-alberto
de nicola-
MICROFASCISMO E
CONTRO-MOVIMENTO
- la fascistizzazione del corpo sociale sarebbe da
interpretare come l’estrema conseguenza dell’impoverimento economico innescato
dalla crisi / questo spingerebbe i poveri a un’inevitabile “guerra” con i
propri simili, laddove la povertà porterebbe a galla una specie di loro “stato
di natura” / le concezioni “naturalistiche” e “antropologiche” della povertà
contenute in questa logica appartengano al più tradizionale repertorio delle
scienze sociali reazionarie / questa teoria implicita è straordinariamente
diventata senso comune anche presso gli ambienti di sinistra
[…]
Sempre più spesso si va a cercare nella “lotta per la sopravvivenza” degli
ultimi – o, con maggiore raffinatezza, dei penultimi
contro gli ultimi – la “questione
sociale” che si nasconde dietro l’adesione di parti crescenti della popolazione
ai valori microfascisti: il fascismo sembra essere divenuto il destino dei
poveri tanto quanto la deprivazione materiale ne sarebbe la misura.
Eppure,
l’impoverimento in quanto tale produce risposte variegate per nulla riducibili
a quelle indicate. Bisognerebbe invece cercare altrove:: il microfascismo non è
l’effetto lineare della crisi della riproduzione sociale, ma il contraccolpo di
un altro processo, la “democratizzazione” della proprietà privata. Spesso il
neoliberalismo viene strettamente identificato con la figura dell’”imprenditore
di sé”, ci si dimentica invece l’altro immancabile polo, l’affermazione
dell’”uomo proprietario”. Dalla Thatcher in poi, in Europa, la diffusione del
neoliberalismo si è associata al grande progetto di estendere a tutte le classi
sociali l’accesso alla proprietà privata e a tutti gli ambiti della vita la
logica patrimoniale: la “popolarizzazione” della proprietà è stata al tempo
stesso il potente mezzo per de-proletarizzare il corpo sociale e la contromossa
attraverso la quale i neoliberisti hanno accompagnato la progressiva
distruzione di un’altra forma di proprietà incarnata dai sistemi di Welfare
moderni (quella che Robert Castel chiamava “proprietà sociale”).
Finanziarizzazione,
autonomizzazione del lavoro e indebitamento, sono indissociabili dalla demoltiplicazione del paradigma proprietario
Ora,
con la recessione economica questo modello entra in crisi per una parte
significativa di popolazione: il capitale accumulato perde di valore e gli
investimenti falliscono. Più che una “perversa” lotta per la sopravvivenza, gli
enunciati microfascisti sono l’espressione di un delirio proprietario che
trasforma relazioni sociali e i beni in “oggetti” privati da preservare e
difendere (le “nostre donne”, i “nostri figli”, il “nostro territorio”…). Le
moltiplicazione delle ”identità” non è altro che l’espressione culturale di un
regime di proprietà.
Questa
particolare angolazione, permette di dire qualcosa di diverso sulla
composizione sociale del post-fascismo: nonostante questo interessi molti
gruppi sociali, il suo protagonista – quello che ne forgia gli enunciati – non
è affatto l’”escluso” o il “penultimo”, ma quella che Alberto Prunetti ha
efficacemente chiamato Lumpen-borghesia, ovvero quel ceto arricchitosi a
partire dagli anni Ottanta e Novanta nel capitalismo “molecolare” e rimasto
escluso dalla nuova accumulazione di ricchezza seguita alla crisi del 2007. In
Italia, il ruolo della Lega, con le trasformazioni interne al suo discorso
politico e sociale, è da questo punto di vista esemplificativo. Sempre da
questa angolazione, si dovrebbe quindi vedere il crescente consenso che
l’ordine del discorso reazionario riscontra sui gruppi sociali più poveri ed
esclusi dalla politica di diffusione della proprietà, come l’effetto di un
assemblaggio sociale, o se si preferisce dirla in termini gramsciani, come la
formazione di un “blocco storico” specifico. Presto o tardi, vedremo tutta
l’instabilità di questo consenso, laddove i discorsi che vengono ora testati
sulla popolazione migrante, saranno estesi anche alla plebe autoctona.
[…]
In Italia l’evento che ha mostrato l’esistenza di una convergenza reazionaria
tra l’”alto” e il “basso” è stato soprattutto il caso delle Ong inaugurato
dalle dichiarazioni dell’onorevole Luigi Di Maio e rimbalzato nei commenti
della rete. Con il dibattito sulle Ong è emersa, per la prima volta in tutta la
sua evidenza, una sorta di ragionevole e socialmente diffusa disponibilità ad
accettare la morte e la negazione del diritto di esistenza per migliaia di
persone che lottavano per la sopravvivenza. Questo “salto”, non sarebbe stato
possibile senza la trasformazione istituzionale di questi enunciati
micro-fascisti in un ordine del discorso “ufficiale” e fatto proprio dagli
apparati dello stato. L’impegno del ministro degli Interni Marco Minniti si è
del resto appoggiato ad una trasformazione delle politiche dei confini già
ampiamente testata a livello europeo. Quello delle Ong è però solo il primo
capitolo di un mutamento che con Macerata, e soprattutto con il dibattito
assolutorio che ne è seguito, ha mostrato tutta la sua evidenza.
La
questione riguarda solo lateralmente un fenomeno politico come Salvini. Il
problema primario riguarda il posizionamento dei soggetti di tradizione
liberale e socialdemocratica. Bisogna poter dire che una parte significativa
dell’élite dirigente e dei maggiori gruppi editoriali del nostro paese è
disposta ad accettare dosi misurate e controllate di “guerra civile” pur di
recuperare la “crisi di legittimità” a cui è esposta. Questa disponibilità è
molto più di una affannosa rincorsa verso un presunto “senso comune popolare”,
né un mero calcolo di natura elettoralistica: è la possibilità di riordinare i
rapporti sociali attraverso una linea di forza generale.
[…]Pensare
in termini di ciclo comporta evidentemente dei rischi: tra tutti, quello di
credere che non avendo ancora esaurito il suo carico di negatività, il ciclo
debba essere portato alle sue estreme conseguenze in attesa dell’arrivo di un
qualche punto di rottura. Questa posizione di attesa, mentre ci dispone
all’immobilità, nasconde in realtà l’idea che quella che stiamo attraversando
sia una tendenza lineare e ineluttabile: come se la completa colonizzazione del
corpo sociale fosse l’unica premessa al sorgere del proprio contravveleno.
In
realtà, queste tendenze, oltre ad essere contingenti e provvisorie, oltre a non
aver trovato alcuna “forma” compiuta e stabilizzata, agiscono sul corpo della
società per fratture e polarizzazioni. Sarà bene prendere atto che non c’è più
alcun popolo né alcuna tensione unitaria da invocare: “99 contro 1%” è la
formula efficace di un’epoca passata. Una politica trasformativa dovrebbe
invece prendere atto dell’esistenza di questa divisione rendendola massimamente
visibile e lavorando ad assemblaggi sociali alternativi.
La
percezione diffusa di accerchiamento che ci si ritrova a vivere in questi
ultimi mesi non deriva affatto dalla pervasività di questa tendenza, ma dalla
mancanza di forme discorsive e modelli antropologici adeguati a quella parte
della società che resiste alla torsione reazionaria. L’immaginazione politica
dovrebbe ripartire da qui, da nuove forme di appropriazione comune capaci di
rompere la paranoia proprietaria.
Se
il fascismo è il rovescio della soppressione sistematica delle alternative di
vita, non ci sono “fronti” popolari, democratici o costituzionali che reggano,
né l’antifascismo militante potrà da solo invertire la rotta: c’è il bisogno di
reinventare dei movimenti di massa in grado di politicizzare la vita.
Le
attuali ondate del movimento femminista e dei movimenti dei migranti ci dicono
che sono già in corso lotte a livello globale contro questa santa alleanza tra
neoliberalismo, nazionalismo e autoritarismo. Nella stessa misura con cui il
ciclo politico reazionario tenderà a radicalizzarsi, le linee di frattura si
approfondiranno. Siamo ora spinti a pensare che questi siano gli unici
movimenti sulla scena, dobbiamo invece pensare che sono solo i primi: altri ne
verranno. Prepariamoci. Prepariamoli.
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