-toni
negri-
Questi gli interrogativi fondamentali proposti dall’intervista rilasciata ad Emmanuel Chamorro Sánchez per il periodico spagnolo Dorsal. Revista de Estudios Foucaultianos, intervista che riprende i temi del volume di Negri “Marx and Foucault”, recentemente pubblicato da Polity Press. Un’opera che raccoglie sedici testi elaborati prevalentemente dall’autore nell’ultimo decennio
… Foucault, nel suo percorso teorico,
ha cercato, prima di tutto, di riordinare il reale, la molteplicità che lo
costituisce, sistemandolo strutturalmente. Fu questo il proposito della
filosofia francese – sulla linea Canguilhem – nel secondo dopoguerra. In Foucault,
inoltre, si sente nell’opera degli anni ’60, fortemente risonare la critica
francofortese – della quale non va sottovalutata l’ambigua egemonia in quegli
anni. Ma successivamente Foucault sviluppa una dinamica di rottura di quelle
strutture ed identifica il rapporto antagonista come schema di lettura e di
tessitura dell’orizzonte storico. Se vogliamo meglio inquadrare quanto avviene
nell’ambito della critica materialista del mondo presente fra i ’50 e i ’70,
possiamo dunque dire che la «sussunzione reale» è il «prima», meglio, la
dimensione «epistemica» (direbbe Foucault) nella quale si muove la critica
negli anni del secondo dopoguerra (era, come si diceva, quel che Francoforte ha
categorizzato). Anche l’«operaismo», al suo inizio, è d’accordo su questa
prospettiva. L’orizzonte strutturale e quello della «sussunzione reale»
presentano profondissime analogie: la presa di coscienza che la mercificazione
capitalista ha invaso il mondo della vita. Ma la cosa decisiva nel pensiero di
Foucault (e anche in quello dell’«operaismo») è il secondo momento, quando cioè
si pone il problema di come rompere quella gabbia, di come apprezzare e
qualificare movimenti e pluralità all’interno di quella totalità «strutturale»
o «sussunta». Questo è il secondo Foucault, quando dipinge «un mondo che non ha
più fuori»; quando, d’accordo con Deleuze, assume l’orizzonte di immanenza in
maniera assoluta e, diversamente da Deleuze, lo storicizza. È qui che il
concetto di produzione assume una posizione primaria e la «produzione di
soggettività» diviene polo di resistenza e di costruzione dell’orizzonte
«biopolitico».
Mi permetto di notare che l’«operaismo» si è rinnovato in parallelo con questo movimento critico del poststrutturalismo – rispondendo al pathos di quel tempo straordinario che furono i ‘60/’70.
Mi permetto di notare che l’«operaismo» si è rinnovato in parallelo con questo movimento critico del poststrutturalismo – rispondendo al pathos di quel tempo straordinario che furono i ‘60/’70.
(…)
Mi chiedete perché nel mio lavoro vi sia un’assenza di riferimenti specifici ai
testi di Foucault sulla biopolitica apparsi alla fine degli anni ’70. Perché
un’assenza di riferimento a quei testi che davano ragione alla previsione sullo
sviluppo del pensiero di Foucault che avevo proposto negli anni precenti? Non
mi pare che questo si possa dire in generale. Ho ben letto e portato nella
discussione del rapporto Marx-Foucault quei corsi al Collège –
tanto più che in essi agisce quella storiografia marxista (di Lucien Febvre e
Boris Porschnev, in primo luogo) sulla quale anche nel mio lavoro mi ero
soffermato. Ma forse avete ragione nel pormi questa domanda perché anch’io
sento quel vuoto. E la spiegazione è banale. In quegli anni ero in galera,
isolato da tutto e da tutti, ed evidentemente non informato dell’evoluzione del
pensiero di Foucault. Tuttavia in quegli anni, e in quelle condizioni, lavorai
su Spinoza, su un tema analogo: come può essere soggettivata l’etica dentro l’assoluto
ontologico? Non è lo stesso problema della rottura e dello sviluppo della
struttura? Quello che era per me importante era, da un lato, riportare il
problema politico nella critica della metafisica e quindi mostrare la
metafisica come contesto del pensiero politico; dall’altro lato, spiegare come
nell’assoluto ontologico possano darsi singolarità plurali in movimento e come
questo movimento proponga eccedenza d’essere e potenza costituente. Quando poi
negli anni ’90 rientrai nel dibattito politico, quei temi foucaultiani della
fine dei ’70 sono divenuti per me fondamentali. Ed evidentemente lo sono
in Impero e dintorni. Con tutta probabilità è il Foucault di
Deleuze che ha aiutato il mio aderire a quelle tematiche, più di quanto ne
fossi capace precedentemente. Il discorso su «disciplina e controllo» è
divenuto allora centrale nell’analisi delle trasformazioni del potere – ma
soprattutto è diventata per me fondamentale quell’analisi foucaultiana del
potere e del soggetto che, spinozianamente, potevo collegare alla mia lunga
consuetudine teorica con il rapporto duale di «potere» e «potenza». Sono temi
che man mano sono divenuti centrali nella mia discussione con Michael Hardt e
nella nostra filosofia politica. Si noti in particolare che in Assembly il
tema della soggettivazione è ampiamente ripreso e spinto fino a investire
«funzioni imprenditoriali» nello sviluppo del concetto di moltitudine. Sia
inteso che qui, in questo proposito, è implicito – come lo è in Foucault – lo
sforzo di liberare il concetto di «impresa» da qualsiasi accento individualista
e neoliberale. Ed anche questo sforzo è qualcosa che per me discopre lavori
antichi. Nel mio lavoro sociologico degli anni ’80 e ’90, durante l’esilio
francese, avevo infatti tentato di fissare il concetto di «imprenditore
politico» come corrispettivo delle esperienze di «laboratori territoriali» e/o
di «bacini di lavoro immateriale» che venivo descrivendo nella prima fase dello
sviluppo «postfordista». Tutto ciò per dire che, quanto Foucault ha posto in prima
linea, era nell’aria ed anche umili ricercatori – come me e i miei compagni in
politica ed in sociologia eravamo – potevano autonomamente intuire e pregustare
quei concetti e quei temi che sono di Foucault. Di un Foucault «mimo» di
un’epoca – come vuole sia il filosofo, il Deleuze di “Che cos’è la
filosofia?”.
estratto
da Euronomade che ha tradotto e pubblicato l’intervista
integrale