-cristina
morini-
COSTRUIRE
L'UNITÀ D’AZIONE DELLE BATTAGLIE POLITICO-SINDACALI
/«L’ultimo rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro dimostra che le forme classiche di lavoro salariato sono in diminuzione. Le cifre sono edificanti: il lavoro salariato rappresenta solo la metà degli impieghi nel mondo e tra questi solo il 45% sono permanenti a tempo pieno. Ciò vuol dire che su scala mondiale il lavoro salariato permanente a tempo pieno rappresenta solo il 22,5% dei lavoratori. All’interno di questo contesto, com’è possibile parlare ancora d’impiego o lavoro atipico? »
/«L’ultimo rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro dimostra che le forme classiche di lavoro salariato sono in diminuzione. Le cifre sono edificanti: il lavoro salariato rappresenta solo la metà degli impieghi nel mondo e tra questi solo il 45% sono permanenti a tempo pieno. Ciò vuol dire che su scala mondiale il lavoro salariato permanente a tempo pieno rappresenta solo il 22,5% dei lavoratori. All’interno di questo contesto, com’è possibile parlare ancora d’impiego o lavoro atipico? »
Né
rimpianti né ortodossie potranno aiutarci ad affrontare seriamente le esigenze
dell’universo del lavoro contemporaneo. Tali posture, per quanto comprensibili,
rischiano di spingere verso battaglie inefficaci e drammaticamente segmentate,
incapaci di coagulare largo consenso attorno a sé. Non ricompongono il quadro
e, a ben vedere, si fermano alla descrizione, un pò querula, della fase
perdente del lavoro salariato e subordinato. Osservare questo vuole dire
osservare solo lo sfondo, tra l’altro in progressiva e incontrovertibile
contrazione, e soprattutto vuole dire bloccare sotto un grumo di nostalgia la
differente soggettività politica dei nuovi lavoratori e delle
nuove lavoratrici, a partire dal fatto che non si riconosce la manifesta
mutazione della nozione stessa di lavoro, uscita ormai
completamente da cardini e binari noti, sessualmente connotati, per allargarsi,
tra tensioni e contraddizioni, ad altri possibili campi semantici ed epistemici
che descrivono le diverse forme dell’agire umano nel mondo (fare, attività,
creazione, prestazione, relazione, iniziativa…). Si parte, insomma, da
un abuso del linguaggio – la maggioranza delle donne questa
storia la conosce assai bene.
Naturalmente,
tutto ciò rappresenta un immenso problema, che continua ad avere radici molto
profonde e antiche, ma anche necessita di un aggiornamento dello sguardo, cioè
ha bisogno di rivolgere “verso l’avvenire la lanterna dell’esperienza che
altrimenti sembra illuminare solo il passato”. Dunque addirittura c’è urgenza
di Rifare il mondo… del lavoro come titola un piccolo libro interessante
a firma di Sandrino Graceffa, tradotto in Italia da DeriveApprodi dopo l’uscita
in francese lo scorso anno. Graceffa è attualmente amministratore delegato di
SMArt, Société Mutuelle des Artistes, nata a Bruxelles nel 1998
sotto forma di associazione senza scopo di lucro, oggi diventata una
cooperativa che fornisce servizi, assistenza, assicurazione ai freelance,
basandosi su principi mutualistici, e contemporaneamente lavora su un piano
politico, portando avanti, dentro la cornice europea, la proposta di flexsicurity.
Si
ricostruisce perciò, in questo libro, che è fondamentalmente una lunga
intervista a Graceffa condotta da Roger Burton, Virginie Condier e Carmelo
Virone, la storytelling di SMArt, arrivata a contare 75mila
iscritti. Dal Belgio si sta allargando in vari paesi europei, tra i quali
l’Italia.
Sergio
Bologna, nella sua introduzione al testo, sottolinea il grande valore simbolico
rappresentato dal fatto “che una società di mutuo soccorso così solida abbia il
suo quartiere generale nella città sede dello sconsiderato governo europeo,
così sbilanciato a favore di chi sfrutta la forza lavoro”.
L’immagine
che prevale in questo arcipelago europeo, pure tra difformità, è infatti quella
di un mercato del lavoro fluttuante, connotato da impieghi discontinui e
variabili, tra i quali aumenta il numero dei working poor, con
residui di politiche sociali e assistenziali sempre più subordinate alla
accettazione della massima disponibilità e flessibilità dell’impiego precario,
oggi incarnata dal lavoro scarsamente qualificato e scarsamente retribuito
della Gig Economy. In realtà, i diritti sociali e collettivi ottenuti dal
lavoro non sono affatto rappresentazione di una naturale evoluzione della
civiltà giuridica, ma un’eccezione divenuta possibile quando il movimento del
lavoro si è presentato come soggetto collettivo. Oggi notiamo una completa
ridefinizione del rapporto tra lavoro e cittadinanza, si riaffermano dinamiche
escludenti a tutto discapito di quelle includenti.
Il
tema dell’aggiornamento delle forme della rappresentanza e della assicurazione
sociale è, perciò, più che mai centrale in un mondo dove, mentre la
robotizzazione avanza, aumenta lo stato di sfruttamento intensivo non del
lavoratore ma della persona nella sua interezza, all’interno
di un lavoro completamente “soggettivato”, che,
indipendentemente dalla professione, tende ad allagare gli spazi della vita. È
il lavoro ri-produttivo, è il lavoro sociale prodotto e
riprodotto nel tessuto sociale (dalla cura alla comunicazione e al consumo),
che sollecita costantemente i retroterra emotivi, cognitivi, relazionali del
soggetto. Vanno tenute in conto la modularità della prestazione richiesta, la
diversità dei contratti, le differenze retributive a parità di mansione. Allo
stesso tempo, avremo varietà soggettive di partecipazione e di
coinvolgimento, vale a dire varietà di percezione soggettiva, e
modalità difformi di fare appello a risorse, energie, competenze, emozioni e
comportamenti soggettivi del corpo-mente. Il problema
dell’unità d’azione si pone allora con sempre più forza e rigore sul piano
della attualità, delle battaglie politico-sindacali che vanno realizzate in
modo dinamico, con innumerevoli collegamenti ramificati, da costruire giorno
per giorno.
Evidentemente,
non ci si può limitare al breve elenco degli effetti dei nuovi imperativi
sociali fondati sulla prestazione individuale che “elegge la forma impresa come
forma soggettiva adeguata alle esigenze produttive del capitalismo
contemporaneo”, come notano Federico Chicchi e Anna Simone. È necessario rimarcare come la
trasformazione del paradigma di produzione e la presente forma precaria
dell’organizzazione del lavoro – in apparenza autonomamente dis-organizzata e
sparpagliata sul territorio – si reggano su meccanismi di etero direzione e di
ricatto, resi possibili proprio dalla parcellizzazione della
responsabilità sociale, “al fine di rendere più efficaci e fluidi i processi
che presiedono all’accumulazione del valore”. Cioè, appunto, per intensificare
lo sfruttamento, si segmenta il mercato del lavoro anche tra chi sa reggere la
stretta della società della prestazione e chi invece va abbandonato al suo
quotidiano burnout (senso di impotenza, mancanza di controllo,
senso di sovraccarico, disadattamento da mancanza di riconoscimento,
esaurimento emotivo).
È
il collasso della sicurezza collettiva, che ha funzionato come scenario nel
fordismo, a rendere obbligatoriamente adattabile il soggetto al sistema,
predisponendolo alla competizione con altri, in una gara che deve trasformarsi
nell’impresa della vita per la sopravvivenza. Nel libro, Graceffa
rileva infatti che la preoccupazione per la protezione sociale si è “spostata
sull’individuo che si considera come una impresa unipersonale a tutti gli
effetti, alla ricerca del miglior livello di rendimento, del miglior rapporto
qualità-prezzo e cerca di ridurre al massimo i suoi oneri sociali”.
L’immissione del desiderio, in tale processo, è passaggio significativo ma
tuttavia, a mio avviso, regge ormai a fatica, eccezion fatta per gli addicted:
venti anni di “postfordismo” savage lo hanno consumato, amore
sfinito da pratiche di bondage non consensuali. Dunque è un
desiderio non veramente desiderabile, una simulazione di piacere da produrre
nel meccanismo spettacolarizzato di compra-vendita della merce lavoro, in un
mercato dove il dumping è la norma e i prezzi sono in infinita
discesa.
Tra
queste direttrici complesse e in tensione, SMArt e Graceffa provano ad
articolare una risposta e una proposta, scoperchiando le questioni relative ai
nuovi modelli di distribuzione, della solidarietà interpersonale, delle
necessità di un regime europeo universale di previdenza sociale. Non è un caso
che la Société Mutuelle des Artistes muova dalla difesa
mutualistica degli artisti, lavoro intermittente, individualizzato per
eccellenza, paradigmatico dell’economia dell’affetto e
dell’imperativo creativo applicato al campo sociale. L’artista è perfetta
metafora del lavoro nella contemporaneità. E lo stesso vale per il lavoro
riproduttivo svolto dalle donne, oggi archetipo dell’interezza di un agire
sociale (riproduzione sociale) che viene riportato nell’alveo della forma di
vita capitalistica. Il libro si apre sul parallelo tra lavoro sociale e lavoro
artistico: in entrambi i casi si tratta di lavori che hanno una funzione
sociale, una grande utilità pubblica, ma “la società non concepisce tale
impegni come un lavoro”. Si allarga allora (finalmente) la consapevolezza che
il nucleo del problema che abbiamo oggi con il lavoro si genera a partire dai
lavori, dai mestieri, dai compiti fondamentali per la crescita, il benessere,
la coesione ma storicamente non riconosciuti, non retribuiti, non tutelati.
Ivan Illich li ha chiamati lavori-ombra, potremmo anche
definirli lavori-specchio della modificazione generale del
lavoro. Nell’assenza progressiva di forme di mediazione statuali, il problema
si fa (finalmente) comune: “Lo si voglia o no, il lavoro dipendente
a tempo indeterminato non è più la forma predominante dell’impiego”, afferma
Graceffa, e appare ineludibile la necessità di superare la nostalgia,
“inventando un nuovo quadro fondato sulla solidarietà e sul mutualismo”.
È
molto interessante, dal mio punto di vista, che i presupposti di una rete
mutualistica, partano da questo snodo, immaginando “contropartite per il lavoro
svolto fuori dall’impiego”. Si legge: “Bisognerebbe pensare a forme di
remunerazione per coloro che si occupano dei loro genitori, dei loro figli, dei
loro vicini o che si mobilitano per la creazione di legami sociali nel loro
quartiere […] uscendo da una visione riduttrice che è troppo a lungo prevalsa
nella nostra società”. Il ragionamento porta a concepire forme di reddito
universale in cambio di una attività o funzione utile all’interesse generale,
che va a contribuire al bene comune, a modi migliori di vivere insieme: dal
lavoro di cura, alla cura della campagna, all’accoglienza turistica delle
regioni, alla costruzione e all’intrattenimento dei paesaggi di cui beneficiano
tutti. Graceffa solleva il tema dei corrispettivi, dei riconoscimenti “anche
simbolici”, legati al ruolo che ciascuno individuo può giocare nella società.
Benché non si parli di reddito incondizionato, l’idea di connettere forme di
reddito alla costruzione di comune mi sembra azzeccata, anche
considerando che tale costruzione è già in atto nella società: si tratta di
aiutarla a individuarsi, riconoscendola, si tratta di salvaguardarla, cosicché
ancora, e meglio, possa svilupparsi. D’altro lato, non si avvicina, forse, tale
proposta, all’idea del Commonfare, di un Welfare del comune, che cerchiamo di
precisare e di rappresentare, creando connessioni tra esperienze collettive,
generazione di comunità, a partire dal riconoscimento della ricchezza
collettivamente prodotta? “Praticabilità della vita, e quindi del lavoro e
della produzione”, ha scritto Lucia Bertell in un bel libro che si
intitola Lavoro ecoautonomo, “intrapresi e portati avanti a
partire da combinazioni di vecchie e nuove categorie: reddito, rimuneratività,
relazioni di utilità e vita, diversamente combinate e significate”.
C’è
certamente un grande bisogno di liberare il lavoro dalla sua subordinazione e
la proposta, avanzata da SMArt, di creare un regime europeo universale di
protezione sociale insieme alla promozione di una economia collaborativa e non
predatrice è la strada giusta, la trattazione che conducono appassionata. Senza
entrare nel merito della attuabilità specifica del progetto nel contesto
italiano, che trovo complessa, l’ispirazione è corretta: riconnettere i
lavori alle prese con la loro atomizzazione, ricostruendo solidarietà
e rappresentanza pur fuori dalle liturgie del modello unico che ha condizionato
fino a qui l’agire sindacale tradizionale. Ricostruire allora regole collettive
di protezione sociale, cosicché le persone non si sentano buttate, in
solitudine, nell’arena dell’auto-sfruttamento, quand’anche tale condizione
venga nobilitata dalla dizione auto-imprenditorialità (ancora una volta l’abuso del
linguaggio).
Provocatoriamente,
infine, ma anche seriamente, aggiungo che i lavori slash del
presente (ricercatore/badante; giornalista/fattorino; art director/cameriere;
progettista/casalinga) fanno paradossalmente giustizia della gerarchia tra i
lavori, riportando il desiderio fuori dall’impiego, laddove è più giusto che
sia, vale a dire sul terreno del cambiamento della vita e nella costruzione
politica di reti sociali. L’ingiustizia sta nella mancanza di diritti per poter
condurre una vita buona e dunque nella mancanza di tempo e dunque nella
mancanza di reddito. Non nella rivendicazione di un ruolo, condizionato
dall’ordine stabilito dal potere. L’idea di una equivalenza dei lavori va
rilanciata e può prestarsi a una forma inedita di ricomposizione. Va
valorizzata per cambiare di segno al pressing neoliberale e alle conseguenti,
faticose, esposizioni che fragilizzano l’Io invece che rafforzarlo, tra voti
infiniti di povertà. Questa è la partita politica che debbono affrontare le
nuove soggettività, che sul pilastro della rivendicazione di reddito e di un
nuovo ecosistema, meno schiacciato sul produttivismo, debbono puntare a
costruire un nuovo patto.
La
cognizione della condizione comune, la proposizione di forme
aggiornate di mutualismo, può guidarci verso l’identificazione del tratto
generale che sta alla base dello sfruttamento contemporaneo, che dilaga dentro
l’esistenza. Tale cognizione è una forma di potere, che si materializza
esattamente nella consapevolezza dell’essere, tutte e tutti, egualmente
assoggettati dall’identica fragilità. Si può puntare a risolvere, almeno in
parte, tale delicato aspetto della condizione umana solo attraverso una seria
riscoperta del senso della condivisione e del ruolo della collettività.