- luca galantucci -
Il
primo giorno del più grande sciopero mai messo in pratica nelle Università del
Regno Unito si è rapidamente trasformato in quella che senz’ombra di dubbio può
definirsi una giornata storica. Decine di migliaia di ricercatori e professori
in tutta l’isola britannica si sono sottratti dalle proprie mansioni,
organizzando picchetti alle entrate dei dipartimenti, assemblee, presidi e
cortei contro la riforma delle pensioni proposta dai vertici delle Università.
Uno sciopero di 14 giorni che coinvolgerà più di un milione di studenti e che
comporterà la cancellazione di quasi 600.000 ore di lezione. Nonostante gli
evidenti disagi e il profondo impatto sul percorso formativo di studenti che
pagano tasse annuali di 9.250 £, le pratiche di sciopero messe in campo dallo
staff accademico hanno incontrato manifestazioni di solidarietà da parte degli
stessi studenti che secondo i sondaggi odierni appoggiano in massa lo sciopero
(oltre il 65% si è dichiarato favorevole e solidale con il personale accademico
in sciopero) e ne condividono le motivazioni, arrivando addirittura ad occupare
la sede di Universities UK, l’equivalente della CRUI italiana e
controparte del sindacato in questa vertenza sulle pensioni.
Questa solidarietà da
parte del corpo studentesco non era affatto scontata e riveste una grande
rilevanza dato il processo di trasformazione neoliberale delle Università
anglosassoni iniziato dal New
Labour di Blair e portato ormai a quasi compimento dagli ultimi
governi Tories.
È
importante sottolineare che questo sciopero del personale universitario si
inserisce nell’onda lunga del dibattito sulla Higher Education iniziato
nel corso della scorsa campagna elettorale durante la quale il leader del Labour Corbyn
annunciò la cancellazione delle tasse universitarie qualora avesse vinto.
Soltanto pochi giorni fa la premier May di fronte all’avvicinarsi dello
sciopero, ma visti soprattutto i livelli folli di indebitamento degli studenti
alla fine dei cicli di studio (l’indebitamento medio pro capite è di oltre 50.000
£, l’ammontare totale del debito studentesco è pari a oltre 90 miliardi di
sterline) ha infatti dichiarato che avvierà uno studio con lo scopo di
riformare il sistema col fine di «soddisfare i bisogni di tutti i ragazzi
britannici in termini di istruzione» (su quale sia l’idea diffusa e condivisa
di istruzione superiore nel Regno Unito torneremo più avanti). In realtà, le
ricette sul piatto (in primis, la differenziazione delle tasse
universitarie in base ai corsi di studio che rischia di aggravare ulteriormente
il carattere classista dell’istruzione superiore) non sono minimamente
all’altezza delle criticità del sistema, che, oltre all’indebitamento
studentesco, riguardano: il profondo squilibrio della qualità della didattica e
della ricerca fra le università britanniche; l’elevato tasso di precarizzazione
del lavoro vivo all’interno dei dipartimenti con una proporzione sempre
maggiore di personale non solo con contratti precari, ma pagato all’ora, con
conseguenti livelli retributivi prossimi alla soglia di povertà.
Inoltre, ad essere
messa a critica duramente nelle assemblee organizzate ieri al posto delle
lezioni è l’ossessione “meritocratica” (leggi: di controllo e di sanzione)
imposta con l’introduzione di misure bibliometriche per la valutazione della ricerca
volte da una parte a stravolgere la libertà e l’autonomia della ricerca, e
quindi la natura stessa dell’istruzione universitaria, e dall’altra a orientare
la ricerca nella direzione, immediatamente monetizzabile, individuata dagli
attori economici nazionali.
Contemporaneamente
le Università nella terra di sua maestà, dalla prospettiva dei mercati
finanziari e immobiliari, dell’industria del divertimento, degli interessi
delle lobbies cittadine e delle grandi corporations,
costituiscono una vera e propria gallina dalle uova d’oro. Il meccanismo
dell’indebitamento studentesco garantisce infatti un’iniezione costante e
sempre crescente di liquidità nei fondi speculativi delle istituzioni
finanziarie, sotto pressione per l’impatto incerto delle negoziazioni sulla
Brexit ascrivibile principalmente alle tensioni interne al governo May, alle
prese con le divisioni fra hard e soft
brexiters. In secondo luogo, la trasformazione del percorso
universitario in quella che può definirsi un’allettante (e altrettanto
costosa!) esperienza di vita, di fatto un soggiorno in un villaggio
vacanze inserito in un contesto urbano lontano da casa (dotato di residenze di
lusso per studenti-clienti indebitati, attrezzato con infrastrutture sportive e
ludiche di ultima generazione dove è possibile soddisfare quasi qualunque
desiderio, dagli sport estremi ai viaggi in località esotiche) costituisce una
fonte di profitto enorme svolgendo il ruolo di quella che viene spacciata come
un’incredibile opportunità di rigenerazione dei centri urbani. In
realtà, altro non è che la messa in pratica di politiche di gentrificazione dei
centri storici, con la costruzione di migliaia di posti di letto per un numero
sempre crescente di studenti ai quali affiancare pub, locali e
palestre. Con la conseguente espulsione dal centro cittadino degli abitanti
storici. Un processo molto simile alle dinamiche prodotte dal turismo rapace
che sta investendo città come Barcellona, Venezia e Roma. Cambia l’attore
economico, ma le ripercussioni sociali sono identiche, anche per quanto
riguarda il lavoro sottopagato offerto alla cittadinanza locale, anche qui
sbandierato ai quattro venti come una grande opportunità di crescita.
In
questo contesto di forte scontro fra interessi economici e politici
profondamente contrapposti che si sta giocando sul terreno dell’istruzione
superiore (ieri Corbyn e il ministro ombra dell’Economia hanno inviato messaggi
di solidarietà al personale in sciopero, partecipando anche ad alcune
assemblee, mentre il Ministro Tory dell’Università ha pregato le parti di
sedersi di nuovo al tavolo, preoccupato per le ripercussioni politiche sul già
traballante governo May) e in uno scenario caratterizzato da una profonda
incertezza politica dovuta non solo alla Brexit ma anche alla
mancanza di una maggioranza per i Conservatori nella House of Commons,
lo sciopero indetto dalla University and College Union (UCU) può aprire fronti
ampi di mobilitazione e di ricomposizione del corpo sociale accademico su
rivendicazioni inerenti non solo lo schema pensionistico ma che guardano ben
oltre.
Quello che infatti è
stato definito “il più grande sciopero da quando è stata introdotta la nuova
legislazione sul diritto di sciopero” potrebbe potenzialmente essere in grado
di mettere in discussione (e in crisi!) l’intera trasformazione neoliberale
dell’istruzione superiore.
Proprio
nel ventre della bestia, dove questa trasformazione ha raggiunto il livello più
avanzato, mettendo a nudo le contraddizioni e le conseguenze prodotte nel far
diventare il diritto all’istruzione un diritto all’indebitamento. Uno sciopero
le cui dinamiche, forze in gioco e criticità vanno quindi osservate e
analizzate con attenzione per riuscire, forse, a trarre degli elementi di
strategia utili per ricominciare a immaginare percorsi di mobilitazione ampi
anche nelle nostre università, che siano all’altezza delle sfide delle in
gioco. Manifestazioni di conflitto che certamente dovranno essere in grado di andare
ben oltre gli sciopericchi corporativi dei professori, adesso riprogrammati per
l’estate, di nuovo senza nessun coinvolgimento dei precari e degli studenti per
quanto riguarda rivendicazioni e pratiche.