alcuni secoli orsono, iniziò a dar vita, contestualmente, alla forma-stato e al sistema interstatale moderni. I primi hanno richiamato più vivacemente l'attenzione: gli effetti di «relativizzazione» e di «astrazione» (dalle differenze territoriali) posti in essere dai grandi flussi informativi, commerciali, finanziari ecc. configurano a prima vista la crescita esponenziale di uno spazio «extraterritoriale»: qual è infatti il luogo (statalmente definito) di internet, della lex mercatoria, delle reti finanziarie e produttive multinazionali e via dicendo? È chiaro in realtà che questi stessi processi costruiscono contemporaneamente una propria, specifica, territorializzazione nell'ambito della quale rimane naturalmente rilevante il ruolo spaziale dello Stato, ma come una soltanto tra le molte mappature di una geometria complessa, multistratificata e variabile, che comprende il peso crescente di figure come quelle delle «città globali» (Sassen), dei «regimi» multilaterali di governance, delle reti «regionali» ultra o subnazionali, ma che è giunta ormai a lambire il nucleo duro della pretesa esclusiva della territorialità sovrana costituita dal monopolio della forza militare. Non deve affatto sorprendere – corrisponde anzi ad un tipico scenario «kuhniano» - il fatto che il vecchio paradigma della sovranità statale venga difeso e il più possibile conservato anche in una situazione siffatta. Il suo ufficio principale, che è quello di costituire il punto di connessione e complementarità di due opposti registri del Politico – quello della sovranità interna ed esterna – può però essere mantenuto, come s'è detto, soltanto al prezzo di continui stiramenti concettuali e del moltiplicarsi di eccezioni e spiegazioni ad hoc. Si prenda ad esempio il caso appena citato dei cd. regimi internazionali. Nulla vieta naturalmente di ricondurre la loro esistenza, in ultima analisi, alla volontà degli Stati che li pongono in essere: anzi, è proprio in questi termini che la figura è stata dapprima prospettata da filoni di ricerca di tipo multilateralistico (e liberale). C'è però da chiedersi quanto questa prospettiva possa, oggi, dar conto non tanto delle specifiche configurazioni dei singoli regimi (che pure sviluppano nel tempo una loro embeddedness – difficilmente reversibile) quanto della necessità in generale di forme permanenti di governance transtatali. Ancora. È un tratto ben noto dei paradigmi tradizionali della relazioni internazionali, di impianto giuridico o politologico, l'esistenza di enti-soggetti del sistema diversi dallo Stato; ma l'ampiezza e il peso della fenomenologia apparsa negli ultimi decenni rende sempre più difficile trattenerla entro una dimensione di atipicità marginale. Si pensi al ruolo internazionale di soggetti formalmente privati come le agenzie di rating, ma in generale delle grandi multinazionali, e d'altro canto, ai problemi connessi al riconoscimento universale dei «diritti umani» e allo spazio crescente del cd. diritto di intervento umanitario. Su questa strada si giunge, certo, a risultati essenzialmente negativi, resi più stringenti da un energico lavoro critico «decostruttivo» fattosi largo di recente nell'ambito degli studi internazionalistici (Ashley, Walker ecc.). E non è certo agevole volgere la critica in positivo. Se si pensa fino in fondo il carattere «parergonale» (Bartelson) della sovranità, la circostanza cioè per cui, distinguendo a mo’ di cornice un «dentro» e un «fuori», essa si pone come condizione di pensabilità di entrambi, è facile capire come la sua eclisse lasci un terreno privo di fondamentali linee di orientamento. Né si tratta di problema semplicemente «teorico». Il candidato più diretto di tale crisi di destabilizzazione è costituito dall'insieme delle forme a noi note di democrazia, e del suo stesso concetto. Il macroscopico deficit di accountability democratica che affligge la maggior parte (che è insieme maior pars) delle istituzioni di governance transazionale è soltanto un aspetto del problema, anche se quello più sottolineato nella consueta autorestrizione liberale ai suoi aspetti procedurali. Pensare di risolverlo immaginando di aggiungere forme e livelli nuovi di rappresentanza equivarrebbe a ricadere entro l'ambito concettuale della sovranità di cui, da Hobbes in avanti, la rappresentanza politica costituisce il necessario interfaccia. Ma la questione è cruciale, a fortiori, per gli orientamenti propriamente democratici: tutti, o quasi, stanno o cadono insieme al presupposto che li sostiene – che il demos del cui potere si discute altro non possa essere nelle condizioni moderne che il popolo di uno Stato. Il nodo della sovranità popolare è storicamente giunto al pettine. L'orizzonte «internazionalistico» che la componente più radicale e coerente del movimento democratico moderno, cioè il movimento operaio, ha prospettato dall'inizio della sua storia si rivela oggi piuttosto una riproposizione del problema che la promessa di una sua soluzione, anche a prescindere da giudizi fin troppo facili col senno di poi sulle sue realizzazioni concrete. Più di ogni altra la tradizione democratica dovrebbe essere interessata ad un ripensamento radicale del proprio arsenale concettuale. Radicale perché un gene statualista ha sempre fatto parte del suo codice dominante; ma anche, e soprattutto, perché nemmeno il ricorso ad un suo uso analogico appare consentito. La totalità del potere globale può forse essere pensata come una nuova forma – un nuovo «tipo» – di sovranità (secondo un'intima connessione tra totalità e sovranità su cui si è insistito), ma non certamente secondo le linee di quell'«analogia domestica» che ha spesso accompagnato i tentativi di comprenderne o prefigurarne la natura. Non è alla nascita di un macrostato mondiale che stiamo assistendo: inutile perciò cercarne apparati, ministeri o capitale. Sicura appare al contrario la permanenza della forma stato, ma come ambito e soggetto tra gli altri di governo globale; si apre qui semmai un ampio terreno di analisi del mutamento di funzioni e capabilities su cui non è possibile pronunciarsi in astratto e in generale. Ciò che rimane cruciale è l'inabissarsi di una distinzione «paradigmatica» tra un dentro e un fuori dello spazio sovrano, e dunque la caduta della pensabilità stessa di alternative «esterne», o, se si preferisce, l'internalizzarsi del rapporto tra inclusione e esclusione. Ma è giusto che questa iniziale perlustrazione si arresti a questo punto. Individuare, o costruire, unità di misura e criteri di orientamento per le nuove mappe rimane un compito maggiore di quest'epoca. Candidati più o meno promettenti hanno già preso del resto a circolare. Si potrà puntare sull'affermarsi di logiche di tipo sistemico, ma di un singolare sistema di controllo «liminare, intermittente, puntuale» (Sassen). Si potrà accentuare il ruolo di configurazioni di tipo «matriciale» o reticolare (confermando per questa via il nesso con la forma della cooperazione postfordista). Si dovrà saggiare la proposta estremamente suggestiva di un recupero «postmoderno» della forma-impero come chiave di lettura adeguata della nuova figura della sovranità globale (Hardt, Negri). A discriminare tra le varie ipotesi rimane pur sempre il criterio della loro adeguatezza a fornire di senso la prospettiva di liberazione dall'oppressione e dallo sfruttamento. Questa, oggi come ieri, rimane la buona domanda.

SOVRANITÀ, ORIGINARIAMENTE IN POSSE, 2000, 1, pp. 148-167
RIPUBBLICATA IN "DAL FORDISMO ALLA GLOBALIZZAZIONE. CRISTALLI DI TEMPO POLITICO", MANIFESTOLIBRI, ROMA, 2001