domenica 25 febbraio 2018

abstract&screening\ L’ITALIA NEL CICLO POLITICO REAZIONARIO

-alberto de nicola-

MICROFASCISMO E CONTRO-MOVIMENTO 

- la fascistizzazione del corpo sociale sarebbe da interpretare come l’estrema conseguenza dell’impoverimento economico innescato dalla crisi / questo spingerebbe i poveri a un’inevitabile “guerra” con i propri simili, laddove la povertà porterebbe a galla una specie di loro “stato di natura” / le concezioni “naturalistiche” e “antropologiche” della povertà contenute in questa logica appartengano al più tradizionale repertorio delle scienze sociali reazionarie / questa teoria implicita è straordinariamente diventata senso comune anche presso gli ambienti di sinistra


[…] Sempre più spesso si va a cercare nella “lotta per la sopravvivenza” degli ultimi – o, con maggiore raffinatezza, dei penultimi contro gli ultimi – la “questione sociale” che si nasconde dietro l’adesione di parti crescenti della popolazione ai valori microfascisti: il fascismo sembra essere divenuto il destino dei poveri tanto quanto la deprivazione materiale ne sarebbe la misura.
Eppure, l’impoverimento in quanto tale produce risposte variegate per nulla riducibili a quelle indicate. Bisognerebbe invece cercare altrove:: il microfascismo non è l’effetto lineare della crisi della riproduzione sociale, ma il contraccolpo di un altro processo, la “democratizzazione” della proprietà privata. Spesso il neoliberalismo viene strettamente identificato con la figura dell’”imprenditore di sé”, ci si dimentica invece l’altro immancabile polo, l’affermazione dell’”uomo proprietario”. Dalla Thatcher in poi, in Europa, la diffusione del neoliberalismo si è associata al grande progetto di estendere a tutte le classi sociali l’accesso alla proprietà privata e a tutti gli ambiti della vita la logica patrimoniale: la “popolarizzazione” della proprietà è stata al tempo stesso il potente mezzo per de-proletarizzare il corpo sociale e la contromossa attraverso la quale i neoliberisti hanno accompagnato la progressiva distruzione di un’altra forma di proprietà incarnata dai sistemi di Welfare moderni (quella che Robert Castel chiamava “proprietà sociale”).
Finanziarizzazione, autonomizzazione del lavoro e indebitamento, sono indissociabili dalla demoltiplicazione del paradigma proprietario
Ora, con la recessione economica questo modello entra in crisi per una parte significativa di popolazione: il capitale accumulato perde di valore e gli investimenti falliscono. Più che una “perversa” lotta per la sopravvivenza, gli enunciati microfascisti sono l’espressione di un delirio proprietario che trasforma relazioni sociali e i beni in “oggetti” privati da preservare e difendere (le “nostre donne”, i “nostri figli”, il “nostro territorio”…). Le moltiplicazione delle ”identità” non è altro che l’espressione culturale di un regime di proprietà.
Questa particolare angolazione, permette di dire qualcosa di diverso sulla composizione sociale del post-fascismo: nonostante questo interessi molti gruppi sociali, il suo protagonista – quello che ne forgia gli enunciati – non è affatto l’”escluso” o il “penultimo”, ma quella che Alberto Prunetti ha efficacemente chiamato Lumpen-borghesia, ovvero quel ceto arricchitosi a partire dagli anni Ottanta e Novanta nel capitalismo “molecolare” e rimasto escluso dalla nuova accumulazione di ricchezza seguita alla crisi del 2007. In Italia, il ruolo della Lega, con le trasformazioni interne al suo discorso politico e sociale, è da questo punto di vista esemplificativo. Sempre da questa angolazione, si dovrebbe quindi vedere il crescente consenso che l’ordine del discorso reazionario riscontra sui gruppi sociali più poveri ed esclusi dalla politica di diffusione della proprietà, come l’effetto di un assemblaggio sociale, o se si preferisce dirla in termini gramsciani, come la formazione di un “blocco storico” specifico. Presto o tardi, vedremo tutta l’instabilità di questo consenso, laddove i discorsi che vengono ora testati sulla popolazione migrante, saranno estesi anche alla plebe autoctona.
[…] In Italia l’evento che ha mostrato l’esistenza di una convergenza reazionaria tra l’”alto” e il “basso” è stato soprattutto il caso delle Ong inaugurato dalle dichiarazioni dell’onorevole Luigi Di Maio e rimbalzato nei commenti della rete. Con il dibattito sulle Ong è emersa, per la prima volta in tutta la sua evidenza, una sorta di ragionevole e socialmente diffusa disponibilità ad accettare la morte e la negazione del diritto di esistenza per migliaia di persone che lottavano per la sopravvivenza. Questo “salto”, non sarebbe stato possibile senza la trasformazione istituzionale di questi enunciati micro-fascisti in un ordine del discorso “ufficiale” e fatto proprio dagli apparati dello stato. L’impegno del ministro degli Interni Marco Minniti si è del resto appoggiato ad una trasformazione delle politiche dei confini già ampiamente testata a livello europeo. Quello delle Ong è però solo il primo capitolo di un mutamento che con Macerata, e soprattutto con il dibattito assolutorio che ne è seguito, ha mostrato tutta la sua evidenza.
La questione riguarda solo lateralmente un fenomeno politico come Salvini. Il problema primario riguarda il posizionamento dei soggetti di tradizione liberale e socialdemocratica. Bisogna poter dire che una parte significativa dell’élite dirigente e dei maggiori gruppi editoriali del nostro paese è disposta ad accettare dosi misurate e controllate di “guerra civile” pur di recuperare la “crisi di legittimità” a cui è esposta. Questa disponibilità è molto più di una affannosa rincorsa verso un presunto “senso comune popolare”, né un mero calcolo di natura elettoralistica: è la possibilità di riordinare i rapporti sociali attraverso una linea di forza generale.
[…]Pensare in termini di ciclo comporta evidentemente dei rischi: tra tutti, quello di credere che non avendo ancora esaurito il suo carico di negatività, il ciclo debba essere portato alle sue estreme conseguenze in attesa dell’arrivo di un qualche punto di rottura. Questa posizione di attesa, mentre ci dispone all’immobilità, nasconde in realtà l’idea che quella che stiamo attraversando sia una tendenza lineare e ineluttabile: come se la completa colonizzazione del corpo sociale fosse l’unica premessa al sorgere del proprio contravveleno.
In realtà, queste tendenze, oltre ad essere contingenti e provvisorie, oltre a non aver trovato alcuna “forma” compiuta e stabilizzata, agiscono sul corpo della società per fratture e polarizzazioni. Sarà bene prendere atto che non c’è più alcun popolo né alcuna tensione unitaria da invocare: “99 contro 1%” è la formula efficace di un’epoca passata. Una politica trasformativa dovrebbe invece prendere atto dell’esistenza di questa divisione rendendola massimamente visibile e lavorando ad assemblaggi sociali alternativi.
La percezione diffusa di accerchiamento che ci si ritrova a vivere in questi ultimi mesi non deriva affatto dalla pervasività di questa tendenza, ma dalla mancanza di forme discorsive e modelli antropologici adeguati a quella parte della società che resiste alla torsione reazionaria. L’immaginazione politica dovrebbe ripartire da qui, da nuove forme di appropriazione comune capaci di rompere la paranoia proprietaria.
Se il fascismo è il rovescio della soppressione sistematica delle alternative di vita, non ci sono “fronti” popolari, democratici o costituzionali che reggano, né l’antifascismo militante potrà da solo invertire la rotta: c’è il bisogno di reinventare dei movimenti di massa in grado di politicizzare la vita.
Le attuali ondate del movimento femminista e dei movimenti dei migranti ci dicono che sono già in corso lotte a livello globale contro questa santa alleanza tra neoliberalismo, nazionalismo e autoritarismo. Nella stessa misura con cui il ciclo politico reazionario tenderà a radicalizzarsi, le linee di frattura si approfondiranno. Siamo ora spinti a pensare che questi siano gli unici movimenti sulla scena, dobbiamo invece pensare che sono solo i primi: altri ne verranno. Prepariamoci. Prepariamoli.

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