-roberto
ciccarelli-
RIPENSARE
I SOVIET COME ISTITUZIONI «NON SOVRANE E NON PROPRIETARIE»
- Non ho mai pensato che la rivoluzione sia qualcosa che ti porta al potere, ma che cambia il potere… Bisogna smetterla di mitologizzarla/ non è un evento ma un’ontologia, è vivere, costruire continuamente momenti di novità e di rottura / è lo sviluppo delle forze produttive, dei modi di vita del comune, lo sviluppo dell’intelligenza collettiva
- Non ho mai pensato che la rivoluzione sia qualcosa che ti porta al potere, ma che cambia il potere… Bisogna smetterla di mitologizzarla/ non è un evento ma un’ontologia, è vivere, costruire continuamente momenti di novità e di rottura / è lo sviluppo delle forze produttive, dei modi di vita del comune, lo sviluppo dell’intelligenza collettiva
«I movimenti sono l’emblema di quel processo
rivoluzionario continuo attraverso il
quale il capitale
ha voluto imporre il proprio potere sulla vita – ma dove la vita ha violentemente espresso il suo rifiuto»
(«Storia di un comunista», Ponte Alle
Grazie)
Quando
ci sediamo a un lungo tavolo del suo appartamento a Parigi Toni Negri, 84 anni,
ha in mano appunti fitti, lo sguardo teso, l’aria esigente. L’influenza che lo
ha assillato dal ritorno da un viaggio in Brasile dove ha presentato Assembly,
da poco pubblicato in inglese per Oxford University Press – quarta parte della
ricerca comune scritta con il filosofo americano Michael Hardt dopo Impero, Moltitudine e Comune –
lo rende impaziente:
«Non
riesco a lavorare come vorrei» dice. Filosofo discusso a livello mondiale, ora
sta lavorando alla seconda parte dell’autobiografia – la prima ha un titolo
emblematico: Storia di un comunista.
E
già progetta un nuovo volume a quattro mani con Hardt. Desiderio spinozista,
pratica marxista, con Negri non è tempo di ricordi, ci si ritrova a parlare
dall’interno di una tendenza.
A
una parola come «rivoluzione» oggi sembrano credere solo gli spin-doctor pagati
per confezionare un programma per le elezioni. Per lei che ha creduto
intensamente a una rivoluzione, fino al punto da cambiare radicalmente la sua
esistenza, cosa significa questa parola?
Per
me significa che la rivoluzione non la si fa, ma ti fa. Bisogna smetterla di
mitologizzarla: la rivoluzione è vivere, costruire continuamente momenti di
novità e di rottura. La rivoluzione è un’ontologia, non un evento. Non si
incarna in un nome: Gesù Cristo, Lenin, Robespierre o Saint Just.
La
rivoluzione è lo sviluppo delle forze produttive, dei modi di vita del comune,
lo sviluppo dell’intelligenza collettiva. Non ho mai pensato di fare la
rivoluzione e di andare al potere il giorno dopo.
Quando
ero giovane ho pensato che il comitato operaio di Marghera avrebbe organizzato
la società attorno al consiglio operaio e ai suoi ideali a partire dalla
fabbrica. Allora, negli anni Settanta. Oggi è molto diverso, esiste un altro
modo di produzione: si può organizzare la società a partire dal reddito di
base, dalle nuove figure del lavoro, da nuove scuole e forme associative, da
nuovi loisirs, uscendo dalla noia e dalla disperazione in cui
viviamo.
Non
ho mai pensato che la rivoluzione sia qualcosa che ti porta al potere, ma che
cambia il potere. Significa prendere il potere in maniera differente.
È
una differenza fondamentale: non vuol dire prenderlo dall’alto, ma dal basso.
La rivoluzione c’è quando si è capaci di dimostrare che il comune emerge dal
modo di produzione che investe la vita. È il bambino ad avere oggi il forcipe
nelle mani, non l’ostetrico della storia.
Rispetto
al linguaggio, e all’immaginario, corrente il suo approccio è sempre stato, a
dir poco, discordante. A essere gentili, di solito, le viene risposto che è
ottimista, utopista, visionario. A sinistra c’è sempre quell’aria cupa,
realista, impegnata nello sforzo volontaristico a unirsi o nell’evocazione di
soggetti che mancano. Come si trova in questo orizzonte?
Le
posso rispondere con un episodio, molto pratico. Pochi giorni fa Michael ha
presentato Assembly a Londra. Ha incontrato «Momentum», la
rete di base che appoggia il Labour e Corbyn. Quello che è impressionante è
l’incontro tra i giovani e i vecchi corbyniani, persone che hanno fatto il
Sessantotto e le lotte degli anni Settanta e oggi sono trascinati
dall’entusiasmo dei giovani che hanno fatto le lotte alter-mondialiste e quelle
di Occupy, le ultime lotte di questa generazione. Manca tutta la gente tra i 35
e 60 anni, la generazione blairiana. Ecco dove si forma la nuova sinistra e con
queste realtà oggi ci ritroviamo e superiamo i vecchi incastri con la cultura
socialdemocratica.
Nel
libro descrivete la straordinaria, e drammatica, emersione del movimento
americano Black Lives Matters. In che rapporto è con l’onda che ha fatto molto
parlare di Bernie Sanders?
Siamo
in contatto con una compagna che è nella direzione del movimento di Sanders.
Dai suoi racconti comprendiamo che il partito democratico americano è una
macchina di potere terribilmente governativa, non reagisce alle novità,
riprende temi socialdemocratici classici che non funzionano.
Black
Lives Matters è il futuro. È l’espressione di un movimento senza leadership.
Ce
ne sono tanti nel mondo e la sinistra dovrebbe capirli a fondo: quelli
indigeni, ad esempio, che puntano sulle proprietà comuni, sono esperienze
formidabili. E i nuovi movimenti femministi e la loro fortissima soggettività.
È
la forma stessa del capitalismo che rivela queste nuove forze produttive e
queste esperienze di rottura. Non è solo un discorso marxista, è un discorso
realistico, se si vuole uscire dal «secolo breve», una volta per sempre, fuori
dalla sua agonia.
Lei
parla sempre dal punto di vista dei movimenti. In Assembly analizzate,
senza reticenze, la loro crisi e suggerite di non sottovalutare «il potere
durevole di coloro che combattono e sono sconfitti». Cosa intendete dire?
Torniamo
al paradosso di Corbyn: i Sessantottini che si ritrovano con i giovani di oggi.
Basta un fischio e tornano fuori quelli che sono stati sconfitti allora. Perché
hanno imparato nelle lotte la generosità, la cooperazione, hanno fatto
trionfare la solidarietà. Questi sono vizi che una volta presi non ti mollano
più.
Se
si potesse fare una storia foucaultiana dei movimenti in Italia si capirebbe di
quali quantità di «cinici» , di militanti comunisti arrabbiati il paesaggio è
pieno: intendo gente che si faceva costruire dalla «volontà di sapere» e
dall’azione rivoluzionaria, e così amava gli altri e la vita.
Scrivete
che dal 2001 a oggi i movimenti hanno affermato un nuovo inizio per la
sinistra, ma hanno dimostrato una «povertà organizzativa» e non sono stati
all’altezza del problema che hanno posto. Non c’è il rischio di ripetere le
vecchie sconfitte senza avanzare di un millimetro?
Bisogna,
una volta per tutte, liberarsi dall’illusione che dai movimenti si debba trarre
qualcosa. Quasi sempre i movimenti esprimono la fine di un discorso, non
producono un evento, ma lo terminano. Il Sessantotto non è stato un evento, ma
una costruzione. Perché dietro c’erano gli anni Sessanta, c’era già da tempo
una politica di massa a livello mondiale. In Italia questa politica è stata
talmente potente da durare dieci anni, passando dal movimento del 1977. I movimenti oggi non capiscono
che devono costruire, non che devono raccogliere.
Ho
sentito i compagni che uscivano da Genova, o dalle lotte dell’università, dire
che dopo le manifestazioni era tempo di fare un’organizzazione. Ma se non lo
avevano creata fino ad allora non l’avrebbero mai più fatta! Sarebbero stati
solo identificati dalla polizia come persone da abbattere. Bisogna rompere
questa idea che il movimento forma il partito, la coalizione, un seguito. I
movimenti formano la forza, e questa forza va riconosciuta.
I
movimenti sono la strategia. Non nascono per spirito infuso, o per un mistero
che si incarna nella società, si costruiscono concretamente, passo dopo passo,
insieme a migliaia di persone, ciascuno a partire da sé. La politica si
costruisce insieme.
I
Soviet per noi restano un modello da pensare, nacquero in un modo di produzione
specifico, assemblando forze produttive e sociali. In un mondo completamente
diverso, restano un dispositivo potente.
I
Soviet sono attuali?
Oggi
si devono costruire istituzioni non sovrane e non proprietarie. Funzionerebbero
come la gestione dell’acqua bene comune, nelle battaglia contro la violenza
poliziesca in Francia o negli Stati uniti, nelle grandi lotte indigene
nell’America Latina, nelle lotte femministe.
L’invenzione
di una nuova struttura politica non può nascere che dal collegamento tra queste
forze. L’istituzione non nasce dal sovrano, ma dalla necessità di stare
insieme, di produrre e vivere insieme.
Questa
era l’idea fondamentale dei Soviet: organizzare il modo in cui si sta insieme
in una società industriale, dove la cooperazione sociale è avanzata e ha la
capacità di esercitare potere attraverso la costruzione politica di una forza
produttiva.
Per
descrivere questa costruzione nel libro usate un’espressione curiosa:
«imprenditorialità del comune». Che cosa significa?
In
alcune recensioni anglosassoni ci viene rimproverato questo concetto: l’impresa
non può essere strappata al neo-liberismo. E invece penso che oggi il rapporto
tra imprenditorialità e istituzione – l’instituere – sia qualcosa
che vada studiato fino in fondo. Il lavoro è sempre istitutio.
Questa capacità oggi è massacrata oppure nascosta da un falso concetto di
libertà.
Creare
un’impresa significa lasciare libera la forza lavoro di organizzarsi. È questo
il discorso politico che il capitalismo sequestra ai lavoratori. Noi invece
crediamo che si inizia a fare politica quando la forza lavoro conquista la
capacità di organizzarsi produttivamente.
Tutto
questo passa da un partito? È questo che sostenete?
Assolutamente
no. Oggi l’autonomia del politico non è più quella leninista, oggi è il
populismo. In ogni epoca l’autonomia del politico si qualifica in qualche modo,
se si vuole evitare di assumerla in termini generici. E oggi l’autonomia del politico
è stata ridotta a un gioco discorsivo che usa le categorie istituzionali e ha
l’obiettivo di costruire un popolo sottomesso.
Leggo
quello che succede in Italia dove la legge elettorale è da tempo diventata il
luogo centrale di questo uso discriminatorio del politico. È una manipolazione
pura del popolo e del consenso.
In
gioco non c’è solo un criterio minimo di rappresentanza, che mi sembra sempre
più in crisi, ma qualcosa di più profondo: si vuole impedire alle persone di
sperimentare nuovi modi istituzionali e produttivi per governarsi da sé.
La
socialdemocrazia è in crisi e sono in molti a credere che possa essere superata
attraverso una declinazione di «sinistra» del populismo. Ritiene che Podemos o
il Labour di Corbyn possano essere interpretati in questo modo?
Quello
di sinistra è un caso del populismo di «sostituzione». Dubito che questa
logica, teorizzata dal filosofo argentino Ernesto Laclau, possa mai reinventare
formule diverse da quelle del «socialismo nazionale». In Spagna, dentro Podemos,
si è sviluppato un grande dibattito su questo tema. E ha vinto la tendenza
nazional-popolare.
La
polemica è avvenuta con i movimenti sulla funzione del partito: se si dovessero
sostenere i movimenti e creare una coalizione oppure se si dovesse essere un partito
classico che inventava il suo popolo. Ha vinto il progetto di sostituzione
della socialdemocrazia, non un progetto di innovazione della sinistra.
All’altro
capo del populismo, Alice Weidel dell’Afd in Germania è un caso clamoroso di
rovesciamento delle istanze dei movimenti: lesbica, sposata con una cittadina
srilankese, ha lavorato per Goldman Sachs e Allianz, sostenitrice di politiche
xenofobe, islamofobe ed è contro matrimoni omosessuali. Cosa rappresenta una
simile figura?
Rappresenta
il vuoto che si riproduce. Come altri personaggi non è un soggetto, ma un
prodotto. Nasce sollecitando i peggiori istinti e arriva alla contraddizione
più clamorosa con quello che è realmente nella sua vita. A questo in fondo
porta il populismo: creare il popolo anche contro ciò che si è. A questa
contraddizione si lega il concetto di nazione e poi, nell’ordine, quello di
appartenenza regionale e famigliare. Così si articolano forme di proprietà e
confine. Il rischio forte è quello della corruzione.
Nella
mia vita ho visto molte persone fare cose terribili in nome della famiglia,
fino alle peggiori forme di corruzione. Dietro queste appartenenze, ci sono
solo barbarie e tribalismi.
Quali
sono gli altri populismi?
Trump
ne è un esempio purissimo. A suo modo Macron in Francia gli assomiglia, anche
se si comporta da tecnocrate che gestisce al centro destra e sinistra
costituzionali secondo il progetto di Juppé.
A
destra e a sinistra, ci sono populismi «rilavati». In Mediaset nel caso di
Berlusconi, nella rete nel caso dei Cinque Stelle. Melenchon in Francia
distingue tra sovranità popolare, quella della rivoluzione del 1789, e
sovranismo che sarebbe un concetto di destra; tra l’ideale di «nazione» e
quello di «nazionalismo in quanto etnicismo».
In
questo e in altri casi, come tra i bolivariani sudamericani, non si riflette
mai abbastanza sul fatto che, nel populismo, comandano solo i dominanti e i
ricchi che parlano in nome dei molti.
È
anche possibile che questa idea di «populismo» produca un contraccolpo sui
movimenti, in particolare sull’immigrazione, amplificando un senso comune
xenofobo e razzista. Un rischio che si intravede anche nel Labour inglese o
nella Linke tedesca. Come spiega questa ambivalenza?
Esistono
due idee che non toglieremo mai alla socialdemocrazia, erede del «secolo
breve»: la proprietà e il confine. È un batterio letale, oggi impiantato nel
cuore dell’Europa, quando si ergono muri o si spostano i confini oltre il
Mediterraneo mandando a morire i migranti nei Lager in Libia.
Rousseau
diceva che il più grande delinquente che sia nato è quello che ha detto:
«Questa cosa è mia». Ma esiste un delinquente ancora più grande, Romolo, che
disse «Questo confine è mio». Sono la stessa cosa: proprietà e confine.
La
socialdemocrazia ha maturato questa cultura dopo il 1848, con la rivoluzione
romantica. Penso a Mazzini: lui è stato, da questo punto di vista, il primo
socialdemocratico: sosteneva la repubblica popolare e la centralità nazionale,
due elementi che hanno sempre avuto una sintesi reazionaria, nazional-popolare.
La seconda Internazionale socialista fu attraversata da questo spirito contro
l’internazionalismo comunardo e cercò di coniugare nazionalità e rivoluzione.
Di
contro, il bolscevismo è stato formidabile dal punto di vista della rivoluzione
mondiale perché ha unificato comunismo, anti-imperialismo e anticolonialismo.
La tragedia dell’anticolonialismo è stato il ritorno del nazionalismo.
Ciò
ha comportato un errore di rilievo, e ancora oggi ricorrente nelle politiche
centriste variamente declinate: pensare che l’alleanza del proletariato con le
classi medie e progressiste sia un passaggio strategico, e non meramente
tattico. Le declinazioni del populismo attuale ripetono lo stesso errore:
pensano che il concetto di nazione cancelli quello di classe. È un problema con
il quale ci dovremo ancora confrontare.
Sempre
più spesso si sente dire che l’alternativa al neoliberismo e alla crisi è il
lavoro, la piena occupazione, il keynesismo, le nazionalizzazioni. È una
soluzione?
Sono
ipotesi che restano confinate nell’agonia del «secolo breve» in cui ancora ci
troviamo. Discutiamo ancora di alternative che sono distrutte: socialismo
statale e nazionale e liberismo proprietario e privato. Restiamo ostaggio della
distinzione tra privato e pubblico e non vediamo cosa gli è passato sotto, e
attraverso, tra il Novecento e oggi.
E
che cosa è accaduto?
La
disfatta dell’ideologia del privato e del pubblico a causa della trasformazione
del modo di produzione. Esiste un nuovo assemblaggio delle forze produttive
determinato dalla trasformazione del lavoro che lo ha reso comune e
singolarizzato, togliendolo al privato e al pubblico. È una forza-lavoro che
funziona solo in modo cooperativo. Cioè in maniera sempre più comune. Oggi il
problema è l’organizzazione della produzione sociale e la distribuzione del
reddito, non il pieno impiego.
La
distinzione tra lavoro/impiego e nuova capacità lavorativa e cooperativa è
l’elemento centrale del dibattito e comporta radicali conseguenze di carattere
fiscale, politiche sociali, industriali profondamente diverse rispetto al
passato.
A
sinistra e nel sindacato si sostiene che uno Stato «innovatore» sarà capace di
creare tecnologie rivoluzionarie nella green economy, le telecomunicazioni,
nanotecnologia o farmaceutica. Le nuove istituzioni di cui parlate nel libro
passano dallo Stato e in che rapporto stanno con questa categoria che torna ad
avere successo?
Ben
venga questo Stato, gli faccio gli auguri. Mi si permetta tuttavia di notare
che questi settori sono sul mercato, organizzate come macchine di estrazione
del valore prodotto socialmente, e in questa figura protette, pur malamente,
dallo Stato.
In Assembly,
ci chiediamo se queste meraviglie possano essere sottoposte a scelte e
decisioni democratiche. Rispondiamo di no. Finché non sarà riconosciuto il
regime di sfruttamento estrattivo e proprietario (brevetti, rendite finanziarie,
organizzazioni monetarie) in cui queste industrie operano, e fino a quando a
questo riconoscimento non segua un processo democratico di riappropriazione dei
beni comuni.
Ormai
è tempo di riappropriazione del comune da parte dei suoi produttori, e di
ri-orientamento democratico della gestione del comune: non è lo Stato, ma sono
i produttori che devono dire a cosa servono queste tecnologie e quali vantaggi
recuperane o quali svantaggi scontare.
La
forza lavoro è sempre più organizzata dalle piattaforme digitali: Uber,
Deliveroo oppure Task Rabbit. Il potere dei «signori del silicio» è così ampio
da spingere a credere che dall’algoritmo passi un’idea popolare, e trasparente,
della democrazia. A questo porterà la rivoluzione digitale?
In
queste piattaforme i lavoratori non pensano di usufruire di un più alto grado
di democrazia! E lottano e resistono allo sfruttamento bestiale.
È
importante tuttavia che si ponga il problema: è possibile rovesciare il
funzionamento dell’algoritmo di comando delle piattaforme digitali? Lungi
dall’immaginare utopici rovesciamenti delle piattaforme digitali in circuiti
cooperativi, sarà possibile dominare quei mostri solo smantellando le
condizioni politiche nelle quali l’algoritmo è imposto: quelle del diritto
privato e della sua legittimazione statale.
Mark
Zuckerberg di Facebook ha ammesso l’importanza del reddito di base. Sarà la
Silicon Valley a realizzare quella che è definita un’utopia concreta?
Zuckerberg
ci obbliga a studiare le forme nelle quali le tecnologie e l’attività
lavorativa s’intrecciano nella produzione e nell’uso dei social media. È là, in
quello spazio, che paradossalmente ci indica la possibilità di far rinascere la
democrazia. Credo che questo spazio sia quello sul quale va riaperta la ricerca
dei rivoluzionari: è lo spazio che, mutatis mutandis, 150 anni fa, Marx
analizzò nel primo volume de Il Capitale.
È
là, dove l’uomo s’incontra con lo sfruttamento di nuove macchine e di nuovi
padroni, che rinasce la classe e si propone la rivoluzione.
Insomma
lei è convinto che solo un reddito di base ci salverà?
Ma
no, è ovvio che in sé non può risolvere il problema. È l’elemento preliminare,
e comunque centrale, per la riorganizzazione sociale fondata sul comune e sul
superamento delle categorie della proprietà privata e pubblica. È sul terreno
finanziario che bisogna confrontarsi.
Il
problema è il comando della finanza. Il palazzo d’Inverno oggi sono le banche
centrali.
Ottantaquattro
anni scanditi dal rapporto con il movimento operaio e quelli sociali.
Politica,
ricerca, conflitti, l’arresto avvenuto il 7 aprile 1979 insieme a centinaia di
militanti di «Autonomia Operaia» nell’ambito del «teorema Calogero», definito
da Rossana Rossanda su Il Manifesto «un’operazione politica bassa, la più bassa
della magistratura della repubblica».
Oggi
Negri è uno dei filosofi politici più influenti, autore di oltre 60 libri,
tradotto in molte lingue. Con Michael Hardt ha scritto da «Il lavoro di
Dioniso» (Manifestolibri, 1995) a «Assembly» (Oxford University Press, 2017). E
poi «Impero» (Rizzoli, 2001), «Moltitudine» (Rizzoli, 2004), «Comune» (Rizzoli,
2010), «Questo non è un manifesto» (Feltrinelli, 2012)
intervista è stata pubblicata sul manifesto- edizione
del 04.11.2017
rilasciata
in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro "Assembly"
scritto con Michael Hardt. A cento anni dalla rivoluzione sovietica, a
cinquanta dal Sessantotto, uno dei filosofi più discussi al mondo propone una
politica oltre i populismi