-F.VIZZI / A.O. GARNERO-
Al
di là di ogni pregiudizio che grida allo scandalo, Segato ha proposto una
analisi profonda sulla violenza mortale contro le donne, intendendo il
femminicidio come una problematica che trascende i generi per convertirsi in un
sintomo o, per meglio dire, in un’espressione di una società che ha bisogno di
una “pedagogia della crudeltà” per distruggere e annullare la compassione,
l’empatia, i legami e i vincoli locali e comunitari.
Vale a dire tutti quegli
elementi che diventano un ostacolo in un capitalismo “predatorio”, che dipende
da quella pedagogia della crudeltà che insegna. È in questo senso che
l’esercizio della crudeltà sul corpo delle donne, che si estende anche a
crimini omofobici o transfobici, tutte queste violenze “non sono altro che
l’insegnamento che le forze patriarcali impongono a tutti noi che abitiamo su
questo margine della politica, dei crimini del patriarcato coloniale moderno di
alta intensità contro tutto ciò che lo destabilizza”(*). In questi corpi si
inscrive il messaggio educativo che questo capitalismo patriarcale di alta
intensità ha bisogno di imporre a tutta la società.
Non
è facile intervistare Rita, una specie di vortice, in grado di collegare con
estrema chiarezza e sottigliezza gli argomenti più complessi. Si prende il suo
tempo per rispondere, analizza ogni domanda, la snocciola, approfondisce e
torna nuovamente su ogni concetto. Ha il proprio ritmo e può essere una sfida.
–
Nel quadro dell’allarmante aumento dei casi di violenza di genere, potrebbe approfondire
il concetto che ha sviluppato secondo il quale la violenza letale contro le
donne è un sintomo della società?
La
disuguaglianza di genere, il controllo sul corpo della donna, dal mio punto di
vista, ci sono altre femministe che non sono d’accordo, accompagnano la storia
del genere umano. Solo che, contrariamente a ciò che pensiamo e quello che io
chiamo pregiudizio positivo in relazione alla modernità, immaginiamo che
l’umanità cammini nella direzione opposta. Ma i dati non lo confermano, al contrario,
sono in aumento. Quindi abbiamo bisogno di capire quali sono le circostanze
storiche del contesto. Una delle difficoltà, tra i limiti del pensiero
femminista, è credere che il problema della violenza di genere sia un problema
tra uomini e donne. E in alcuni casi persino tra un uomo e una donna. E
credo che sia un sintomo della storia, degli eventi che attraversano la
società. E a questo punto sollevo la questione della precarietà della
vita. La vita è diventata immensamente precaria, e l’uomo, che per il suo
imperativo di virilità, ha l’obbligo di essere forte, di
essere potente, ma non ce la fa più e ha molta difficoltà ad
esserlo. E queste difficoltà non hanno a che fare, come si
dice generalmente, con il fatto che sia influenzato dall‘emancipazione delle
donne, che è un argomento che è stato molto usato, ovvero che le donne
si sono emancipate e il ruolo degli uomini si è indebolito e per questo
reagiscono così… No. quello che indebolisce gli uomini, che li rende
soggetti precari e impotenti è la mancanza di lavoro, la precarietà del lavoro
quando lo hanno, la precarietà di tutti i legami, lo sradicamento in diversi
modi, lo sradicamento dal contesto comunitario, familiare, locale… insomma,
il mondo si sta muovendo in un modo che non possono controllare e li lascia in
una situazione precaria, ma non come un risultato dell’emancipazione delle
donne, bensì come una conseguenza della precarietà della vita, dell’economia,
dell’avere difficile accesso alla formazione, allo studio e alle varie forme di
welfare. E questo è collegato a un’altra cosa che intendo ribadire: ci sono
forme di aggressione tra uomini che sono anch’esse violenza di genere. Io
dico che gli uomini sono le prime vittime dell’imperativo della mascolinità.
Con questo non sto dicendo che sono vittime delle donne e voglio spiegarlo
chiaramente perché molte volte mi è ha capitato di essere fraintesa. Sto
dicendo che sono vittime di un imperativo di mascolinità e di una struttura
gerarchica quale è la struttura della mascolinità. Sono vittime di altri
uomini, non delle donne. E anche questo voglio che sia chiaro, non
è che l’uomo sia diventato un soggetto impotente perché le donne si sono
emancipate, bensì è diventato impotente perché la vita è diventata precaria e
ciò lo rende impotente.
Per
questo, soprattutto in Spagna, in un primo momento, quando nelle prime campagne
per i diritti delle donne iniziarono ad apparire in televisione quelle donne
che venivano picchiate, fu molto forte ed fece molto scalpore. Affermare
che la violenza domestica è un crimine penso sia stato il più grande passo
avanti della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di
discriminazione contro la donna (CEDAW), vale a dire, che qualcosa
che è ritenuta un’abitudine può essere un crimine. È molto difficile,
soprattutto nel campo del diritto, fare un passo del genere, perché il diritto
è come la santificazione di tutto ciò che è costume in forma di legge. Ma la
CEDAW dice che questa pratica è un crimine, non può essere trasformata in
legge. In questo caso si è andati nella direzione di comprendere che la
violenza domestica, lo stupro domestico sono un crimine. Ora, ciò che dà a noi un
modello, una luce per capire meglio tutto questo discorso, è che quando
c’è una morte, quando viene ritrovato un corpo, una donna assassinata non c’è
mai niente di naturale, né prima, né ora, né mai. E lì vediamo che c’è una
difficoltà da parte della legge e dello Stato di avanzare in questo campo.
Perché, senza alcun dubbio, sono in continuo aumento i casi di femminicidio, è
un vero e proprio genocidio di donne che viviamo in vari modi. E questo lo
sappiamo perché ormai abbiamo più di dieci anni di dati statistici raccolti
nella maggior parte dei paesi. E per di più gli avanzamenti in ambito legale e
forense supportano questa affermazione.
-Lei
sostiene che lo stupro è un atto disciplinare, un crimine di potere. Cosa c’è
in gioco per l’aggressore sessuale in questo caso?
Beh,
questo concetto è estremamente complesso. È molto difficile per la società
comprendere a cosa mi riferisco. Molte persone per bene, con un alto senso
morale, reagiscono contro di esso e cercano di differenziarsi in fretta da quel
soggetto che considerano anormale, criminale, immorale, insomma tutto il male
che si deposita su quel soggetto, su quel capro espiatorio quale è
l’aggressore… e gli altri uomini si salvano dicendo “io non sono così”. Io su
questo ci metto un punto interrogativo. Io credo che
quell’ultimo gesto, che è un crimine, è il prodotto di un certo numero di gesti
minori che si trovano nella vita quotidiana e non sono reati, ma che sono
anch’essi aggressioni. E costruiscono un terreno fertile per provocare
quest’ultimo grado di aggressione che è riconosciuto come un crimine… ma
che mai accadrebbe se la società non fosse così come è. Può esserci
l’aggressione di uno psicopatico, ma il maggior numero di stupri e aggressioni
sessuali sulle donne non sono fatte da psicopatici, ma da persone che
sono in una società che pratica l’aggressione di genere in mille modi, che non
possono mai essere riconosciuti come crimini. È per questo che la mia
tesi non è un argomento anti-punitivista nella forma classica, nel senso che
non si deve punire o condannare. Ci devono essere leggi e sentenze che solo in
alcuni casi arrivano a concretizzarsi. Ma nei nostri paesi soprattutto, nel
mondo intero, ma specialmente in America Latina, di tutti gli attacchi contro
la vita, non solo riguardo alla violenza di genere, ma tutti in generale,
arrivano ad avere una sentenza di giudizio solo una piccolissima percentuale.
L’efficacia materiale del diritto è una finzione, si tratta di un sistema di
credenze, noi crediamo che il diritto conduce ad una condanna. Però è chiaro
che devono esistere il diritto, l’intero sistema giuridico, il giusto
processo e la punizione. Quello che dico è che la punizione, la
sentenza non risolvono il problema perché il problema si risolve a un livello
più basso, dove avviene il gran numero di aggressioni che non sono reati, ma
che contribuiscono a rendere l’aggressione una normalità. Nessuno avrebbe preso
questa strada se non ci fosse un terreno fertile.
–
E perché alcuni uomini prendono questo percorso e altri no? Perché se si
tratta di un problema sociale non influisce su tutti allo stesso modo?
Beh,
perché siamo tutti diversi… io non posso rispondere a questa domanda ma quello
che ti posso assicurare è che i tassi sarebbero inferiori se
attaccassimo la base, vale a dire, le abitudini, le pratiche comuni. Non mi
riferisco neanche a una cultura dello stupro, della quale si parla
molto, in particolare in Brasile. Si parla molto di una cultura violadora.
Va bene, ma attenzione perché il culturalismo nell’affrontare questi argomenti
gli conferisce una cornice di “normalità”, di abitudine. Così come si fa con il
razzismo, per esempio… è un’abitudine. Ho molta paura di quelle parole che
finiscono per normalizzare questi problemi.
–
In relazione a questo argomento, che lo stupro è un crimine di potere, un atto
disciplinare, la questione viene trattata allo stesso modo nel caso di abusi
sui minori? Poiché i bambini sono di solito abusati per lo più nei rapporti
domestici o da membri delle immediate vicinanze della famiglia, si può dare la
stessa lettura del fenomeno oppure occorre una analisi distinta?
Penso
che serva una analisi diversa, perché se entra in qualche modo in gioco la
libido in una forma tale che non credo che entri nella violenza sulle donne.
Non ho approfondito molto questo argomento ma quello che posso dire al riguardo
è che l’aggressore, lo stupratore, l’assediante in casa lo fa perché
può. Perché esiste anche un’idea di paternità che deriva da una antica
genealogia, che è il pater familias, come è nel Diritto
Romano, che non era un padre come lo intendiamo oggi, una relazione parentale.
Il padre era il proprietario della donna, dei figli e degli schiavi, tutti allo
stesso livello. Quindi questo che già non è più così, ma che nella genealogia
della famiglia, come noi la intendiamo, persiste… la famiglia occidentale, non
la famiglia indigena. La famiglia occidentale che ha alla sua base nella sua
origine l’idea di proprietà delpadre. Quindi questo è ancora molto
evidente. Ho studenti che hanno lavorato su questo tema. Ad esempio, il caso di
un pastore evangelico che ha violentato le sue figlie, e ciò che emerge da
questo studio è che l’uomo, nella sua interpretazione, era il proprietario di
quei corpi. Questo è qualcosa che non è rimasto nella legge, ma sì nel
costume. E anche lo stupratore è qualcuno che deve mostrarsi
proprietario, capace di avere sotto controllo i corpi. Quindi lo stupratore
domestico è qualcuno che accede a questi corpi, perché li considera di sua
appartenenza. E lo stupratore di strada è qualcuno che deve dimostrare ai suoi
pari, agli altri, ai suoi amici, che egli è in grado di farlo. Essi sono
varianti dello stesso principio che vede il possesso maschile in quanto
proprietà, in quanto necessariamente potente, in quanto proprietario della
vita.
–
Secondo la sua esperienza, lo stupratore può essere recuperato in qualche modo
con il carcere o con qualche cura?
Non
ho mai visto un lavoro di riflessione, non lo possiamo sapere perché il lavoro
che dobbiamo fare nella società, che è in primo luogo capire e poi riflettere,
non è mai stato fatto. Solo dopo aver terminato il lavoro che ancora deve
essere fatto nel sistema penitenziario, possiamo arrivare a quel punto. Non ci
sono abbastanza elementi. Non sto parlando di psicopatici. Perché, a differenza
di quello che dicono i giornali, la maggior parte delle violenze
sessuali non sono perpetrate da psicopatici. La maggioranza degli stupratori
sono soggetti ansiosi di dimostrare di essere uomini. Se non si capisce il
ruolo dello stupro e il massacro di donne nel mondo odierno, noi non troveremo
soluzioni.
Rimangono
molte questioni in sospeso… parlare, ad esempio, del ruolo dei media che,
attraverso le loro parole, contribuiscono a mostrare pubblicamente
l’aggressione alle donne fino alla nausea, rendendo la vittimizzazione delle
donne uno spettacolo del fine serata o del dopo messa, riproducendo fino alla
nausea i dettagli scabrosi e agendo cosi come il “braccio ideologico della
strategia della crudeltà”… Queste e molte altre. Ma ci sarà un’altra occasione.
La aspettiamo.
Rita
Segato è dottora in antropologia e ricercatrice. Probabilmente è una delle più
lucidi pensatrici femministi della nostra epoca. E forse di tutti i tempi. Ha
scritto innumerevoli lavori a partire dalle sue ricerche sugli stupratori nel
penitenziario di Brasilia, come esperta di genere e di antropologia nello
storico processo del Guatemala in cui i membri dell’esercito sono stati
giudicati e condannati per la prima volta per i crimini di schiavitù sessuale e
la violenza domestica contro le donne Maya del gruppo etnico Q’eqchi ed è stata
convocata a Ciudad Juárez per esporre la sua interpretazione sulle centinaia di
femminicidi perpetrati in quella città. Il suo curriculum è lungo e
impressionante
l’intervista alla studiosa femminista
argentina Rita Segato realizzata il mese scorso dalla rivista online Conclusion il 23 agosto 2017, col titolo "Una falla del pensamiento feminista es creer que la violencia de género es un
problema de hombres y mujeres”, è stata ripresa da liberamentedonna.it per la traduzione di Roberta Pompili. L’antropologa,
che partecipa attivamente alla rete femminista NI UNA MENOS in latinoamerica,
sarà presente in Italia i primi di dicembre per impegni con l’Università degli
Studi di Perugia e parteciperà in quegli stessi giorni a Perugia al Convegno
sulla violenza di genere organizzato dai Centri Antiviolenza dell’Umbria.
*Estratto
del libro “La guerra contra las mujeres”, de Rita Segato