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∫connessioni precarie-
GRANDI PROCESSI
GLOBALI, PICCOLI EVENTI LOCALI
/Il Piano femminista contro la violenza di “Non una di meno”. Sciopero sociale e transnazionale: è tempo di ribellione /L’insorgenza delle donne e le trasformazioni prodotte dai migranti /La radicale trasformazione del mercato europeo del lavoro e l’irruzione della società globale in ogni posto di lavoro / La riconfigurazione logistica delle condizioni di produzione e riproduzione del lavoro e della vita ci stanno già investendo /Il punto è: saremo in grado di cogliere le sfide e le opportunità aperte da questa grande mutazione presente anche in ciò che appare costante e conosciuto?
Lo scorso anno sono successe cose la cui importanza
è pari solo alla nostra insoddisfazione per non averne saputo sfruttare a pieno
le potenzialità. Il femminismo, i movimenti dei migranti e la
configurazione logistica dei rapporti di produzione e riproduzione sociale
hanno messo in moto una grande mutazione. Il femminismo è stata una novità
esplosiva. Le lotte quotidiane delle donne hanno trovato espressione
collettiva, di massa e planetaria, dando vita a un processo di politicizzazione
senza precedenti che ha imposto lo sciopero come pratica di accumulazione di
forza e sovversione sociale a livello transnazionale. I movimenti dei migranti
continuano a determinare e ad accelerare trasformazioni fondamentali e
complessive non solo del mercato del lavoro e delle istituzioni statali ed
europee, ma dei processi di riproduzione della società globale nel suo
complesso. La configurazione logistica è una sfida complessiva di cui i
movimenti stanno solo ora cogliendo la centralità quale terreno di scontro, che
obbliga a un ripensamento delle modalità di comunicazione, organizzazione e
lotta a fronte delle trasformazioni del comando sul lavoro.
Dentro a questa grande mutazione ci sono anche
piccole cose, tra le quali spiccano le prossime elezioni politiche in Italia.
Visto che notoriamente il rischio delle piccole cose è di risultare di dubbio
gusto, per parlare di elezioni è bene stare fuori dalla compagna elettorale.
Noi non daremo indicazioni di voto o di non voto. Vorremmo invece discutere
come e in che misura la faticosa politica dei movimenti sarà attraversata dalle
elezioni. L’attenzione per queste ultime, infatti, nasce dal blocco evidente
dell’iniziativa e da tempo, in forme e con intensità diverse, i movimenti
stanno cercando una qualche dialettica istituzionale per rimediare alla
difficoltà e spesso all’incapacità di consolidare nel tempo i risultati che
pure ottengono. C’è però un effetto che nessuna vittoria elettorale può
produrre, ovvero quello di modificare la natura precaria del lavoro
contemporaneo. La grande crisi dell’ultimo decennio ha portato a brutale
compimento la trasformazione complessiva del lavoro; l’ha scomposto e
impoverito, per ricomporlo costantemente lungo linee sessuali e razziali,
persino rinazionalizzandolo quando risulta utile al suo controllo e al suo
maggiore sfruttamento. Il lavoro sembra sempre e comunque svalorizzato. Ma
questa svalorizzazione del lavoro non è una disgrazia nazionale, europea oppure
occidentale. È un processo globale che investe in modo diseguale tutti gli
spazi del capitale, rendendo paradossalmente uguali uomini e donne distanti e
diversi, rendendo simili anche se non omogenee le condizioni di sfruttamento
del lavoro vivo. È un fatto politico in cui sottomissione e rivolta si
presentano in continuazione una a fianco dell’altra. Nessuno può promettere di
modificare questa realtà agendo in un solo punto, pertanto la sua dimensione
globale fa delle elezioni italiane una piccola cosa. Non è dunque per
massimalismo che diciamo che la precarietà non è riformabile, ma perché
registriamo la molteplicità di collegamenti che la determinano. Nessuno può
promettere un lavoro «buono», magari protetto da una riconquistata sovranità
monetaria.
Gli anni non si contano all’indietro, quindi è
ugualmente inutile promettere il paradiso perduto dei diritti sociali
nazionali. La lotta contro questo lavoro transnazionale e tendenzialmente privo
di diritti è anche il banco di prova per il reddito minimo che ora tutti
vogliono concedere, dandogli ovviamente il proprio nome. Da anni un reddito
minimo garantito è una rivendicazione dei movimenti. Oggi che molti
parlano di reddito e se ne fa un oggetto di campagna elettorale, il problema
per noi è se e quanto questo reddito si risolverà in ultima istanza in un salario
della povertà. Nella sua banalità l’alternativa è secca: il reddito
servirà a rifiutare le occupazioni peggiori, oppure sarà soltanto un sussidio
per svalorizzare ulteriormente il lavoro? La netta opposizione a ogni ipotesi
di reddito di cui Renzi si è fatto portavoce non deve trarre in inganno
rispetto al fatto che tutte le opzioni oggi in campo convergono verso la
seconda ipotesi. Non si tratta di difendere un lavorismo senza futuro, ma al
contrario di riconoscere che proprio il discorso sul reddito è ormai una
componente di uno scontro interno alle politiche neoliberali di impoverimento e
coazione al lavoro. Anche se una lotta avverrà dentro e contro le istituzioni,
ciò che potrebbe essere un reddito incondizionato non verrà deciso nelle urne,
ma dalla capacità organizzativa che riusciremo a mettere in campo. Le elezioni,
del resto, non funzionano mai da innesco per la costruzione di percorsi soggettivi.
Possono registrare e amplificare la forza raggiunta da quelli esistenti oppure
possono essere lo spazio di una resistenza. Non producono metamorfosi
inaspettate. Fuori da ogni vuota opposizione tra istituzionalismo e
anti-istituzionalismo, si tratta perciò di riconoscere la necessità di una
condensazione dei processi, di un’organizzazione, della costruzione di una
autonomia che non sia solo purezza ideologica e paura di ogni contaminazione.
Anche l’uso di movimento delle istituzioni è produttivo se attiva processi
organizzativi e percorsi di soggettivazione che non hanno nelle istituzioni il
loro referente ultimo. Per questo ci sembrano vagamente inconcludenti i
dibattiti su quale promessa elettorale alluda maggiormente alle cose che
vorremmo. Le offerte elettorali ci sono, mancano completamente il
dibattito e l’immaginazione organizzativa per mettere una seria ipoteca su
quelle offerte. Il rischio è di non avere assolutamente nessuna voce in
capitolo tanto ora quanto dopo il voto, quando si tratterà di rimettere al
centro dell’iniziativa quella dimensione transnazionale e quantomeno europea
con la quale ogni ipotesi di trasformazione deve fare i conti. Questo per noi
dovrebbe essere in gioco nelle elezioni.
Se attualmente la nostra immaginazione organizzativa
è certamente poca cosa, è altrettanto certo che i percorsi di soggettivazione
non sono quelli di un popolo e non produrranno in nessun caso un popolo.
Non perderemo tempo a domandarci quanto populista possa o debba essere la
politica presente: sia quando è stato denunciato a destra, sia quando è stato
invocato o rinnegato a sinistra, il populismo non ci ha mai particolarmente
appassionato. Basterebbe la banale osservazione che frammentazione,
segmentazione e mobilità sono fenomeni globali che hanno fatto tabula rasa
dell’idea che ci possa essere un «popolo degli esclusi» che coincida con il
«popolare», inteso come cultura e come identità. È dalle differenze
violente che ridefiniscono conflittualmente e continuamente il «popolare» sullo
sfondo del mondo che bisogna partire, non dalla sua inesistente unità o dalla
sua rappresentazione. Gli esclusi non sono un popolo bell’e fatto che nelle sue
assemblee popolari decide i suoi rappresentanti popolari. Questa promessa di
una politica come identità non registra nemmeno lontanamente la molteplicità di
figure che non fanno parte di questo popolo sempre già presente, oppure scambia
il proprio quartiere – il popolo in miniatura – per l’alternativa al mondo
grande e cattivo.
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