-GIGI
ROGGERO-
rompere la separazione fra linguaggio
e rivoluzione fra arte e vita
/sintetizzare i bisogni e le tendenze presenti nella realtà materiale di lavoro e vita /vivere la mutazione secondo un’intenzione libertaria / ovvero l’espandersi del possibile e il recedere del necessario
/sintetizzare i bisogni e le tendenze presenti nella realtà materiale di lavoro e vita /vivere la mutazione secondo un’intenzione libertaria / ovvero l’espandersi del possibile e il recedere del necessario
Nella
sua breve prefazione della voluminosa raccolta di saggi Quarant’anni
contro il lavoro, Franco Berardi svela da dove viene quel nomignolo che,
insieme appunto alla lotta contro il lavoro, ha segnato la sua vita. Glielo ha
dato suo cugino Angelo, di qualche anno più grande, prendendo la prima e
l’ultima lettera del cognome e del nome: ecco qua Bifo. In greco significa dire
due volte, come scoprirà Franco in seguito. E quella doppiezza, quel parlare
con una lingua biforcuta, se la porterà dietro per sempre.
La
raccolta di saggi, evidenziando il percorso e i suoi cambiamenti, le solide
continuità e le necessarie discontinuità, i salti e i tentativi, ci mostra con
chiarezza i tre fondamenti su cui poggia la linea di sviluppo del suo pensiero
e della sua prassi: il metodo composizionista, il rifiuto del lavoro, la
ricerca dell’autonomia. È noto il Bifo degli anni ’70, quello di A/traverso
e del maodadaismo, cioè la combinazione tra il dadaismo, che “voleva
rompere la separazione fra linguaggio e rivoluzione, fra arte e vita”, e il
maoismo, inteso “come capacità di sintetizzare i bisogni e le tendenze presenti
nella realtà materiale di lavoro e vita”. È lì che la rigidità della struttura
viene rovesciata nella processualità della composizione, l’alienazione in
rifiuto, l’estraniazione in autonomia.
Nel
decennio successivo quell’esperienza viene ripercorsa senza mai voltarsi
indietro, senza mai “adeguarsi ai tempi mutati”. Scrive nel 1987: “Coloro che
più insistentemente avevano spinto verso la lotta armata si trasformarono in
accesi sostenitori della democrazia, e i predicatori della lotta continua si atteggiarono
a scaltri manager della politica postmoderna”. Ma non è intenzione di Bifo
individuare delle responsabilità individuali o di altri gruppi politici.
Soprattutto, non si può credere che il movimento di liberazione sia stato
sconfitto dalla repressione: “la repressione viene dopo, quando il movimento è
sconfitto” dalla sua incapacità di comprendere le forme nuove del reale. La
sconfitta si consolida poi attraverso “una precisa politica culturale che
accolse l’eredità più superficiale del ’77, e la avviò verso il suo destino
sociale di dipendenza dal mercato e dal potere”. L’immaginazione è stata
paralizzata nell’immaginario, e l’immaginario modella le immaginazioni
individuali. Così le industrie della comunicazione e della creatività si sono
riempite di intelligenze provenienti dai movimenti sovversivi. Qui e non nelle
paranoiche ricostruzioni della sinistra vanno situate le origini del
berlusconismo, che Bifo anticipava già a metà degli anni ’80.
Analogamente
il thatcherismo, il reaganismo e l’affamata bestia neoliberale sono la risposta
all’insorgenza proletaria: “Gli operai chiedevano libertà dalla regolazione
capitalista, e poi il capitale ha fatto la stessa cosa, ma in maniera
rovesciata”. Il grido “precario è bello” con cui si rompevano le catene della
fabbrica, è stato stravolto nel lamento “precario è sfigato” che è diventato il
leitmotiv dei nostri giorni. Negli anni ’90 Bifo si concentra sulla mutazione:
della tecnologia, della percezione, dell’esperienza, del tempo. Insomma,
mutazione antropologica. Accetta la sfida di attraversare il deserto, si fa
accompagnare nei tecno-abissi dal cyberpunk, si immerge con coraggio nei
territori delle psicopatologie prodotte dal capitalismo, si impegna in un
estenuante corpo a corpo con i virus inoculati dalla merce comunicazione nel
cervello sociale.
Dalla
profondità di queste altezze pone la domanda: bisogna resistere alla mutazione?
No, risponde: “dobbiamo vivere la mutazione secondo un’intenzione libertaria”.
Concordiamo con la critica di un’idea meramente reattiva della resistenza,
basata sulla riproduzione di una micro-identità debole. Vorremmo
problematizzare l’idea opposta, che rischia di farci ricadere in una narrazione
storicista e teleologica. Dobbiamo cioè evitare di pensare la tendenza in termini
di ineluttabilità, per ripensarla in termini di potenzialità. È proprio una
delle straordinarie definizioni che Bifo ci dà dell’autonomia, ossia
“l’espandersi del possibile e il recedere del necessario”.
Sullo
stesso crinale emerge un rapporto di doppiezza rispetto a sviluppo e scienza.
In fasi differenti le ipotesi di Franco sono legate alla separazione tra
sviluppo e capitale, alla pratica di un uso operaio della scienza. Talvolta si
rischia quasi una visione neutrale della scienza e dello sviluppo, subito
produttivamente contraddetta dallo stesso Bifo (si veda in particolare gli
scritti degli anni ’00, quelli in cui è incipiente il segno della crisi o
secondo lui del collasso sistemico). Forse su questo terreno dobbiamo essere
tutti un po’ “bifidi”, muoverci sul filo della doppiezza, parlare con lingua
biforcuta, immergerci nell’ambivalenza con un punto di vista irriducibilmente
autonomo.
Qui
si apre e certo non si risolve il problema della liberazione collettiva. A più
riprese e con sempre maggiore insistenza Bifo denuncia l’insufficienza di una
semplice dialettica contrappositiva. E tuttavia, ci sembra che il capitalismo
contemporaneo ci abbia mostrato come una strategia di sottrazione e secessione
priva di una capacità di rottura sia consegnata alla marginalità e alla
sussunzione (laddove la realtà del primo termine implica l’inevitabilità del
secondo). Per noi la sfida è un Vladimiro e l’altro Vladimiro,
non un Vladimiro o l’altro Vladimiro. Come ripensare oggi
“scismogenesi” e rottura della macchina? Ci pare una questione ineludibile, per
continuare a lottare contro il lavoro per i prossimi quarant’anni almeno.
Franco
Berardi, Quarant’anni
contro il lavoro
a
cura di Federico Campagna, DeriveApprodi
2017, pp.
377