lunedì 30 ottobre 2017

abstract/ «UN MANIFESTO PER IL COMMONFARE»

-General Intellect-

ALCUNE TESI SU EFFIMERA PER COMINCIARE LA DISCUSSIONE 
quattro pilastri per evidenziare una prospettiva di superamento della logica produttivistica di matrice capitalistica, anche nella sua dimensione di valorizzazione più immateriale: primo pilastro- reddito base incondizionato; secondo pilastro- gestione dal basso dei beni comuni e del Comune; terzo pilastro- creare un ecosistema alternativo di produzione e di cooperazione; quarto pilastro- la moneta del comune (Commoncoin)



Nel capitalismo contemporaneo, le politiche del lavoro e le politiche sociali sono indissolubilmente legate. La separazione tra il tempo di lavoro e il tempo di vita scompare con la precarizzazione del lavoro. Il bio-capitalismo sfrutta il tempo della vita come una merce relazionale, produttrice di valore. La governance neoliberale assicura che ogni atto  dell’esistenza venga messo a valore. Ogni residuo di welfare, così come ci è stato tramandato in Europa, è oggi sempre più soffocato da processi di estrazione e sfruttamento. E’ quindi venuto il tempo di riaggiornare il concetto di welfare, perché sia  adeguato alla condizione precaria oggi dominante, rispettoso del genere, delle differenze etniche e educative, al fine di garantire il benessere della comunità. In una parola, il Welfare del Comune deve dotare la vita di qualità, autodeterminazione e consentire di esercitare il diritto alla gioia.
Nel capitalismo fordista, i servizi sociali come l’istruzione, la formazione, la previdenza, la cura e la salute, favorivano anche la redistribuzione della ricchezza tra capitale e lavoro. Le politiche pubbliche, in quanto dispensatrici di tali servizi, avevano la funzione di mantenere la coesione sociale per consentire che il potere d’acquisto del lavoro potesse garantire il consumo di massa e il livello di profitto fosse sufficientemente elevato per favorire la produzione di massa. Questo patto sociale non si riferiva all’intera popolazione, bensì alle solo “classi produttive” (nel senso marxiano del termine): erano, infatti, escluse le donne e la popolazione dei territori più sottosviluppati, fonte di immigrazione. Le prime garantivano gratuitamente la riproduzione della forza lavoro; la seconda manteneva basso il costo del lavoro.
Ora il welfare pubblico è percepito come un costo, il cui finanziamento dipende dall’imposizione fiscale, ritenuta dal pensiero neo-liberale un freno alla creazione della ricchezza prodotta dall’economia capitalistica di mercato: una imposizione che metterebbe, cioè, in pericolo la competitività del mercato. La forte crescita economica del periodo fordista, dove salari e profitti potevano aumentare simultaneamente, è oggi un pallido ricordo.
“L’economia deve esistere per servire la società e non viceversa” (Gandhi). Ciò non è vero quando i governi non rappresentano più persone ma le aziende che dominano lo spazio virtuale in cui si svolge il dibattito pubblico (ad esempio, “i social media” come Facebook e Twitter).
Con la diffusione delle politiche neoliberali, le istituzioni di welfare vengono sempre più “capitalizzate”. Soprattutto, esse entrano direttamente nella gestione economica del mercato privato. Il welfare pubblico keynesiano, non più sostenibile in presenza dei  vincoli imposti al bilancio pubblico, viene gradualmente sostituito da forme di Workfare. Il Workfare non è un sistema universale di assistenza sociale (come quello keynesiano): è permesso solo a chi ha i mezzi finanziari per pagarlo. Si tratta di un sistema di welfare auto-finanziato, come la maggior parte del sistema previdenziale europeo di oggi, funzionale al processo di privatizzazione della sanità, dell’istruzione e della previdenza. Il Workfare è complementare al cosiddetto “principio di sussidiarità”, secondo il quale lo Stato può intervenire solo quando gli obiettivi posti non possono essere raggiunti in modo soddisfacente dal mercato privato.

[…]

Anche le trasformazioni del mercato del lavoro negli ultimi decenni in Europa e in Italia hanno reso sempre più urgente ridefinire le politiche di welfare. Non sempre, questo obiettivo è stato considerato di interesse centrale nel pensiero economico non solo dominante ma anche alternativo. Tale refrattarietà fa sì che il dibattito sul welfare si incentri tra l’idea di un welfare adeguato all’approccio neoliberale, workfare (condito, più o meno, da sussidiarietà) o la nostalgica difesa del welfare statale di matrice keynesiana.
In entrambi i casi, si tratta di un’idea di welfare che non tiene conto che oggi il welfare è un modo di produzione e come tale dovrebbe affrontare i due elementi principali che caratterizzano l’attuale fase del capitalismo bio-cognitivo:
•         la precarietà e il debito come dispositivi di controllo sociale e di dominio, in grado di alimentare la sussunzione vitale del lavoro al capitale;
•         la riappropriazione (in termini di distribuzione) della ricchezza che nasce dalla cooperazione sociale e dal general intellect.
Il lavoro sta diventando sempre più frammentato, non solo dal punto di vista giuridico, ma anche dal punto di vista qualitativo e soggettivo. Vi è una moltitudine variegata di lavoratori/trici atipici e precari, para-subordinati e autonomi. Il primato della contrattazione individuale su quella collettiva svuota la capacità dei sindacati di svolgere una funzione di rappresentanza del lavoro nel modo tradizionale. Inoltre, in tempi di crisi, la condizione precaria è rafforzata dall’aumento della condizione di debito, in un circolo vizioso. Il risultato è la “trappola di precarietà”, che oggi tende a sostituire la “trappola della povertà”.
La produzione di ricchezza non è più basata esclusivamente sulla produzione di beni materiali. L’esistenza di economie di apprendimento e di rete ora rappresentano le variabili che sono all’origine degli aumenti di produttività: una produttività che proviene sempre più dallo sfruttamento sia di beni comuni che pubblici, derivante dalla cooperazione sociale del genere umano (come l’istruzione, la salute, la conoscenza, lo spazio, le relazioni sociali, ecc.). Anche Internet viene annichilito da processi di controllo e dalla  “proletarizzazione” (nel senso di “standardizzazione” e “svalutazione”) della psiche e dell’ambiente sociale, con l’effetto di favorire l’appropriazione della ricchezza sociale (conoscenze, dati, informazioni, comunicazioni ) da parte delle grandi società oligopolistiche.
Ne consegue che, in questo contesto, una ridefinizione delle politiche di welfare dovrebbe essere in grado ribaltare la base dell’odierna accumulazione  bio-cognitiva: la precarietà della vita e la cooperazione sociale come fonte di valore.
È necessario remunerare la cooperazione sociale, da un lato, e favorire forme di produzione sociale alternativa, dall’altro.
Per questo, la proposta del Commonfare si basa su quattro pilastri […]

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