-LELIO DEMICHELIS-
/dal "quasi-capitalismo" dal volto umano dove si produceva valore anche per la società
/al capitalismo
disumano delle piattaforme tecnologiche e degli algoritmi
Alberto
Saibene, L’Italia di Adriano
Olivetti, Edizioni di Comunità, 2017, pp.165
Benedetto
Vecchi, Il capitalismo delle
piattaforme, Manifestolibri, 2017, pp. 90
C’era una volta, in un tempo che oggi sembra lontano lontano,
un capitalista (e un capitalismo) dal volto umano e soprattutto umanistico.
E che, diversamente dai neoliberali di oggi, non voleva trasformare la società
in mercato, la vita in concorrenza di tutti contro tutti e ciascuno in mero
imprenditore di se stesso. Un capitalista che certo aveva come suo baricentro
l’impresa, ma un’impresa che si poneva al servizio della comunità e degli
uomini e che voleva perfino democratizzare se stessa conferendo ai lavoratori e
alle istituzioni del territorio la proprietà o la partecipazione alla gestione
dell’impresa stessa. Un capitalista diventato per alcuni un mito e in parte
certamente lo era (in verità i miti sono sempre pericolosi perché
raccontano una verità che non sempre è la verità).
Un mito, allora e forse, di nome Adriano Olivetti. Su cui torniamo grazie a un
libro scritto da Alberto Saibene – L’Italia di Adriano Olivetti –
diviso sapientemente tra storia d’impresa e storia culturale, tra biografia
personale e biografia della nazione di quegli anni.
Olivetti, dunque: amato da una minoranza di
intellettuali; disamato dagli altri imprenditori (perché troppo anticipatore
del futuro o perché troppo diverso dal modello standard); disamato anche (con
qualche ragione, a onore del vero) da parte di certa sinistra perché la sua
proposta di comunità sembrava contraddire la lotta di classe volendo costruire
invece una comunità quasi olistica/organicistica (ma Olivetti rispettava il
conflitto e non licenziò il sovversivo Franco Fortini quando
lo scontro tra i due si fece durissimo), anche se ad alta e forse autentica
partecipazione e coinvolgimento; disamato pure dalla chiesa e dal cattolicesimo
perché Olivetti dava molto peso ai valori spirituali, lui laico e fautore di
una società laica (contribuì alla nascita dell’Espresso), convertito al
cattolicesimo e figlio di un ebreo e di una valdese. E poi Olivetti uomo di
cultura, politico, filosofo di una nuova politica (il Movimento Comunità) e
urbanista. La sua Olivetti fu scuola della migliore intellettualità italiana
del secondo dopoguerra. Ci ricordava anni fa Francesco Novara, ai tempi giovane
psicologo del lavoro, che la Olivetti di Adriano era una comunità di
spiriti liberi, la Ibm era invece una comunità di monaci mentre
la Fiat era organizzata come una caserma. Le differenze sono
sostanziali.
Un mito, forse, Adriano Olivetti; certamente un uomo
particolare, con tutti i suoi pregi (per noi il suo welfare, che
non era certo vecchio paternalismo ma modernissimo servizio sociale) e difetti
(trasformò il mondo della pubblicità e della comunicazione aziendale e creò
l’idea di quella che sarebbe divenuta la corporate identity). Un
modello forse non riproponibile oggi come tale, ma molto da invidiare e da
studiare. Un imprenditore aperto all’innovazione, Olivetti; alla creatività e
all’eterodossia; ma chissà cosa direbbe oggi di ciò che l’informatica – nata,
appunto anche in Olivetti - ha prodotto in termini di trasformazione sociale (e
noi vogliamo immaginare che ne sarebbe fortemente critico); oggi che dal
suo quasi-capitalismo dal volto umano dove si produceva valore
anche per la società, siamo arrivati al capitalismo disumano delle
piattaforme tecnologiche e degli algoritmi , che estrae valore dalla vita della
società e degli individui, sfruttando società e individui.
Capitalismo delle piattaforme allora; cui dedica un libro breve
ma molto riflessivo e intelligentemente critico, Benedetto Vecchi. Amazon,
Google, Facebook, ma anche Airbnb e Uber e poi la logistica sono piattaforme
digitali e sono oggi i veri mezzi di produzione dell’economia capitalistica in
rete e via rete. Si presentano retoricamente come economia della condivisione e
quindi di una orizzontalità sociale virtuosa, in realtà sono verticali e
verticalizzanti (nonché produttrici di alienazione). Piattaforme, scrive
Vecchi, che sono ormai l’espressione di un nuovo capitalismo che certo non è
il postcapitalismo di Paul Mason (cui Vecchi dedica una
critica assolutamente condivisibile), che è invece oligarchico e oligopolistico
se non monopolistico. E che ha nella finanza il necessario dispositivo di governance dei
flussi di dati, merci e informazioni che sono oggi la materia prima di questo
capitalismo appunto delle piattaforme e degli algoritmi e dove algoritmico si
fa anche il management delle risorse umane. Piattaforme con le
quali il lavoro si individualizza ed esternalizza sempre di più,
facendosi on demand e insiemeauto-attivato – e
sembra davvero il vecchio modello della fabbrica a sei zeri della
Toyota, a sua volta perfezionamento, e non superamento del fordismo-taylorismo,
ma trasferito in rete. Perché questo capitalismo ha le sue tecniche di nuova
organizzazione scientifica del lavoro (il taylorismo digitale), non è vero che
sono cancellate le gerarchie e la massima retorica della condivisione e della
conoscenza convive (senza contraddirla, nonostante l’evidenza della
contraddizione) con la precarizzazione del lavoro e lo sfruttamento delle
competenze, chiamando però tutto questo: innovazione.
Scrive Vecchi: «Il divenire storico scandito da
espressioni come sharing economy, capitalismo cognitivo, gig
economy non indica nessuna qualità auspicabile della vita in comune,
nonostante il mantra sul libero mercato e l’individuo proprietario che ha
accompagnato, negli ultimi decenni, ogni tappa dello sviluppo economico come un
progressivo e lineare avvicinamento alla Terra promessa. Segnala, semmai, e
all’opposto di quanto sostengono i think tank del capitalismo
contemporaneo, un processo globale di trasformazione del modo di produrre
le condizioni dell’esistenza umana e le relazioni sociali che presenta
i tratti di una controriforma, meglio di una controrivoluzione globale volta a
sottomettere la natura umana alle regole auree
dell’accumulazione capitalistica. […] Dove il linguaggio, i sentimenti, le
capacità cognitive […] sono gli elementi attorno ai quali i rapporti sociali di
produzione capitalistici costruiscono il proprio potere di estrazione della
ricchezza». Perché il capitalismo contemporaneo è ambivalente. Da un lato si
legittima come naturale modo di produzione, al quale bisogna solo adattarsi,
offrendo agli uomini la promessa di una vita buona; dall’altro, esprime la sua
violenza sia con la guerra «che con dispositivi governamentali, nei
quali la cooptazione e la chiusura di spazi di libertà marciano insieme. È
questa costruzione di una seconda natura umana a immagine del
capitalismo il primo nemico che il pensiero critico deve combattere». Quindi,
ciò che davvero serve, continua Vecchi «è la capacità politica e sociale di
agire globalmente contro i centri di potere politico ed economico, producendo
forme di autorganizzazione locale, laddove cioè la sharing economyaccentua
la precarietà e apre le porte, grazie proprio alla Rete, alla formazione di
imprese monopolistiche». Proprio oggi che un nuovo taylorismo digitale
finalizzato alla gestione automatizzata della prestazione di lavoro scade
spesso, come nella gig economy, in un lavoro puramente servile. Di
più: «è la maggioranza del lavoro digitale a vivere oggi una
condizione servile».
Occorre allora ripensare alle categorie con cui,
soprattutto la sinistra ha guardato alla tecnica e al capitalismo. E alla Rete,
che è oggi la fabbrica capitalistica per eccellenza. Oltre i cui cancelli va
dunque portata e insediata, finalmente, la democrazia. E il diritto. E i
diritti.