-ANTONIO LUCCI-
la causa e la colpa sono due concetti che non appartengono all’edificio del
diritto, ma permettono l’entrata in esso, il suo stesso costituirsi / ma come
avviene questo costituirsi? Avviene attraverso il concetto di “pena” / non
esiste colpa senza la corrispondente pena / solo l’esistenza di un ordinamento
giuridico stabilisce la sanzione di un’azione ritenuta una colpa/
al di fuori dell’edificio del diritto
non esiste alcuna colpa, ma solo una radicale innocenza del vivente in quanto
tale / la colpa esiste come tale solo in virtù della pena che la sancisce…per
questo la sanzione è così importante all’interno dell’edificio del diritto
/ la colpa sarebbe, dunque, il fatto costitutivo della legge… sconvolgente immanenza e arbitrarietà radicale che unisce ambiguamente in sé giustizia e violenza / non esistono colpe, ma solo azioni sanzionate… azioni innocenti che perdono la loro innocenza solo nel momento in vengono dichiarate colpevoli
/ la colpa sarebbe, dunque, il fatto costitutivo della legge… sconvolgente immanenza e arbitrarietà radicale che unisce ambiguamente in sé giustizia e violenza / non esistono colpe, ma solo azioni sanzionate… azioni innocenti che perdono la loro innocenza solo nel momento in vengono dichiarate colpevoli
Sebbene Giorgio Agamben abbia dichiarato chiuso, nel 2014, il suo progetto
ventennale di un’archeologia della politica e del diritto, che ha preso il nome
di Homo sacer, con la pubblicazione del volume l’Uso dei corpi,
la sua produttività non è affatto diminuita, e il nuovo testo dell’autore
romano, Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto,
uscito recentemente per i tipi Bollati Boringhieri, ne è – non lo fossero stati
abbastanza i testi usciti in precedenza, dedicati, tra gli altri, a Majorana, a
Pulcinella, e alle proprie vicende biografiche – l’ulteriore riprova.
Se si volesse speculare, si potrebbe addirittura arrivare a sostenere che
questo volume potrebbe occupare il posto vuoto lasciato enigmaticamente da
Agamben nella posizione II.4 del suo progetto.
In Karman Agamben presenta al contempo una summa dei
motivi portanti del suo pensiero e una loro evoluzione in una direzione
inedita. Come il sottotitolo indica, l’azione, la colpa e
il gestosono le tre grandi categorie oggetto dell’analisi
agambeniana.
Queste vengono analizzate tramite gli strumenti teorici che hanno reso
famoso il filosofo (e spesso gli hanno attirato critiche anche feroci): la
filologia storica, il diritto (Agamben ha alle spalle una formazione
universitaria da giurista, fatto che non va mai dimenticato quando si leggono i
suoi lavori), e – ovviamente – la filosofia.
Nel primo capitolo del testo, La causa e la colpa, Agamben
parte proprio – come spesso è solito fare – da un’analisi filologica, che
rivela l’originaria oscurità etimologica (e parentela concettuale) dei termini
in questione: la causa non sarebbe altro che una precisa “cosa” nell’atto in
cui essa viene inclusa nell’ambito del diritto (p. 14). È proprio in queste
pagine che si delinea la tesi di base di Agamben: la causa e la colpa sono due
concetti che non appartengono all’edificio del diritto, ma permettono l’entrata
in esso, il suo stesso costituirsi (p. 16).
Ma come avviene questo costituirsi? La risposta del filosofo è che esso
avviene attraverso il concetto di “pena” (p. 17).
Ricordando che con “pena” indichiamo sia il “prezzo da pagare” per
un’azione extralegale, che una sofferenza senza spiegazione, Agamben si
richiama al giurista tedesco Carl Schmitt (p. 22) per evidenziare come non
esista una colpa senza la corrispondente pena. Quella che in apparenza potrebbe
sembrare un’affermazione banale, in realtà contiene in sé un portato radicale:
è solo l’esistenza di un ordinamento giuridico che stabilisce come sanzionabile
un’azione, che rende quest’azione una colpa. Al di fuori dell’edificio del
diritto non esiste alcuna colpa, ma solo una radicale innocenza del vivente in
quanto tale.
La colpa esiste come tale solo in virtù della pena che la sancisce. È per
questo che la sanzione è così importante all’interno dell’edificio del diritto.
Richiamandosi ancora una volta all’origine etimologica del termine, Agamben –
sulla scorta del linguista francese Emile Benveniste – ritrova l’origine del
concetto di “sanzione” in “sanctus” (e non – come un lettore di Agamben si
aspetterebbe – in “sacer”, p. 32), termine che indica un’interdizione
totalmente (legata a una legge) umana, in cui il fattore religioso non gioca
alcun ruolo. La sanzione sarebbe dunque il modo in cui gli uomini puniscono –
entro il recinto giuridico dei fatti umani – la colpa: essa sarebbe, dunque, il
fatto costitutivo della legge.
Questa sconvolgente immanenza e arbitrarietà radicale della legge – che
unisce ambiguamente in sé sempre la giustizia alla violenza – si vede in
maniera chiara in quella che comunemente viene chiamata “legge del taglione”.
La parola “taglione” trova la sua origine nella parola latina “talis” (da cui
l’italiano “tale”): a una precisa azione criminosa corrisponde esattamente –
tale e quale – la stessa azione come sanzione, la quale, però, in quanto
inclusa nell’edificio del diritto, è permessa (p. 38). Questo rende evidente –
agli occhi di Agamben – come non esistano colpe, ma solo azioni sanzionate,
ossia azioni innocenti che perdono la loro innocenza solo nel momento in
vengono dichiarate colpevoli. “Tutto è bene”, come sentenziava Edipo nel
momento di massima accettazione della tragicità del proprio destino, o meglio,
“ogni azione è di per sé innocente”, se volessimo forzare in direzione
agambeniana la sentenza edipica.
Che la legge culminante in una sanzione sia la legge migliore è, però,
tanto comunemente dato per scontato quanto cosa dubbia, come ricorda Agamben
sulla scorta del giurista romano Ulpiano (pp. 42-43). E non è affatto da
sottovalutare che già il diritto romano – vale a dire la struttura portante del
nostro ordinamento legale moderno – abbia posto un serio dubbio sulla
legittimità della sanzione come mezzo di correzione legale.
La necessità di ripensare i limiti delle nostre definizioni di causa e di
colpa, e del conseguente edificio del diritto, viene avanzata da Agamben nei
capitoli 2 e 3 del suo testo, rispettivamente intitolati Crimen e
Karman e Le aporie della volontà.
Se però il lettore esperto di Agamben, nel primo capitolo, ha trovato i
riferimenti teorici a cui è stato abituato dal filosofo romano (il diritto,
Franz Kafka, i giuristi Yan Thomas, Carl Schmitt e Hans Kelsen), in questi due
capitoli va incontro a una sorpresa: i punti di riferimento concettuali
dell’autore cambiano, diventando – per chi conosce Agamben – alquanto inusuali.
Lo studio dell’etimologia latina lascia il posto a quella sanscrita, e l’amato
(noto e spesso “saccheggiato” da Agamben) Emile Benveniste al meno conosciuto
Adolphe Pictet, autore di un poco noto quanto affascinante Les origines
indo-européennes. Essai de paléontologie linguistique. Questo è il ponte
che permette ad Agamben di allargare le sue analisi di filologia storica, ma
pure di operare una sorta di “passaggio a Oriente” filosofico, andando a
descrivere alcuni momenti portanti della filosofia buddhista. Il motivo del
movimento teorico agambeniano è il ritrovare l’origine del latino crimen (da
cui il nostro “crimine”) nel sanscrito karman, che per i buddhisti
indica la volontà, l’intenzione dietro all’azione (p. 49). Secondo Agamben è
chiaro che l’intera struttura teorica dell’insegnamento buddhista si basa sul
fatto che «karman significhi crimen, che vi sia, cioè,
qualcosa come un’azione imputabile e produttrice di conseguenze» (Ivi).
La conseguenza di questa idea dell’azione come crimine, e del crimine come
frutto di un’intenzione, sarà decisiva per l’idea di soggetto che sta alla base
dell’edificio della filosofia (in particolare di quella occidentale). L’idea
che esista un’azione imputabile, infatti, secondo Agamben porterà alla formulazione
del concetto di volontà, che non è altro che lo strumento teorico tramite cui
un’azione può essere legata inscindibilmente a un soggetto. A livello
filosofico vale la pena qui notare un’evoluzione del pensiero agambeniano che
già era all’opera ne L’uso dei corpi (e in generale in
quest’ultima fase della sua produzione): una progressiva critica ad Aristotele
(che – nei decenni scorsi – era sempre stato, invece, un punto di riferimento
“in positivo” per il filosofo romano) e un parallelo progressivo avvicinamento
a Platone. Se, infatti, «appartiene alla più profonda intenzione del pensiero
platonico il tenace, inflessibile – e, per un greco, quasi impensabile –
tentativo di identificare altrove che nell’azione il luogo dell’etica e della
politica» (p. 61), significa che Platone ha cercato progressivamente
(ponendosi, in questo, dalla parte di Buddha), di situare il bene dell’uomo
dalla parte dell’Essere e della contemplazione, mentre invece Aristotele è
colui che si è posto dalla parte dell’azione e del divenire. Questa dicotomia
(essere/divenire, che si rispecchia in quella contemplazione/azione) è
l’oggetto delle analisi del capitolo 3 del libro, che racconta la storia del
passaggio dal mondo antico a quello cristiano come la storia – tramite Aristotele
– della creazione del concetto di volontà (p. 82). La volontà, come accennato,
non sarebbe nient’altro che il dispositivo filosofico che aggancia l’azione al
soggetto, facendo di questo il responsabile (imputabile, quindi sanzionabile)
dei propri atti (p. 127). Ed è per questo che bisogna andare – come indica il
capitolo conclusivo del libro fin dal titolo – Al di là dell’azione.
Lo sparring partner di Agamben è qui sempre Aristotele,
per cui «l’azione umana appare come la dimensione che si apre in vista del
bene» (p. 104). Questo, però, presuppone che tra l’uomo e il suo bene ci sia
«una frattura» (p. 105). Per questo, l’uomo, secondo Aristotele, deve agire:
perché egli non è il bene, deve attuare il
bene. E questa necessità di attuare il bene, per Agamben, è il retaggio che
Aristotele lascia in mano al Cristianesimo e all’Occidente tutto: il bene è
qualcosa che va ricercato, che deve essere voluto, e non qualcosa che giace
nell’essenza dell’uomo. Se Goethe, all’inizio del Faust, ha potuto
sostenere che «In principio era l’azione», lo ha potuto sostenere solo perché
si muoveva in un orizzonte concettuale profondamente segnato dalle coordinate
etiche aristoteliche.
Contro Aristotele vengono fatti giocare da Agamben Platone e Schopenhauer
(e, in parte, Kant, tramite un’ardita torsione teorica): ancora una volta due
referenti che nell’arco filosofico del pensatore romano stanno prendendo
progressivamente sempre più importanza, soprattutto rispetto a una relativa
assenza nella produzione passata. In particolare Platone, che evidenzia come
nella vita – e nella politica – sia decisiva la dimensione (e la metaforica)
del gioco: l’attività senza fine per eccellenza. E insieme a Platone – con un
ruolo addirittura più importante – Buddha (p. 128): è, infatti, stato il
buddhismo il tentativo più grandioso di liberare il soggetto dalla catena che
lo lega ai due poli della volontà e dell’azione. La rivelazione di Buddha
sarebbe in questo senso il tentativo di rendere il soggetto quello che è
indipendentemente da quello che fa, di sciogliere il nodo scorsoio che consiste
nell’identificazione azione-soggetto. Non necessariamente un uomo che fa il
male è malvagio, così come un’azione buona non rende chi la compie, di per sé,
buono. La colpa, il crimen, è sempre legata all’azione, ma non
necessariamente al soggetto, che deve liberarsi di essa, e dell’idea di essere
un polo generatore di azioni, che a sua volta viene generato retroattivamente
da esse.
La conclusione di Agamben è legata a un suo vecchio tema (il testo Note
sul gesto, pubblicato nella raccolta Mezzi senza fine del
1996, risale addirittura al 1992), quello – appunto – del gesto.
Il referente teorico a cui si agganciano le analisi sul gesto di Agamben,
oltre alla dottrina buddhista, è il suo amato Walter Benjamin, e in particolare
il Benjamin di quel testo del 1921 –Sulla critica della violenza –
a cui Agamben aveva dedicato già uno dei suoi primissimi scritti giovanili, il
saggio Sui limiti della violenza del 1970. Come già nel 1970,
e a più riprese nel corso del suo lavoro filosofico (come ad esempio nella
parte centrale di Stato di eccezione), ad Agamben interessa il
tentativo di Benjamin di scollegare l’azione umana dal circolo mezzi-fini, in
modo da pensare un’azione “pura”, che abbia il proprio fine in sé. Il paradigma
di quest’azione pura sarebbe per l’Agamben di Karman, appunto, il
gesto, quale ad esempio si dà nelle cosiddette “arti performative” (p. 131).
Questo sarebbe un «terzo modo dell’attività umana» (p. 137), oltre la
prassi e la produzione, «un’attività o una potenza che consiste nel disattivare
e rendere inoperose le opere umane e, in questo modo, le apre a un nuovo,
possibile uso» (p. 138).
È proprio su queste analisi sul gesto – che resta in qualche maniera un
oggetto filosofico non completamente esplicitato né identificato dal filosofo
romano – che si chiude Karman, che di certo rappresenta
un’interessante sviluppo nel percorso di pensiero di uno dei più importanti
filosofi viventi, e – a parere di chi scrive – un parziale punto di svolta nel
suo stesso orizzonte teorico, grazie all’inserimento dell’inedito elemento
filosofico orientale.