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B. MAHNKOPF *–
Ci
sono buone ragioni per prevedere che l’irregolarità, la flessibilità,
l’incertezza e l’imprevedibilità saranno la nuova ‘condizione normale’ del
mondo del lavoro nell’era imminente del capitalismo digitale globale / dovremmo
evitare di costruire il nostro futuro sullo stesso modello socio-economico ed
ambientale quale quello sviluppatosi fino ad oggi/ i limiti alla crescita
derivanti dagli attuali livelli di inquinamento prodotti dal capitalismo
vengono ignorati / probabilmente continueranno ad essere ignorati fino a che
non verrà raggiunto un “punto di non ritorno” tale da far collassare l’intero
sistema economico, sociale e naturale
Tanto per cominciare, i proponenti di
“Industria 4.0” promettono che i processi di routinee le attività fisicamente
faticose verranno automaticamente eseguite dalle macchine, sicché gli esseri
umani diverranno sempre più ‘supervisori delle macchine’ piuttosto che
‘produttori attivi’. Allo stesso tempo, le aziende si affideranno sempre meno
ad una forza lavoro assunta con contratti a tempo indeterminato e, al
contrario, effettueranno assunzioni on demand, ossia solo nei momenti di
bisogno. Pertanto, il rapporto di lavoro subordinato finirà per trasformarsi
nell’assegnazione di una mansione ed i nuovi posti di lavoro che verranno così
a crearsi saranno privi di una chiara collocazione all’interno
dell’organizzazione aziendale. In tal modo i legami con l’impresa saranno
tagliati e i sindacati avranno difficoltà ancora maggiori di oggi a comunicare
con i dipendenti e a rappresentare i loro interessi.
Tutti
i lavori di routine, inclusi i processi standardizzabili e anonimi – ed i
servizi digitali in particolare – diverranno soggetti a delocalizzazioni
(off-shoring) e ad ulteriori pressioni al fine di aumentarne l’efficienza,
mentre le attività che comportano un’interazione umana diretta saranno sempre
più apprezzate. Tutto ciò comporterà anche il fatto che i servizi digitali
verranno perlopiù “spezzettati” in parti sempre più ridotte cosicché il
relativo lavoro potrà essere delegato ad una moltitudine di “operai virtuali”.
Andrà pertanto ad espandersi il cosiddetto crowd-working ed il lavoro per mezzo
di piattaforme cloud.
Come
già sappiamo, analogamente a tanti altri tipi di lavoretti più o meno casuali,
le retribuzioni dei lavoratori delle piattaforme cloud o dei cosiddetti
“click-workers” – i quali svolgono le proprie prestazioni a cottimo – sono
spesso molto basse e corrisposte in modo irregolare, mentre i lavoratori sono
invisibili e isolati. Anche l’errato inquadramento dei lavoratori come
‘lavoratori autonomi’ non è un nuovo fenomeno; così come in altri settori
(vestiario, costruzioni o trasporti) tale ‘falso etichettamento’ ha lo scopo di
azzerare i benefits per i dipendenti, evitare il pagamento delle tasse a carico
delle imprese e non rispettare le leggi sul lavoro. Inoltre, il carattere
transnazionale del crowd-work rende molto più difficile individuare ed usufruire
della giurisdizione nazionale preposta alla regolamentazione dei tempi di
lavoro, dei salari e delle disposizioni in materia di sicurezza sociale.
Come
se non bastasse, la divisione tra lavoro e vita privata sta scomparendo e ciò
farà crescere nuovi fattori di stress, in particolare per le donne. Da questo
punto di vista, il futuro mondo del lavoro digitale rispecchia quel “sistema di
lavoro su commissione” tipico delle prime fasi del capitalismo, che permetteva
ai lavoratori e soprattutto alle lavoratrici una qualche forma di flessibilità
col fine di sobbarcarsi e di bilanciare il lavoro domestico e di cura, il
lavoro agricolo ed i lavoretti ‘su commissione’.
Vi
è poi un aspetto inerente la cosiddetta “economia dei lavoretti” (gig economy)
che potrebbe diventare un problema ancora più grave e che non può che
riguardare anche i sindacati. Si tratta del fatto che l’ideologia neoliberista
è riuscita a catturare le menti della gente comune, specialmente dei giovani.
Molti di loro si percepiscono come “micro-imprenditori” o come “padroni di sé
stessi”, anche se solo in rari casi lavorano davvero autonomamente. Capita
inoltre che l’inquadramento, più o meno volontario, come lavoratore autonomo
non sia affatto associato alla possibilità di far carriera o di uscire da una
condizione di povertà. Al contrario, sempre più spesso il lavoro formalmente
non subordinato o “indipendente” è una trappola per i giovani, i quali
finiscono per trovarsi rinchiusi in un circolo vizioso che comprende lavoro
autonomo e spesso di scarsa qualità, pessime condizioni di lavoro ed una bassa
retribuzione.
In
questo contesto, abbiamo buone ragioni per prevedere che l’irregolarità, la
flessibilità, l’incertezza, l’imprevedibilità e la presenza di altri svariati
tipi di “rischio” saranno la nuova ‘condizione normale’ del mondo del lavoro
nell’era imminente del capitalismo digitale globale. Non importa se i
lavoratori verranno classificati come “precari”, come “informali”, “atipici” o
come lavoratori per conto proprio. Sulla piazza del mercato globale essi
saranno condannati ad un’occupazione instabile, a salari o redditi sempre più
bassi e a condizioni di lavoro ancora più pericolose; non potranno godere, se
non sporadicamente, delle misure di assistenza e previdenza sociale e spesso sarà
loro negata la possibilità di prender parte ad associazioni e sindacati. Coloro
che ancora svolgeranno il proprio lavoro in fabbriche ed uffici saranno
controllati da applicazioni e algoritmi, dove quest’ultimi saranno
l’equivalente della vecchia catena di montaggio – ma molto più difficili da
interrompere.
In
poche parole, anche in misura maggiore rispetto ad ora, la maggior parte dei
lavoratori digitali saranno coloro che andranno a svolgere quelle mansioni di
cui vi è di volta in volta bisogno, in modo permanente o temporaneo, ma a cui
comunque sarà negata ogni protezione formale e continuativa – incluse le tutele
riconosciute dalle leggi sul lavoro – durante lo svolgimento della loro
prestazione. Solo una piccolissima parte della forza lavoro complessivamente
impiegata – a livello globale, europeo e nazionale – riuscirà invece ad
accedere a lavori regolari e regolamentati, più qualificati e meglio pagati.
Insomma,
la questione cruciale non è perché la mancanza di sicurezza sta tornando a
colpire anche i lavoratori delle economie avanzate di Europa e Nord America, ma
come e perché è stato possibile ridurre tale insicurezza per una piccola parte
della popolazione mondiale per un paio di decenni dopo la seconda guerra
mondiale.
È
ovvio che il crescente disordine dovuto all’attuale meccanismo di accumulazione
del capitalismo globale è strettamente legato al dissolversi dello Stato come
‘mediatore’ tra capitale e lavoro nell’era del neoliberismo, un processo
quest’ultimo che in tutte le parti del mondo ha contribuito alla crescita delle
disparità e delle disuguaglianze. Quella in cui ci troviamo è una fase della
globalizzazione di stampo oligarchico, dove solo le nazioni economicamente più
forti ed il 20% più ricco della popolazione, ed in particolare l’1%, possono
avere aspettative effettivamente positive, dal momento che neppure le politiche
di stampo liberale a sostegno del welfare trovano più spazio sull’agenda
politica. Di conseguenza, vediamo la dissoluzione delle classi e della
coscienza di classe.
Certo,
la tutela dei diritti dei lavoratori è rimasta relativamente più forte per i
lavoratori con contratti stabili delle grandi imprese del settore
manifatturiero, ma milioni di lavoratori sono intrappolati in una condizione
segnata da bassi salari e scarsissime possibilità di avanzamento. In Germania
questo è dovuto in parte al fatto che a metà degli anni Novanta sono state
implementate, con l’appoggio dei sindacati, misure di contenimento salariale a
danno dei lavoratori altamente qualificati e ciò ha contribuito a migliorare la
posizione competitiva delle imprese tedesche rispetto ai suoi partner
commerciali in Europa e non solo. Un altro meccanismo importante che ha
permesso all’industria tedesca di battere la concorrenza delle imprese
italiane, greche, spagnole e francesi è consistito nel processo di
decentramento della contrattazione sindacale senza precedenti che è seguito
alla riunificazione tedesca e all’accesso ad un bacino di forza lavoro a basso
costo in alcuni paesi dell’Unione Europea. Ciò ha condotto a un drastico calo
del costo unitario del lavoro e ad un drammatico declino della forza dei
sindacati.
Inoltre,
le riforme del mercato del lavoro e del sistema di welfare promosse dalla
coalizione rosso-verde sotto la guida del cancelliere Gerhard Schröder nei
primi anni 2000 hanno spinto milioni di lavoratori in occupazioni con bassi
salari e scarse tutele, mentre al tempo stesso hanno aumentato la concorrenza
tra quest’ultimi. Di conseguenza abbiamo oggi in Germania non solo un’industria
piuttosto competitiva ma anche uno dei più grandi bacini in Europa di forza
lavoro con basso salario. La disuguaglianza, la sottoccupazione e la povertà
sono in aumento: circa 12,5 degli 80 milioni di abitanti della Germania si
trovano al momento sotto la soglia di povertà relativa, ossia guadagnano meno
del 60% del reddito mediano. Anziani, genitori single e ancor più bambini sono
le categorie di persone per le quali è più alta la probabilità di scivolare
sotto tale soglia di povertà. Una tendenza particolarmente inquietante, infine,
riguarda il crescente numero di working poors, ossia di “lavoratori poveri”.
Quali
lezioni possiamo apprendere dall’esempio tedesco per quanto riguarda le
prossime lotte su “Industria 4.0”?
In
primo luogo, dobbiamo ricordare che in una fase storica del tutto particolare
(quella che si dispiega dopo la caduta del muro di Berlino e che vede
l’economia mondiale in forte espansione) i sindacati hanno accettato riforme
improntate all’aumento della flessibilità del mercato del lavoro, con l’effetto
di favorire la parte datoriale. Questo ha portato a ridurre le ore lavorative,
a rendere i lavoratori maggiormente precari ed a ridurre le loro retribuzioni.
Questo insieme di misure si è rivelata molto vantaggiosa per i datori di
lavoro, poiché ha contribuito ad aumentare la competitività delle loro imprese
– rispetto a molti dei loro partner commerciali europei.
In
secondo luogo, vi è stata una enorme mancanza di tutele a difesa dei lavoratori
e dei loro delegati: a livello aziendale, con rapporti di forza sfavorevoli, i
sindacati ed i rappresentanti dei lavoratori hanno dovuto contare solo su sé
stessi. In questo contesto, costoro sono stati disposti ad accogliere i
cambiamenti peggiorativi richiesti dai datori di lavoro – a scapito soprattutto
dei lavoratori meno garantiti.
In
terzo luogo, a seguito dell’euforia suscitata dalle nuove prospettive di
crescita economica, anche i sindacati – insieme a mass media, mondo accademico,
rappresentanti del governo e uomini d’affari – hanno accolto con entusiasmo la
possibilità di conseguire grandi incrementi di produttività grazie ai processi
di cambiamento tecnologico, forieri – seppur nel lungo periodo – di crescita
economica e magari anche di domanda di lavoro da parte delle imprese.
Infine,
soffermandoci ancora sulle le relazioni tra “Industria 4.0” e il mondo del
lavoro, domandiamo: in che misura i sindacati (in Germania o altrove)
dovrebbero fare affidamento su questa prospettiva, apparentemente progressista,
che racconta di un tanto inevitabile quanto desiderabile futuro digitalizzato
dell’industria? Eppure dovremmo aver imparare la lezione: l’automazione verrà
introdotta solo laddove ciò sarà profittevole per le aziende. Ma affinché tali
profitti si materializzino le imprese hanno bisogno, in primo luogo, di materie
prime a buon mercato e, in secondo luogo, di un mercato che esprima una domanda
per i loro prodotti. Se si tiene conto di questo è facile mettere in luce i
punti critici di questo disegno di sviluppo: se i robot andranno a sostituire
un gran numero di lavoratori, così come previsto da numerose istituzioni
internazionali da svariati think tank, creando in tal modo una disoccupazione
di massa ancor più grave dell’attuale, e se i salari subiranno un’ulteriore
spinta al ribasso dal momento che solo i lavoratori altamente qualificati
potranno sperare di ricevere una retribuzione decente, sorgono immediatamente
due domande: primo, le imprese a chi venderanno tutti questi “prodotti
intelligenti”?; e secondo, le materie prime e l’insieme degli inputs necessari
ad avviare i processi produttivi come potranno non aumentare notevolmente di
prezzo nel momento in cui tutte le economie avanzate del pianeta
intraprenderanno la stessa strada in direzione dell’Industria 4.0?
*
il testo completo LE (FALSE) PROMESSE DI
INDUSTRIA 4.0 (tradotto da Andrea Coveri) può essere letto su sbilanciamoci.info
Il lavoro pubblicato è
la traduzione della relazione al convegno “Il futuro dell’industria e del
lavoro, Industria 4.0” organizzato da FIOM / CGIL, Torino 28 settembre 2017