mercoledì 4 ottobre 2017

abstrat/ "L’IMPATTO SOCIALE DELLA DIGITALIZZAZIONE SUI LAVORATORI"

- B. MAHNKOPF *


Ci sono buone ragioni per prevedere che l’irregolarità, la flessibilità, l’incertezza e l’imprevedibilità saranno la nuova ‘condizione normale’ del mondo del lavoro nell’era imminente del capitalismo digitale globale / dovremmo evitare di costruire il nostro futuro sullo stesso modello socio-economico ed ambientale quale quello sviluppatosi fino ad oggi/ i limiti alla crescita derivanti dagli attuali livelli di inquinamento prodotti dal capitalismo vengono ignorati / probabilmente continueranno ad essere ignorati fino a che non verrà raggiunto un “punto di non ritorno” tale da far collassare l’intero sistema economico, sociale e naturale


Tanto per cominciare, i proponenti di “Industria 4.0” promettono che i processi di routinee le attività fisicamente faticose verranno automaticamente eseguite dalle macchine, sicché gli esseri umani diverranno sempre più ‘supervisori delle macchine’ piuttosto che ‘produttori attivi’. Allo stesso tempo, le aziende si affideranno sempre meno ad una forza lavoro assunta con contratti a tempo indeterminato e, al contrario, effettueranno assunzioni on demand, ossia solo nei momenti di bisogno. Pertanto, il rapporto di lavoro subordinato finirà per trasformarsi nell’assegnazione di una mansione ed i nuovi posti di lavoro che verranno così a crearsi saranno privi di una chiara collocazione all’interno dell’organizzazione aziendale. In tal modo i legami con l’impresa saranno tagliati e i sindacati avranno difficoltà ancora maggiori di oggi a comunicare con i dipendenti e a rappresentare i loro interessi.
Tutti i lavori di routine, inclusi i processi standardizzabili e anonimi – ed i servizi digitali in particolare – diverranno soggetti a delocalizzazioni (off-shoring) e ad ulteriori pressioni al fine di aumentarne l’efficienza, mentre le attività che comportano un’interazione umana diretta saranno sempre più apprezzate. Tutto ciò comporterà anche il fatto che i servizi digitali verranno perlopiù “spezzettati” in parti sempre più ridotte cosicché il relativo lavoro potrà essere delegato ad una moltitudine di “operai virtuali”. Andrà pertanto ad espandersi il cosiddetto crowd-working ed il lavoro per mezzo di piattaforme cloud.
Come già sappiamo, analogamente a tanti altri tipi di lavoretti più o meno casuali, le retribuzioni dei lavoratori delle piattaforme cloud o dei cosiddetti “click-workers” – i quali svolgono le proprie prestazioni a cottimo – sono spesso molto basse e corrisposte in modo irregolare, mentre i lavoratori sono invisibili e isolati. Anche l’errato inquadramento dei lavoratori come ‘lavoratori autonomi’ non è un nuovo fenomeno; così come in altri settori (vestiario, costruzioni o trasporti) tale ‘falso etichettamento’ ha lo scopo di azzerare i benefits per i dipendenti, evitare il pagamento delle tasse a carico delle imprese e non rispettare le leggi sul lavoro. Inoltre, il carattere transnazionale del crowd-work rende molto più difficile individuare ed usufruire della giurisdizione nazionale preposta alla regolamentazione dei tempi di lavoro, dei salari e delle disposizioni in materia di sicurezza sociale.
Come se non bastasse, la divisione tra lavoro e vita privata sta scomparendo e ciò farà crescere nuovi fattori di stress, in particolare per le donne. Da questo punto di vista, il futuro mondo del lavoro digitale rispecchia quel “sistema di lavoro su commissione” tipico delle prime fasi del capitalismo, che permetteva ai lavoratori e soprattutto alle lavoratrici una qualche forma di flessibilità col fine di sobbarcarsi e di bilanciare il lavoro domestico e di cura, il lavoro agricolo ed i lavoretti ‘su commissione’.
Vi è poi un aspetto inerente la cosiddetta “economia dei lavoretti” (gig economy) che potrebbe diventare un problema ancora più grave e che non può che riguardare anche i sindacati. Si tratta del fatto che l’ideologia neoliberista è riuscita a catturare le menti della gente comune, specialmente dei giovani. Molti di loro si percepiscono come “micro-imprenditori” o come “padroni di sé stessi”, anche se solo in rari casi lavorano davvero autonomamente. Capita inoltre che l’inquadramento, più o meno volontario, come lavoratore autonomo non sia affatto associato alla possibilità di far carriera o di uscire da una condizione di povertà. Al contrario, sempre più spesso il lavoro formalmente non subordinato o “indipendente” è una trappola per i giovani, i quali finiscono per trovarsi rinchiusi in un circolo vizioso che comprende lavoro autonomo e spesso di scarsa qualità, pessime condizioni di lavoro ed una bassa retribuzione.
In questo contesto, abbiamo buone ragioni per prevedere che l’irregolarità, la flessibilità, l’incertezza, l’imprevedibilità e la presenza di altri svariati tipi di “rischio” saranno la nuova ‘condizione normale’ del mondo del lavoro nell’era imminente del capitalismo digitale globale. Non importa se i lavoratori verranno classificati come “precari”, come “informali”, “atipici” o come lavoratori per conto proprio. Sulla piazza del mercato globale essi saranno condannati ad un’occupazione instabile, a salari o redditi sempre più bassi e a condizioni di lavoro ancora più pericolose; non potranno godere, se non sporadicamente, delle misure di assistenza e previdenza sociale e spesso sarà loro negata la possibilità di prender parte ad associazioni e sindacati. Coloro che ancora svolgeranno il proprio lavoro in fabbriche ed uffici saranno controllati da applicazioni e algoritmi, dove quest’ultimi saranno l’equivalente della vecchia catena di montaggio – ma molto più difficili da interrompere.
In poche parole, anche in misura maggiore rispetto ad ora, la maggior parte dei lavoratori digitali saranno coloro che andranno a svolgere quelle mansioni di cui vi è di volta in volta bisogno, in modo permanente o temporaneo, ma a cui comunque sarà negata ogni protezione formale e continuativa – incluse le tutele riconosciute dalle leggi sul lavoro – durante lo svolgimento della loro prestazione. Solo una piccolissima parte della forza lavoro complessivamente impiegata – a livello globale, europeo e nazionale – riuscirà invece ad accedere a lavori regolari e regolamentati, più qualificati e meglio pagati.
Insomma, la questione cruciale non è perché la mancanza di sicurezza sta tornando a colpire anche i lavoratori delle economie avanzate di Europa e Nord America, ma come e perché è stato possibile ridurre tale insicurezza per una piccola parte della popolazione mondiale per un paio di decenni dopo la seconda guerra mondiale.
È ovvio che il crescente disordine dovuto all’attuale meccanismo di accumulazione del capitalismo globale è strettamente legato al dissolversi dello Stato come ‘mediatore’ tra capitale e lavoro nell’era del neoliberismo, un processo quest’ultimo che in tutte le parti del mondo ha contribuito alla crescita delle disparità e delle disuguaglianze. Quella in cui ci troviamo è una fase della globalizzazione di stampo oligarchico, dove solo le nazioni economicamente più forti ed il 20% più ricco della popolazione, ed in particolare l’1%, possono avere aspettative effettivamente positive, dal momento che neppure le politiche di stampo liberale a sostegno del welfare trovano più spazio sull’agenda politica. Di conseguenza, vediamo la dissoluzione delle classi e della coscienza di classe.
Certo, la tutela dei diritti dei lavoratori è rimasta relativamente più forte per i lavoratori con contratti stabili delle grandi imprese del settore manifatturiero, ma milioni di lavoratori sono intrappolati in una condizione segnata da bassi salari e scarsissime possibilità di avanzamento. In Germania questo è dovuto in parte al fatto che a metà degli anni Novanta sono state implementate, con l’appoggio dei sindacati, misure di contenimento salariale a danno dei lavoratori altamente qualificati e ciò ha contribuito a migliorare la posizione competitiva delle imprese tedesche rispetto ai suoi partner commerciali in Europa e non solo. Un altro meccanismo importante che ha permesso all’industria tedesca di battere la concorrenza delle imprese italiane, greche, spagnole e francesi è consistito nel processo di decentramento della contrattazione sindacale senza precedenti che è seguito alla riunificazione tedesca e all’accesso ad un bacino di forza lavoro a basso costo in alcuni paesi dell’Unione Europea. Ciò ha condotto a un drastico calo del costo unitario del lavoro e ad un drammatico declino della forza dei sindacati.
Inoltre, le riforme del mercato del lavoro e del sistema di welfare promosse dalla coalizione rosso-verde sotto la guida del cancelliere Gerhard Schröder nei primi anni 2000 hanno spinto milioni di lavoratori in occupazioni con bassi salari e scarse tutele, mentre al tempo stesso hanno aumentato la concorrenza tra quest’ultimi. Di conseguenza abbiamo oggi in Germania non solo un’industria piuttosto competitiva ma anche uno dei più grandi bacini in Europa di forza lavoro con basso salario. La disuguaglianza, la sottoccupazione e la povertà sono in aumento: circa 12,5 degli 80 milioni di abitanti della Germania si trovano al momento sotto la soglia di povertà relativa, ossia guadagnano meno del 60% del reddito mediano. Anziani, genitori single e ancor più bambini sono le categorie di persone per le quali è più alta la probabilità di scivolare sotto tale soglia di povertà. Una tendenza particolarmente inquietante, infine, riguarda il crescente numero di working poors, ossia di “lavoratori poveri”.
Quali lezioni possiamo apprendere dall’esempio tedesco per quanto riguarda le prossime lotte su “Industria 4.0”?
In primo luogo, dobbiamo ricordare che in una fase storica del tutto particolare (quella che si dispiega dopo la caduta del muro di Berlino e che vede l’economia mondiale in forte espansione) i sindacati hanno accettato riforme improntate all’aumento della flessibilità del mercato del lavoro, con l’effetto di favorire la parte datoriale. Questo ha portato a ridurre le ore lavorative, a rendere i lavoratori maggiormente precari ed a ridurre le loro retribuzioni. Questo insieme di misure si è rivelata molto vantaggiosa per i datori di lavoro, poiché ha contribuito ad aumentare la competitività delle loro imprese – rispetto a molti dei loro partner commerciali europei.
In secondo luogo, vi è stata una enorme mancanza di tutele a difesa dei lavoratori e dei loro delegati: a livello aziendale, con rapporti di forza sfavorevoli, i sindacati ed i rappresentanti dei lavoratori hanno dovuto contare solo su sé stessi. In questo contesto, costoro sono stati disposti ad accogliere i cambiamenti peggiorativi richiesti dai datori di lavoro – a scapito soprattutto dei lavoratori meno garantiti.
In terzo luogo, a seguito dell’euforia suscitata dalle nuove prospettive di crescita economica, anche i sindacati – insieme a mass media, mondo accademico, rappresentanti del governo e uomini d’affari – hanno accolto con entusiasmo la possibilità di conseguire grandi incrementi di produttività grazie ai processi di cambiamento tecnologico, forieri – seppur nel lungo periodo – di crescita economica e magari anche di domanda di lavoro da parte delle imprese.
Infine, soffermandoci ancora sulle le relazioni tra “Industria 4.0” e il mondo del lavoro, domandiamo: in che misura i sindacati (in Germania o altrove) dovrebbero fare affidamento su questa prospettiva, apparentemente progressista, che racconta di un tanto inevitabile quanto desiderabile futuro digitalizzato dell’industria? Eppure dovremmo aver imparare la lezione: l’automazione verrà introdotta solo laddove ciò sarà profittevole per le aziende. Ma affinché tali profitti si materializzino le imprese hanno bisogno, in primo luogo, di materie prime a buon mercato e, in secondo luogo, di un mercato che esprima una domanda per i loro prodotti. Se si tiene conto di questo è facile mettere in luce i punti critici di questo disegno di sviluppo: se i robot andranno a sostituire un gran numero di lavoratori, così come previsto da numerose istituzioni internazionali da svariati think tank, creando in tal modo una disoccupazione di massa ancor più grave dell’attuale, e se i salari subiranno un’ulteriore spinta al ribasso dal momento che solo i lavoratori altamente qualificati potranno sperare di ricevere una retribuzione decente, sorgono immediatamente due domande: primo, le imprese a chi venderanno tutti questi “prodotti intelligenti”?; e secondo, le materie prime e l’insieme degli inputs necessari ad avviare i processi produttivi come potranno non aumentare notevolmente di prezzo nel momento in cui tutte le economie avanzate del pianeta intraprenderanno la stessa strada in direzione dell’Industria 4.0?

* il testo completo LE (FALSE) PROMESSE DI INDUSTRIA 4.0 (tradotto da Andrea Coveri) può essere letto  su sbilanciamoci.info

Il lavoro pubblicato è la traduzione della relazione al convegno “Il futuro dell’industria e del lavoro, Industria 4.0” organizzato da FIOM / CGIL, Torino 28 settembre 2017