lunedì 29 gennaio 2018

abstract&screening\ LA GRANDE MUTAZIONE

- ∫connessioni precarie-


GRANDI PROCESSI GLOBALI, PICCOLI EVENTI LOCALI







/Il Piano femminista contro la violenza di “Non una di meno”. Sciopero sociale e transnazionale: è tempo di ribellione /L’insorgenza delle donne e le trasformazioni prodotte dai migranti /La radicale trasformazione del mercato europeo del lavoro e l’irruzione della società globale in ogni posto di lavoro / La riconfigurazione logistica delle condizioni di produzione e riproduzione del lavoro e della vita ci stanno già investendo /Il punto è: saremo in grado di cogliere le sfide e le opportunità aperte da questa grande mutazione presente anche in ciò che appare costante e conosciuto?

Lo scorso anno sono successe cose la cui importanza è pari solo alla nostra insoddisfazione per non averne saputo sfruttare a pieno le potenzialità. Il femminismo, i movimenti dei migranti e la configurazione logistica dei rapporti di produzione e riproduzione sociale hanno messo in moto una grande mutazione. Il femminismo è stata una novità esplosiva. Le lotte quotidiane delle donne hanno trovato espressione collettiva, di massa e planetaria, dando vita a un processo di politicizzazione senza precedenti che ha imposto lo sciopero come pratica di accumulazione di forza e sovversione sociale a livello transnazionale. I movimenti dei migranti continuano a determinare e ad accelerare trasformazioni fondamentali e complessive non solo del mercato del lavoro e delle istituzioni statali ed europee, ma dei processi di riproduzione della società globale nel suo complesso. La configurazione logistica è una sfida complessiva di cui i movimenti stanno solo ora cogliendo la centralità quale terreno di scontro, che obbliga a un ripensamento delle modalità di comunicazione, organizzazione e lotta a fronte delle trasformazioni del comando sul lavoro.
Dentro a questa grande mutazione ci sono anche piccole cose, tra le quali spiccano le prossime elezioni politiche in Italia. Visto che notoriamente il rischio delle piccole cose è di risultare di dubbio gusto, per parlare di elezioni è bene stare fuori dalla compagna elettorale. Noi non daremo indicazioni di voto o di non voto. Vorremmo invece discutere come e in che misura la faticosa politica dei movimenti sarà attraversata dalle elezioni. L’attenzione per queste ultime, infatti, nasce dal blocco evidente dell’iniziativa e da tempo, in forme e con intensità diverse, i movimenti stanno cercando una qualche dialettica istituzionale per rimediare alla difficoltà e spesso all’incapacità di consolidare nel tempo i risultati che pure ottengono. C’è però un effetto che nessuna vittoria elettorale può produrre, ovvero quello di modificare la natura precaria del lavoro contemporaneo. La grande crisi dell’ultimo decennio ha portato a brutale compimento la trasformazione complessiva del lavoro; l’ha scomposto e impoverito, per ricomporlo costantemente lungo linee sessuali e razziali, persino rinazionalizzandolo quando risulta utile al suo controllo e al suo maggiore sfruttamento. Il lavoro sembra sempre e comunque svalorizzato. Ma questa svalorizzazione del lavoro non è una disgrazia nazionale, europea oppure occidentale. È un processo globale che investe in modo diseguale tutti gli spazi del capitale, rendendo paradossalmente uguali uomini e donne distanti e diversi, rendendo simili anche se non omogenee le condizioni di sfruttamento del lavoro vivo. È un fatto politico in cui sottomissione e rivolta si presentano in continuazione una a fianco dell’altra. Nessuno può promettere di modificare questa realtà agendo in un solo punto, pertanto la sua dimensione globale fa delle elezioni italiane una piccola cosa. Non è dunque per massimalismo che diciamo che la precarietà non è riformabile, ma perché registriamo la molteplicità di collegamenti che la determinano. Nessuno può promettere un lavoro «buono», magari protetto da una riconquistata sovranità monetaria.
Gli anni non si contano all’indietro, quindi è ugualmente inutile promettere il paradiso perduto dei diritti sociali nazionali. La lotta contro questo lavoro transnazionale e tendenzialmente privo di diritti è anche il banco di prova per il reddito minimo che ora tutti vogliono concedere, dandogli ovviamente il proprio nome. Da anni un reddito minimo garantito è una rivendicazione dei movimenti. Oggi che molti parlano di reddito e se ne fa un oggetto di campagna elettorale, il problema per noi è se e quanto questo reddito si risolverà in ultima istanza in un salario della povertà.  Nella sua banalità l’alternativa è secca: il reddito servirà a rifiutare le occupazioni peggiori, oppure sarà soltanto un sussidio per svalorizzare ulteriormente il lavoro? La netta opposizione a ogni ipotesi di reddito di cui Renzi si è fatto portavoce non deve trarre in inganno rispetto al fatto che tutte le opzioni oggi in campo convergono verso la seconda ipotesi. Non si tratta di difendere un lavorismo senza futuro, ma al contrario di riconoscere che proprio il discorso sul reddito è ormai una componente di uno scontro interno alle politiche neoliberali di impoverimento e coazione al lavoro. Anche se una lotta avverrà dentro e contro le istituzioni, ciò che potrebbe essere un reddito incondizionato non verrà deciso nelle urne, ma dalla capacità organizzativa che riusciremo a mettere in campo. Le elezioni, del resto, non funzionano mai da innesco per la costruzione di percorsi soggettivi. Possono registrare e amplificare la forza raggiunta da quelli esistenti oppure possono essere lo spazio di una resistenza. Non producono metamorfosi inaspettate. Fuori da ogni vuota opposizione tra istituzionalismo e anti-istituzionalismo, si tratta perciò di riconoscere la necessità di una condensazione dei processi, di un’organizzazione, della costruzione di una autonomia che non sia solo purezza ideologica e paura di ogni contaminazione. Anche l’uso di movimento delle istituzioni è produttivo se attiva processi organizzativi e percorsi di soggettivazione che non hanno nelle istituzioni il loro referente ultimo. Per questo ci sembrano vagamente inconcludenti i dibattiti su quale promessa elettorale alluda maggiormente alle cose che vorremmo. Le offerte elettorali ci sono, mancano completamente il dibattito e l’immaginazione organizzativa per mettere una seria ipoteca su quelle offerte. Il rischio è di non avere assolutamente nessuna voce in capitolo tanto ora quanto dopo il voto, quando si tratterà di rimettere al centro dell’iniziativa quella dimensione transnazionale e quantomeno europea con la quale ogni ipotesi di trasformazione deve fare i conti. Questo per noi dovrebbe essere in gioco nelle elezioni.
Se attualmente la nostra immaginazione organizzativa è certamente poca cosa, è altrettanto certo che i percorsi di soggettivazione non sono quelli di un popolo e non produrranno in nessun caso un popolo. Non perderemo tempo a domandarci quanto populista possa o debba essere la politica presente: sia quando è stato denunciato a destra, sia quando è stato invocato o rinnegato a sinistra, il populismo non ci ha mai particolarmente appassionato. Basterebbe la banale osservazione che frammentazione, segmentazione e mobilità sono fenomeni globali che hanno fatto tabula rasa dell’idea che ci possa essere un «popolo degli esclusi» che coincida con il «popolare», inteso come cultura e come identità. È dalle differenze violente che ridefiniscono conflittualmente e continuamente il «popolare» sullo sfondo del mondo che bisogna partire, non dalla sua inesistente unità o dalla sua rappresentazione. Gli esclusi non sono un popolo bell’e fatto che nelle sue assemblee popolari decide i suoi rappresentanti popolari. Questa promessa di una politica come identità non registra nemmeno lontanamente la molteplicità di figure che non fanno parte di questo popolo sempre già presente, oppure scambia il proprio quartiere – il popolo in miniatura – per l’alternativa al mondo grande e cattivo.

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