TRE GIORNI DI DISCUSSIONE E INCONTRI SU CORPI,
DECORO E REPRESSIONE
- bologna 23-25 feb. 18
- bologna 23-25 feb. 18
/confronto sulla città come spazio urbano attraversato da conflitti e
dispositivi di governo /provvedimenti quest'ultimi da cui emerge la volontà di trasformare lo spazio urbano in un grande supermarket conformato alle esigenze di turisti facoltosi e a quelle di commercianti “green” e della cosiddetta classe creativa" /difendere il decoro dello
spazio pubblico significa contrastare la socialità spontanea, chiudere attività
“low budget” e aprirne nuove più carine, “sostenibili” e soprattutto selettive
lungo linee di classe e razza
Lo
spazio può assumere due modalità: liscio e striato. Lo spazio pubblico in
particolare è attraversato da corpi e merci. Uno spazio striato è fatto di
divisioni, strade, marciapiedi, cancelli, tornelli, proprietà privata. Lo
spazio urbano è sicuramente uno spazio striato. Lo spazio liscio gli è
contrapposto e non ha divisioni nette, confini fisici o immateriali. Eppure è
possibile ritrovare spazi lisci anche nello spazio urbano, spazi liberati o
spazi non ancora messi a valore.
Probabilmente
la massima espressione dello spazio liscio è il mare, non a caso si è sempre
cercato di striarlo, di tracciargli confini, dagli imperi del mondo antico
all’istituzione dell’agenzia Frontex. Il progetto di spazio pubblico delineato
dalla governance neoliberale pare chiaro: uno spazio liscio, quindi libertà di
movimento, per le merci e il denaro; uno spazio striato, quindi confini e
barriere di inclusione differenziata, per i corpi e le vite di tutti/e.
Ci
hanno a lungo insegnato che quando c’erano dei nemici, c’erano dei muri a
proteggerci: le zone di guerra per quelli lontani, le frontiere per quelli
esterni, le carceri per quelli interni. Ognuno di questi nemici era facile da
riconoscere. Oggi che la guerra penetra fino al bar mentre sorseggiamo succo
d’arancia davanti al giornale, il sospetto corre tra gli scaffali del
supermercato, i nemici sono ovunque. La divisione tra un “dentro” fatto di
integrazione/assorbimento e decoro, e un “fuori” dove allontanare irregolari e
indecorosi, crediamo sia il tratto comune delle amministrazioni di Pd, M5S e
delle altre destre. In questo gioco non solo lo spazio
urbano si leviga sempre di più per perfezionare il fluire di merci, consumo e
profitto, ma anche noi dovremmo filare dritti come biglie, su percorsi posticci
fatti di uso e consumo, garantiti da ordinanze e polizia.
Quello che è consono è uno stile di vita prevedibile come l’arredamento Ikea, i
pensieri ripuliti da una retata preventiva, i desideri già perquisiti da noi
stessi. Le ordinanze contro il consumo di alcolici e contro gli assembramenti
spontanei della cosiddetta “movida”; la caccia ai venditori ambulanti sulle
spiagge e nelle città (quelle “legali” condotte dai Vigili Urbani e quelle
“illegali” e convergenti promosse dai neofascisti); il daspo urbano previsto
dai nuovi decreti configurabile per reati quali accattonaggio, prostituzione,
spaccio e imbrattamento, l’attacco generale e generalizzato alla povertà e alle
forme di vita non conformi. Se il progetto è creare città con centri-vetrina il
prezzo è far nascere nuovi spazi-ghetto, fatti di abbandono e violenza. Tutto
ciò che vi si oppone in forma organizzata, come le forme di vita militanti, le
occupazioni abitative, gli spazi sociali devono essere chiusi o essere relegati
in zone che non sono di interesse strategico; così come ciò che si oppone a
questa visione per la sua semplice esistenza: l’immagine di un@ trans, un@
migrante, un@ ultras, un@ tossic@, un bevitore fuori orario e “fuori dehors”
non può riflettere nella città-vetrina, deve essere allontanato, costituisce
degrado. Il proibizionismo e il regime della paura (la sola vera causa di
piazza San Carlo, non certo i vetri a terra o gli ultras); l’implacabilità con
cui si procede agli sgomberi delle occupazioni abitative e sociali; i fogli di
via e gli altri provvedimenti da stato di polizia rispolverati dalle questure;
il razzismo istituzionale esercitato nei confronti di migranti sia a livello di
ordinanze di sindaci quanto di legge dello stato (decreto Minniti); la
videosorveglianza diffusa e la continua identificazione. Non serve una lente
d’ingrandimento per accorgersi di quanto queste storie parlino dello stesso
modello di governance delle città e di fruizione dello (o di esclusione dallo)
spazio pubblico.
Guardando
la struttura di questi provvedimenti emerge la volontà di trasformare lo spazio
urbano in un grande supermarket conformato alle esigenze di turisti facoltosi e
a quelle di commercianti “green” e della cosiddetta classe creativa.
Per questo si ritiene necessario contrastare la socialità spontanea, chiudere
attività “low budget” e aprirne nuove più carine, “sostenibili” e soprattutto
selettive lungo linee di classe e razza. E’ necessario imporre, in una parola,
il decoro. Crediamo sia questo lo strumento retorico più efficace con cui
veicolare razzismo e servitù volontaria strizzando l’occhio alle pulsioni
reazionarie degli sfruttati, togliendo dalle spalle di ognuno il peso della
responsabilità di dover reagire all’oppressione. Da qui deriva l’impasto di
allontanamento e repressione che colpisce migranti, poveri, giovani a basso
reddito e chi si oppone – con la militanza politica, ma anche con una semplice
scritta sul muro – a questa trasformazione. Tutti insieme, questi soggetti e le
loro pratiche, sono etichettati come degrado.
E
allora riteniamo che valga la pena di tentare di comprendere questi fenomeni
nella loro complessità per provare ad organizzare una risposta collettiva
ampia, aggredire il presente e provare a connettere esperienze e riflessioni
diverse in un quadro più ampio, che riguardi le città e le vite di tutte/i noi.
La
sfida che secondo noi ha senso porci, come corpi che attraversano la metropoli,
è quella di domandarci quali forme e luoghi di solidarietà e resistenza ci
diamo rispetto ai dispositivi repressivi in campo.
Il
nostro è un invito a delle giornate di discussione e confronto, poniamo una
scommessa a tutte le realtà e alle libere singolarità ribelli. Ci sarà spazio
per l’intervento e il contributo di tutte/i purché non si abbiano pretese
egemoniche o deliri di purezza. Crediamo che ogni risposta individuale e collettiva
ai dispositivi repressivi abbia ragion d’essere, sia legittima, situata e
legata a precise scelte politiche, e in quanto tale vada rispettata.
Vorremmo
che una volta concluse queste giornate, che oltre al confronto saranno anche di
festa e di riappropriazione, tutt@ tornino a casa con nuovi stimoli e
suggestioni da tradurre nei propri territori.