LA RIORGANIZZAZIONE
COMPLESSIVA DEGLI SPAZI GLOBALI SONO COSTITUTIVAMENTE ANNODATI /la globalizzazione non è un processo
che si sviluppa dall’esterno e sulle teste degli stati, ma è strettamente
connessa alla loro modificazione. Il concetto di sovranità diventa perciò la
chiave decisiva per leggere i processi globali: la sovranità, Giano bifronte, è
infatti il punto preciso in cui la faccia interna del processo, la sovranità
come principio di organizzazione dello Stato, si mostra indisgiungibile da
quella esterna, la sovranità come principio regolatore dei rapporti
internazionali
[…]
«Tagliare la testa al re» può ben essere assunto come il motto, e insieme
l'ossessione, da cui liberarsi, della parte centrale della produzione
foucaultiana, secondo una strategia di ricerca che, com'è noto, procede
obliquamente, trasversalmente, mirando a ricostruire i modi di funzionamento
delle reti di potere-sapere costituite da un incessante movimento di tattiche e
strategie, di resistenze e codificazioni, di poste in gioco mai assegnate una
volta per tutte. Alcuni tratti comuni consentono di raggruppare l'insieme di
tali reti secondo grandi scansioni storiche chiamate da Foucault «regimi». Egli
propone di riservare il termine di «regime di sovranità» a quello proprio dell'age classique. Nel passaggio tra
diciottesimo e diciannovesimo secolo esso viene gradualmente sostituito da un
regime generale di tipo «disciplinare». Si può forse tentare di sintetizzare il
senso di questo passaggio (sulla scorta di una esplicita indicazione
foucaultiana), ricorrendo alla rotazione del motto che presiede a ciascuno: da
«far morire e lasciar vivere» al suo opposto. La vita è in qualche modo la
posta in palio di entrambi, ma nel primo, nella forma della esemplarità della
minaccia di messa a morte (incarnata dalla macchina barocca del supplizio
pubblico), lasciando ai sudditi la cura della propria vita, come nella celebre
battuta di Federico di Prussia che li accomuna ai daini delle proprie tenute.
Di contro, nel regime disciplinare, la «governamentalità» che balza al centro
della scena è precisamente orientata alla regolazione – in certo senso alla
stessa produzione – della vita delle popolazioni e perciò, prima ancora, alla
pluralità di saperi che le riguardano (in un ulteriore senso del termine
disciplina, di cui il dispositivo «panottico» è solo un ideale mai realmente raggiungibile).
La rete disciplinare disegna insomma una sorta di topografia sociale, una
partizione dello spazio sociale in ambiti definiti entro i quali soltanto può
aver luogo un dressage specifico, e perciò effettuale. Esercito, workhouse, scuola, prigione, famiglia,
fabbrica: una pluralità di spazi, ciascuno con proprie regole di accesso e di
condotta, entro i quali si dipana un incessante corpo a corpo, una guerriglia m
di tipo fordista. La sua erosione appare senza scampo, dopo decenni di
opposizione sorda o patente, nella modalità della lotta aperta o della
secessione e dell'esodo (sia operaio che capitalistico). Ma l'indebolimento del
muro portante fa traballare l'intero edificio. Crepe si aprono ovunque. Le
vecchie distinzioni, o almeno il loro assetto tradizionale, non tengono più -
tra economico e politico, politico e sociale, pubblico e privato. Tra lavoro e
vita. L'esplosione comunicativa di una società dello spettacolo alla seconda
potenza, che è insieme causa ed effetto di tale nuova situazione, le attraversa
tutte destituendole di senso, con conseguenze particolarmente evidenti sulla
conformazione della sfera pubblica tradizionale e sulle logiche di
funzionamento del subsistema politico, Vi sono due modi polarmente opposti di
affrontare la lettura di questo nuovo scenario. Per il primo, che finisce per
accomunare il «pensiero unico» liberale e le posizioni schierate a difesa del
grande compromesso sociale postbellico, quel che accade è il tentativo di un
gigantesco ritorno all'indietro in direzione di una società dominata puramente
e semplicemente dal mercato (visto da opposte sponde come promessa di sviluppo
illimitato o come premessa di immancabile catastrofe). Se si prende sul serio
la traccia foucaultiana, come ha cominciato a fare una promettente discussione
internazionale (Deleuze), occorre guardare in un'altra direzione. La perdita di
tenuta della topografia sociale disciplinare – ma soprattutto la crescente
sovrapposizione di lavoro e vita che è sempre di più al centro dei nuovi
paradigmi produttivi, come messa al lavoro di capacità comunicative, cognitive
e affettive distribuite su tutta la superficie sociale – non è regolabile in
forma puramente mercantile più di quanto lo sia mai stata storicamente, lo è
anzi assai di meno. Dove non giunge la capacità di tenuta dei vecchi quadri
disciplinari (che si continua naturalmente a tenere in vita fin dove è
possibile), deve intervenire un mutamento di forma, e di livello, della
regolazione sociale che chiameremo «regime di controllo» per seguire la
convenzione formatasi nel dibattito di cui s'è fatto cenno. Un regime di
controllo sarà perciò tale per cui si assume senz'altro l'impraticabilità, e
insieme e soprattutto, la improduttività delle divisioni correnti lungo le
vecchie «cerchie» sociali; in cui si assume la società come irreversibilmente
permeabile al circolare di ogni genere di flussi; in cui, di contro, debbono
essere congegnati meccanismi di monitoraggio e intervento volti ad impedire
strappi troppo bruschi del legame sociale, in una perenne emergenza di
aggiustamenti al limite e di misure puntuali. Ma in che sedi, e collocata a
quale livello, può darsi tale ipotizzata transizione di regime? E su questo
punto che si incrocia il problema della sovranità statale «esterna», nella
forma di un'alternativa tra sovranità e globalizzazione divenuta ormai un
Leitmotiv della discussione internazionale. L'insieme di processi raccolti
sotto quest'ultimo concetto non designa infatti qualcosa che «accade»
indipendentemente dalle linee di mutamento cui s'è fatto cenno, aggiungendovisi
semmai a complicare un quadro già di per sé complesso. Al contrario, la
globalizzazione è la forma – l'unica forma possibile - in cui un regime
produttivo e di «controllo» postfordista possa venire in esistenza. Superare il
regime di accumulazione fordista equivale ad andar oltre l'insieme di
meccanismi neocorporativi o pluralisti e di logiche di regolazione macro che si
sono fusi nei decenni centrali del secolo in una specifica forma statale
«keinesiana», ma la dimensione dei flussi, materiali e immateriali, su cui il
nuovo regime dev'essere costruito è fin dall'inizio a scala globale: è la
gestione della crisi internazionale degli anni Settanta che lo tiene a
battesimo. Ma andiamo con ordine. Le ambiguità e, insieme, la sovradeterminazione
insite nel concetto di sovranità sono presenti anche nella sua faccia esterna,
ma, come s'è detto, secondo modulazioni differenti. Tre punti meritano di
essere sottolineati. In primo luogo, se lo stato territoriale sovrano diviene,
a partire da Westfalia, l'unità-base dei sistemi, o per usare l'efficace
immagine di G. Ruggie, il suo philum
cioè il suo «piano di organizzazione», ciò comporta che il sistema stesso si
costituisce fin dall'origine sulla base di un’inaggirabile tensione tra l'eurocentrismo
del suo codice genetico e l'universalismo della sua pretesa di validità.
L'affermazione universale della forma stato è di fatto il frutto tardivo,
successivo alla seconda guerra mondiale, dei lunghi cicli storici
dell'espansione coloniale e imperialista e delle resistenze che essi stessi
suscitano. Ma la tensione non è mai venuta meno, si è anzi accentuata: nella
sua diffusione generale il senso del concetto di stato sovrano s'è venuto
talmente stirando da rischiare l'evaporazione. A giusto titolo s'è parlato dei
nuovi stati dell'ex Terzo mondo come di quasi-stati, rispetto ai quali nulla
più rimane della sostanza storica del concetto (riaprendo Archivio Luciano
Ferrari Bravo – www.archiviolfb.eu – info@archiviolfb.eu così una divaricazione
tra stato e sovranità che si voleva concettualmente esclusa), In secondo luogo,
se il principio della eguale sovranità – mediato da una serie circolare di
reciproci «riconoscimenti» di cui risulti indecidibile il carattere
dichiarativo o costitutivo – si afferma come principio organizzatore del
sistema, ecco che quest'ultimo è destinato a rimanere sottodeterminato,
insaturo. Si tratta qui della sua natura «anarchica», della costitutiva assenza
di un Terzo. Ora, l'anarchia può ben dar luogo ad una qualche forma di ordine
(quest'ultimo sorgendo in via continuativa dal disordine) ma si tratterà
inevitabilmente di assetti condannati ad oscillare di continuo, come la storia
del sistema dimostra, tra fasi di stabilità egemonica e/o di «concerto» e fasi
di esplosione affidate alla misura esplicita dei rapporti di forza (col
periodico riaffiorare di progetti «imperiali»). Il secolo che ora volge al
termine ha portato all'estremo entrambe le tendenze: la seconda col parossismo
«sovrano» delle guerre mondiali, la prima con la lunga ricerca di una
stabilizzazione del sistema sfociata infine nella costruzione dell'Onu, Pensare
un ordine internazionale purgato del principio di sovranità (come nel grande
disegno teorico kelseniano) s'è rivelata una lirica di tendenza assai meno utopica
di quanto molte irrisioni «realiste» pretendessero ma non poteva storicamente
dar luogo che a quella soluzione di compromesso tra principii contraddittori su
cui la Carta è costruita. Un compromesso che, con la fine dell'equilibrio
postbellico, si mostra sempre meno stabile, riaprendo il problema della sua
natura storicamente «transitoria». In terzo luogo, e soprattutto, se la
sovranità interna è preda, come s'è visto, di una costitutiva ambiguità tra
piano della pretesa e piano della effettività, altrettanto accade a quella
esterna, prendendo su questo versante la forma di un circolo iscritto nella sua
stessa genesi. Se la sovranità implica il possesso di risorse e di capabilities
tali da renderla effettiva e dotata di finalità sostanziali (secondo un modello
idealtipico di Stato «chiuso»), queste stesse risorse dipendono fin
dall'origine dall'inserimento di tutti gli Stati in una divisione del lavoro
dettata dai ritmi di sviluppo del mercato mondiale. L'indipendenza si rovescia
in dipendenza e quest'ultima nella prima in una circolarità costitutiva del
sistema interstatale. Si tratta di un nesso che non entra se non come variabile
interveniente nei paradigmi geopolitici delle teorie dominanti; ma che
costituisce il punto, e il problema, cruciali della tradizione marxista. A
giusto titolo, ad esempio, I. Wallerstein ha fatto della cogenesi di Stato e
mercato mondiale l'asse portante della sua teoria dell'economia-mondo. E lecito
tuttavia chiedersi se il modello di Wallerstein (ed altri consimili con i quali
non è possibile entrare qui in una discussione ravvicinata), ammessa per amor
di semplicità la sua tenuta per il passato, sia in grado di dar conto delle
trasformazioni intervenute negli ultimi decenni. Se si sono richiamate le linee
di tensione e di frattura costitutive del sistema internazionale di stati – tra
statualità e sovranità, tra sovranità formale e sostanziale, tra dipendenza e
indipendenza – lo si è fatto per preparare il terreno alla domanda principale
attorno a cui ruota oggi il problema della sovranità, quella del senso della
globalizzazione Al di là, infatti, della varietà dei fenomeni raccolti sotto
questo termine inflazionato e della effettiva novità che ciascuno di essi
rappresenta, non si può evitare ulteriormente l'ipotesi di un paradigmatic
shift, cioè di un mutamento del quadro metateorico degli assiomi e delle
condizioni di pensabilità dei fenomeni medesimi che la globalizzazione mette in
gioco. L'intreccio di processi di territorializzazione e riterritorializzazione
in corso ricorda irresistibilmente nella sua imponenza la macrooscillazione
che, alcuni secoli orsono, iniziò a dar vita, contestualmente, alla forma-stato
e al sistema interstatale moderni. I primi hanno richiamato più vivacemente
l'attenzione: gli effetti di «relativizzazione» e di «astrazione» (dalle
differenze territoriali) posti in essere dai grandi flussi informativi,
commerciali, finanziari ecc. configurano a prima vista la crescita esponenziale
di uno spazio «extraterritoriale»: qual è infatti il luogo (statalmente
definito) di internet, della lex mercatoria, delle reti finanziarie e
produttive multinazionali e via dicendo? È chiaro in realtà che questi stessi
processi costruiscono contemporaneamente una propria, specifica,
territorializzazione nell'ambito della quale rimane naturalmente rilevante il
ruolo spaziale dello Stato, ma come una soltanto tra le molte mappature di una
geometria complessa, multistratificata e variabile, che comprende il peso
crescente di figure come quelle delle «città globali» (Sassen), dei «regimi»
multilaterali di governance, delle reti «regionali» ultra o subnazionali, ma
che è giunta ormai a lambire il nucleo duro della pretesa esclusiva della
territorialità sovrana costituita dal monopolio della forza militare. Non deve
affatto sorprendere – corrisponde anzi ad un tipico scenario «kuhniano» - il
fatto che il vecchio paradigma della sovranità statale venga difeso e il più
possibile conservato anche in una situazione siffatta. Il suo ufficio
principale, che è quello di costituire il punto di connessione e
complementarità di due opposti registri del Politico – quello della sovranità
interna ed esterna – può però essere mantenuto, come s'è detto, soltanto al
prezzo di continui stiramenti concettuali e del moltiplicarsi di eccezioni e
spiegazioni ad hoc. Si prenda ad esempio il caso appena citato dei cd. regimi
internazionali. Nulla vieta naturalmente di ricondurre la loro esistenza, in
ultima analisi, alla volontà degli Stati che li pongono in essere: anzi, è
proprio in questi termini che la figura è stata dapprima prospettata da filoni
di ricerca di tipo multilateralistico (e liberale). C'è però da chiedersi
quanto questa prospettiva possa, oggi, dar conto non tanto delle specifiche
configurazioni dei singoli regimi (che pure sviluppano nel tempo una loro
embeddedness – difficilmente reversibile) quanto della necessità in generale di
forme permanenti di governance transtatali. Ancora. È un tratto ben noto dei
paradigmi tradizionali della relazioni internazionali, di impianto giuridico o
politologico, l'esistenza di enti-soggetti del sistema diversi dallo Stato; ma
l'ampiezza e il peso della fenomenologia apparsa negli ultimi decenni rende
sempre più difficile trattenerla entro una dimensione di atipicità marginale.
Si pensi al ruolo internazionale di soggetti formalmente privati come le
agenzie di rating, ma in generale delle grandi multinazionali, e d'altro canto,
ai problemi connessi al riconoscimento universale dei «diritti umani» e allo
spazio crescente del cd. diritto di intervento umanitario. Su questa strada si
giunge, certo, a risultati essenzialmente negativi, resi più stringenti da un
energico lavoro critico «decostruttivo» fattosi largo di recente nell'ambito degli
studi internazionalistici (Ashley, Walker ecc.). E non è certo agevole volgere
la critica in positivo. Se si pensa fino in fondo il carattere «parergonale»
(Bartelson) della sovranità, la circostanza cioè per cui, distinguendo a mo’ di
cornice un «dentro» e un «fuori», essa si pone come condizione di pensabilità
di entrambi, è facile capire come la sua eclisse lasci un terreno privo di
fondamentali linee di orientamento. Né si tratta di problema semplicemente
«teorico». Il candidato più diretto di tale crisi di destabilizzazione è
costituito dall'insieme delle forme a noi note di democrazia, e del suo stesso
concetto. Il macroscopico deficit di accountability democratica che affligge la
maggior parte (che è insieme maior pars) delle istituzioni di governance
transazionale è soltanto un aspetto del problema, anche se quello più
sottolineato nella consueta autorestrizione liberale ai suoi aspetti
procedurali. Pensare di risolverlo immaginando di aggiungere forme e livelli
nuovi di rappresentanza equivarrebbe a ricadere entro l'ambito concettuale
della sovranità di cui, da Hobbes in avanti, la rappresentanza politica
costituisce il necessario interfaccia. Ma la questione è cruciale, a fortiori,
per gli orientamenti propriamente democratici: tutti, o quasi, stanno o cadono
insieme al presupposto che li sostiene – che il demos del cui potere si discute
altro non possa essere nelle condizioni moderne che il popolo di uno Stato. Il
nodo della sovranità popolare è storicamente giunto al pettine. L'orizzonte
«internazionalistico» che la componente più radicale e coerente del movimento
democratico moderno, cioè il movimento operaio, ha prospettato dall'inizio
della sua storia si rivela oggi piuttosto una riproposizione del problema che
la promessa di una sua soluzione, anche a prescindere da giudizi fin troppo
facili col senno di poi sulle sue realizzazioni concrete. Più di ogni altra la
tradizione democratica dovrebbe essere interessata ad un ripensamento radicale
del proprio arsenale concettuale. Radicale perché un gene statualista ha sempre
fatto parte del suo codice dominante; ma anche, e soprattutto, perché nemmeno
il ricorso ad un suo uso analogico appare consentito. La totalità del potere
globale può forse essere pensata come una nuova forma – un nuovo «tipo» – di
sovranità (secondo un'intima connessione tra totalità e sovranità su cui si è
insistito), ma non certamente secondo le linee di quell'«analogia domestica»
che ha spesso accompagnato i tentativi di comprenderne o prefigurarne la
natura. Non è alla nascita di un macrostato mondiale che stiamo assistendo:
inutile perciò cercarne apparati, ministeri o capitale. Sicura appare al
contrario la permanenza della forma stato, ma come ambito e soggetto tra gli
altri di governo globale; si apre qui semmai un ampio terreno di analisi del
mutamento di funzioni e capabilities su cui non è possibile pronunciarsi in
astratto e in generale. Ciò che rimane cruciale è l'inabissarsi di una
distinzione «paradigmatica» tra un dentro e un fuori dello spazio sovrano, e
dunque la caduta della pensabilità stessa di alternative «esterne», o, se si
preferisce, l'internalizzarsi del rapporto tra inclusione e esclusione. Ma è
giusto che questa iniziale perlustrazione si arresti a questo punto.
Individuare, o costruire, unità di misura e criteri di orientamento per le
nuove mappe rimane un compito maggiore di quest'epoca. Candidati più o meno
promettenti hanno già preso del resto a circolare. Si potrà puntare sull'affermarsi
di logiche di tipo sistemico, ma di un singolare sistema di controllo
«liminare, intermittente, puntuale» (Sassen). Si potrà accentuare il ruolo di
configurazioni di tipo «matriciale» o reticolare (confermando per questa via il
nesso con la forma della cooperazione postfordista). Si dovrà saggiare la
proposta estremamente suggestiva di un recupero «postmoderno» della
forma-impero come chiave di lettura adeguata della nuova figura della sovranità
globale (Hardt, Negri). A discriminare tra le varie ipotesi rimane pur sempre
il criterio della loro adeguatezza a fornire di senso la prospettiva di
liberazione dall'oppressione e dallo sfruttamento. Questa, oggi come ieri,
rimane la buona domanda.
SOVRANITÀ,
ORIGINARIAMENTE IN POSSE, 2000, 1, pp. 148-167
RIPUBBLICATA IN "DAL
FORDISMO ALLA GLOBALIZZAZIONE. CRISTALLI DI TEMPO POLITICO", MANIFESTOLIBRI,
ROMA, 2001