-PAOLA RUDAN-
è il tempo che i movimenti sociali si coalizzino
per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia
/a volte è positivo che i movimenti sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a cui opporsi
per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia
/a volte è positivo che i movimenti sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a cui opporsi
/ significa avere ideali e piattaforme
separate dalla politica di partito. Solo a questo punto un movimento sociale è
nella posizione di negoziare
La scorsa settimana hai promosso a
Bologna un convegno internazionale sul ruolo critico delle università, che in
questo momento negli Stati Uniti, dichiarandosi santuari per i migranti senza
documenti, si stanno attivamente opponendo alle politiche di deportazione di
Trump. Pensi che anche questo tipo di iniziativa rientri nel loro ruolo critico
e come sarà colpita dalla riorganizzazione dello Stato pianificata da Trump e
Bannon e dall’azione sempre più arbitraria della polizia?
È molto importante che le università dichiarino lo status di «santuari».
Manda un segnale forte al governo federale dichiarando che le università non
applicheranno le politiche di deportazione. Il programma di Trump non è ancora
effettivo, ma i funzionari dell’immigrazione e incaricati delle deportazioni
possono agire autonomamente in modo più aggressivo, perché non c’è una politica
federale chiara, il presidente dice una cosa, le corti di giustizia vanno in
un’altra direzione, cosicché i funzionari decidono in modo discrezionale di
andare nelle scuole o nelle case per cercare le persone senza documenti. Le
università però hanno il potere di decidere se consegnare ai funzionari i nomi
di quelli che non hanno documenti o se resistere alle loro richieste. Hanno il
potere di bloccare l’implementazione dei piani di deportazione e questo
significa che possiamo diventare parte di un più vasto network che resiste
all’applicazione delle politiche federali.
Anche alla luce di questo tipo di
resistenza, alcuni vedono nell’elezione di Trump un’opportunità per i movimenti
sociali. Condividi questa prospettiva?
Ci sono due modi di leggerla. C’è chi crede in una concezione dialettica
della storia per cui un movimento di resistenza, per crescere, ha bisogno di un
leader fascista, sicché dovremmo essere contenti in questa circostanza. Da
parte mia non sarò mai contenta di avere un leader fascista, o neofascista, o
autoritario… stiamo ancora cercando di capire come descrivere questo potere.
Spero che i movimenti sociali non abbiano bisogno di questo per essere
galvanizzati. C’è però un secondo modo di vederla, e che sono più disponibile
ad accettare, per cui il trionfo della destra negli Stati Uniti ha reso
imperativo che la sinistra si unisca con una piattaforma e una direzione
davvero forti. Non è chiaro se questo possa accadere attraverso il partito
democratico, o se ci debba essere un movimento di sinistra ‒ il che non
coincide necessariamente con una politica di partito ‒ che sappia che cosa sta
facendo e come e, su questa base, possa decidere se accettare un partito, o se
avanzare le proprie rivendicazioni a un partito. Ma non è detto che si debba
cominciare dall’essere un partito politico. A volte è positivo che i movimenti
sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a cui
opporsi, ma non dobbiamo accomodarci in una distinzione o situazione esistente,
per cui ci sono i democratici, i repubblicani e tutto il resto è considerato
una minoranza radicale senza potere. È il tempo che i movimenti sociali si
coalizzino per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare
sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia, e questo
significa avere ideali e piattaforme separate dalla politica di partito. Solo a
questo punto un movimento sociale è nella posizione di negoziare.
In che modo la campagna elettorale, e in
particolare l’apertura di Sanders verso i movimenti sociali ‒ che è stata
spesso contraddittoria e incapace di raccogliere le loro istanze ‒ può offrire
indicazioni rispetto a come strutturare l’opposizione a Trump nei termini che
hai appena descritto?
La corsa di Sanders alla presidenza è
stata molto interessante, perché ha messo insieme molta gente ed è stata molto
più popolare di quanto Clinton si aspettava che fosse, conquistando alle
primarie anche Stati che si pensava avrebbero sostenuto Hillary. Ma è stato
anche frustrante, perché non era chiaro se Sanders sapesse come rivolgersi agli
afroamericani, sembrava che pensasse che quella di classe fosse l’oppressione
primaria e quelle di razza e genere fossero secondarie, e questa è una
prospettiva che abbiamo combattuto negli anni’70 e ’80. Da una parte si è vista
una sinistra capace di attrattiva, e questo è stato interessante, ma forse non
lo è stata abbastanza. Forse è necessario distinguere Sanders dall’«effetto
Sanders», che sta coinvolgendo molti più gruppi permettendo loro di pensare che
possono avere un po’ di potere. Sanders si è definito socialista, anche se in
una versione soft, ma un partito socialista non c’è ancora anche se
alcuni si sono appellati a lui per uscire dal partito democratico e costituirne
un altro. Vedremo se può succedere negli Stati uniti, sarebbe degno di nota.
I migranti sono stati protagonisti negli
ultimi anni di importanti movimenti sociali e sono tutt’ora impegnati
nell’organizzazione dell’opposizione al razzismo istituzionale di Trump. Nel
tuo lavoro hai molto insistito sulla loro posizione, sottolineando il modo in
cui hanno esercitato performativamente un «diritto ad avere diritti». Ma
possiamo considerare i migranti non solo come una figura dell’esclusione da
«noi, il popolo», ma anche come una prospettiva che ci permette di capire le
trasformazioni contemporanee della cittadinanza e del lavoro nel suo complesso.
Come fai i conti con queste trasformazioni nella tua teoria della precarietà?
Forse non ho una teoria della
precarietà, ti posso dire che cosa sto facendo adesso, perché ho scritto Vite
precarie dopo l’11 settembre per rispondere a quelle circostanze
storiche, ma in altri libri sono emerse altre circostanze e magari si possono
adattare ad alcune persone e ad altre no. Nel bene e nel male, il mio è un
pensiero vivente e può cambiare, non ho una singola teoria che si adatti a
tutte le circostanze, posso modificare la mia teoria, questo è il modo in cui
lo descriverei. Quello che posso dire è che io vivo nello Stato della
California e l’agricoltura lì si basa fondamentalmente sul lavoro migrante, se
Trump fosse in grado di deportare migranti messicani senza documenti, costruire
muri e bloccare l’afflusso di nuovi messicani, i principali interessi economici
che lo hanno supportato sarebbero immediatamente in difficoltà. Di fatto
l’economia della California funziona con i migranti senza documenti, non ci
sono dubbi. E se andiamo indietro nella storia della California, vediamo che le
ferrovie sono state costruite dai migranti cinesi. Molti di noi sono stati
migranti, mia nonna non parlava nemmeno bene l’inglese, siamo arrivati, siamo
andati a scuola, ci siamo dimenticati di essere migranti, pensiamo che i
migranti siano sempre gli altri. Ma chi non è un migrante? Questa dimenticanza
è parte della formazione del soggetto americano ed è diventata davvero
pericolosa nel momento in cui abbiamo deciso che i migranti sono esterni a
quello che siamo. Sono parte di quello che siamo, ci basiamo sul loro lavoro,
siamo il loro lavoro.
Contro questa condizione, i migranti –
non solo negli Stati Uniti ‒ hanno scioperato, e l’8 marzo di quest’anno c’è
stato uno sciopero transnazionale delle donne. Nel tuo ultimo libro (Notes toward a
Performative Theory of Assembly, nella traduzione italiana L’alleanza dei corpi) tu
includi lo sciopero tra i modi in cui è possibile ‘assemblarsi’. Lo sciopero
non è solo un modo di convergere, ma stabilisce anche una linea di opposizione
nella società, una linea lungo la quale si pratica l’interruzione di un
rapporto sociale di potere. La tua riflessione sulle assemblee articola la
necessità o la possibilità di questo tipo di linea di conflitto come condizione
stessa dell’assemblea?
Spesso, quando i sindacati vogliono unirsi per discutere le condizioni del
loro lavoro, assistiamo a tentativi disperderli o negare il loro diritto di
riunirsi in assemblea. Almeno nel diritto degli Stati Uniti e in qualche misura
in quello internazionale, questo diritto nasce anche dalle assemblee sindacali,
fatte per discutere le condizioni di lavoro o per decidere di scioperare. Ci
sono modi di riunirsi in assemblea là dove c’è uno sciopero. Ma nell’era di
internet possiamo entrare in rete nel web e decidere uno sciopero senza
riunirci di persona. La vera domanda diventa allora come il modo tradizionale di
funzionamento dell’assemblea, per cui i corpi si assemblano nello stesso
spazio, sta in relazione con il networking digitale, o con una modalità
politica di mettersi in rete che può anche essere la base per lo sciopero. Non
intendo dire che nella vita contemporanea non c’è assemblea senza un insieme di
connessioni digitali, o che non sappiamo nemmeno di essere assemblati se non
mandiamo un messaggio che lo comunica. Tuttavia, l’assemblea può dare voce a
certe rivendicazioni che devono essere comunicate attraverso il web. Di solito
gli scioperi, soprattutto quelli internazionali, che sono molto interessanti,
sono principalmente forme di messa in rete per la resistenza. Si tratta di una
forma tra le altre possibili di associazione e alleanza tra gruppi, una forma
che è legata all’assemblea anche se non sono esattamente la stessa cosa. Non
c’è un’unica sfera pubblica per tutti, nemmeno internet è la stessa sfera
pubblica per tutti, non tutti ce l’hanno e non tutti comunicano, non c’è
un’unica sfera pubblica globale, non c’è una piazza mondiale. I media aiutano a
fare in modo che succeda, quando succede. L’anno scorso coloro a cui non è
assolutamente permesso di assemblarsi, i detenuti nelle prigioni palestinesi,
negli Stati uniti e in altre parti del mondo, hanno fatto uno sciopero della
fame. Molte persone che si opponevano alla pratica carceraria dell’isolamento
sono andate in sciopero della fame e lo hanno fatto esattamente nello stesso
momento. Hanno comunicato attraverso le reti di sostegno dei prigionieri, hanno
creato un network internazionale senza bisogno di un’assemblea, hanno
scioperato nello stesso momento per attirare l’attenzione dei media sul fatto
che l’isolamento è una pratica disumana a cui tutti insieme si stavano
opponendo. Alleanze a rete di questo tipo sono precisamente quello che è
necessario per portare una questione al centro dell’attenzione politica. Anche
lo sciopero delle donne è molto interessante perché non ha un solo centro, ed è
accaduto in tutto il mondo in modi e luoghi diversi.
Infatti, lo sciopero dell’8 marzo è
stato lanciato dalle donne argentine di Ni una menos con un appello
internazionale che ha avuto un’incredibile risonanza in tutto il mondo. Non si è
trattato di uno sciopero tradizionale, inteso come strumento di contrattazione
sindacale, ma è stato un modo per rifiutare una condizione di violenza e
oppressione che assume molte forme.
Lo sciopero della fame e quello delle donne non sono scioperi tradizionali,
di tipo sindacale, ed è importante che siano accaduti. La cosa che mi pare più
interessante sono i network che li hanno resi possibili e che hanno permesso
che accadessero, perché questi network possono comporre movimenti globali di
solidarietà. Se però si riducono a uno sciopero che dura per un certo numero di
ore per un giorno solo, questo non è abbastanza, perché un’azione simbolica. Ma
anche un’azione simbolica può aiutarci a vedere quali sono i network, chi sono
le persone che ne fanno parte in Argentina, qual è la loro relazione con la
Turchia, con Bologna o con il Sudafrica. Il punto è usare l’occasione dello
sciopero simbolico per solidificare reti internazionali che possano poi
produrre effettivamente un senso più forte della sinistra femminista
transnazionale o dell’opposizione transnazionale alle condizioni inumane nelle
prigioni.
Forse però ci sono delle differenze tra
lo sciopero della fame in prigione e lo sciopero delle donne o quello dei
migranti. In prigione diventa un modo di conquistare in primo luogo quello che
chiami un «diritto di apparire» per mettere sul tavolo rivendicazioni che
altrimenti sarebbero inascoltate. Lo sciopero delle donne e quello dei migranti
hanno stabilito una linea di conflitto, nel caso dell’8 marzo la linea in cui
si mostra che la violenza patriarcale è la base per la riproduzione di rapporti
sociali di potere su scala globale. Da questo punto di vista è interessante che
lo sciopero sia stato proposto in Argentina, dove la violenza contro le donne
sta diventando un’arma sistematica del governo neoliberale.
Penso che anche lo sciopero della fame in prigione stabilisca una linea di
opposizione, perché in prigione tu non comunichi, non ti riunisci in assemblea,
non avanzi rivendicazioni soprattutto se sei in isolamento. La voce dei
detenuti non si sente, hanno bisogno di altri che possano articolare la loro
posizione, che parlino per loro, e attraverso quel network hanno trovato il
modo di articolare una rivendicazione che altrimenti non sono nella condizione
di avanzare e che riguarda la violenza strutturale delle prigioni, che è anche
un confronto frontale con quella violenza strutturale. Osservando il modo in
cui le prigioni funzionano in Brasile o in Argentina, diventa evidente la
relazione delle prigioni con la violenza della polizia, con il femminicidio, possiamo
trovare una violenza strutturale che le connette. Angela Davis lavora sulle
prigioni negli Stati uniti e in Brasile e sostiene che la violenza delle
prigioni si manifesta attraverso un razzismo che colpisce i poveri e le donne
in modo strutturale, una violenza dello Stato che articola disuguaglianze
sociali fondamentali. D’altra parte dobbiamo considerare che i media hanno i
loro cicli. Quanto più ci appoggiamo ai media per creare connessioni
transnazionali, tanto più dobbiamo stare attenti al modo in cui il ciclo dei
media ci fa diventare una notizia che un attimo dopo scompare. C’è un momento
in cui siamo in sciopero e poi chi se ne ricorda? Che cosa succede poi? Come si
traduce questo in pratiche o nuovi network, in nuove possibilità per i movimenti?
Il modo in cui i media gestiscono lo sciopero di un giorno può dargli vita per
un momento e poi estinguerlo. Dobbiamo trovare modi per lavorare contro questa
temporaneità dei media per sostenere le nostre connessioni politiche.
Il problema riguarda però la capacità di
accumulare sufficiente potere da forzare i media a dare conto di quello che
accade. Lo sciopero è precisamente un modo di dare prova di un potere, che è in
primo luogo il potere di non essere vittime, di rifiutare una condizione di
oppressione.
Sono d’accordo. Dire, come spesso fanno i media, che le donne non si
mobilitano o che siamo ormai post-femministe per me non è altro che una
barzelletta. Non sarò mai post-femminista. È grandioso avere un momento globale
in cui le donne emergono in marcia, come è successo a Washington e in tutto il
mondo il 21 gennaio, ma questo deve continuare a succedere, e abbiamo bisogno
di scioperi e manifestazioni che abbiano le loro infrastrutture, i loro
network, i loro modi di sviluppare fini e strategie e forme di resistenza.
Dobbiamo costruire queste connessioni.
La marcia del 21 gennaio e lo sciopero
dell’8 marzo hanno visto le donne protagoniste ma hanno coinvolto moltissimi
altri soggetti. Le donne in queste occasioni hanno posto una questione
generale, ad esempio rifiutando le politiche neoliberali che smantellano il
welfare e che impongono proprio alle donne di farsi carico del lavoro
riproduttivo e dei servizi che non sono più erogati dal pubblico. A questo
riguardo, pensi che le donne, in virtù della loro posizione materiale e
simbolica, possano avere anche una posizione specifica nella lotta contro le
relazioni neoliberali di potere su scala globale?
Io penso che le donne debbano assumere una posizione politica specifica per
via del fatto che sono prioritariamente responsabili di relazioni di cura nei
confronti dei bambini o degli anziani, e quando i servizi dello Stato e
pubblici sono distrutti dal neoliberalismo o dal fallimento di altre
infrastrutture, penso che questo ponga su di loro un carico ulteriore che ha
effetti anche sul lavoro produttivo. Vorrei dire anche, però, che è
estremamente importante includere tra le donne anche le donne trans, che
dobbiamo avere una visione più ampia di che cosa significa essere una donna,
una visione che includa anche le donne che non prendano parte alla riproduzione
o al lavoro domestico, che hanno scelto di non essere o semplicemente per altre
ragioni non sono sposate, che hanno altre alleanze sessuali e sono senza figli.
Le donne ora vivono forme sociali molto diverse che includono e devono
includere anche le donne trans. Uno dei problemi che ho con l’idea che le donne
siano completamente identificate con la sfera riproduttiva è che in questo modo
si operano delle restrizioni. Se, nel cercare di dare una specificità e una
visibilità alle condizioni materiali delle donne, stabiliamo una specifica
comprensione simbolica di che cosa la donna è, tutte le donne ne sono colpite,
diventa un limite.
Sono completamente d’accordo, e il punto
mi sembra precisamente la possibilità di rifiutare quel modo di essere
identificate come donne. Si tratta di rifiutare la divisione sessuale del
lavoro che costringe le donne a occupare certi ruoli, proprio questo rifiuto
diventa politicamente rilevante oggi. Ma allo stesso tempo l’idea di includere
le persone trans nella categoria delle donne non rischia di limitare la
possibilità di questo rifiuto, esattamente perché presuppone una definizione
identitaria di che cosa sia «donna»?
Non credo. Sta già succedendo. Ci sono persone che vivono come donne, senza
essere riconosciute come tali. E ci sono persone riconosciute come donne che
non si pensano affatto come donne. Dobbiamo accettare che spesso la percezione
sociale non corrisponde all’esperienza vissuta delle persone. Non è solo una
questione identitaria perché riguarda il modo in cui sei trattata a casa, a
scuola, nelle istituzioni religiose, nel lavoro, se sei chiamata nell’esercito,
quale bagno usi… ci sono un sacco di questioni pratiche che dipendono dalla
designazione di genere, che può anche avere implicazioni concrete sulla
vivibilità o invivibilità della vita. Se qualcuno mi interpella come donna in
un certo modo e si aspetta che io viva in quel modo, in certe circostanze
sociali, non potrei vivere in quella società, dovrei andarmene, ci sono
implicazioni concrete e materiali che seguono a questo tipo di designazione e
penso che se ci limitiamo a parlare di questioni di identità ‒ come ti
definisci, qual è il tuo pronome, se è una questione di scelta individuale e di
nominare se stessi – ci sfugge il fatto che spesso si tratta di una questione
di vita o di morte.
Capisco il punto ma mi piacerebbe
insistere. Da una parte sostieni, e sono d’accordo, che sia necessario
rifiutare l’identificazione delle donne con le loro funzioni riproduttive, con
i ruoli di madre, moglie, di coloro che sono ‘naturalmente’ deputate alla cura.
In questo senso non si tratta semplicemente di una scelta individuale, ma di
contestare l’imposizione di un ruolo e di una posizione sociale e la
riproduzione di un rapporto di potere che presuppone quel ruolo e quella
posizione. Dall’altra sostieni che altre soggettività di genere dovrebbero
essere considerate donne, perché questo colpisce materialmente la loro
possibilità di vivere. È indiscutibile che sia necessario allargare il
riconoscimento di diritti civili e sociali, ma non c’è una qualche
contraddizione tra il primo e il secondo punto, nella misura in cui il primo
implica il rifiuto di una definizione che comporta anche l’imposizione di un
ruolo, mentre il secondo la presuppone?
Questo mi permette di chiarire quello che intendo. Penso che ci siano molte
donne che vogliono essere e sono madri e questo significa molto per loro, e non
dovrebbero rifiutarlo, è grandioso che siano madri, hanno un grande piacere a
essere madri e a vivere come vogliono vivere, e ci sono donne che vogliono
essere sposate ed essere sposate con uomini. E se lo vogliono e questo le
soddisfa è giusto e non devono rifiutarlo. Ma dare una definizione di donna che
valga per tutti è un errore. Perché questo limita le possibilità all’interno
dello spettro di che cosa significa essere una donna. Ci sono altre che non
vogliono essere madri ma si pensano nonostante tutto come donne, che hanno
relazioni di convivenza senza essere sposate e non intendono farlo, e questo è
un altro spettro di possibilità in quello che chiamiamo essere donna. E ci sono
donne trans che sono donne in molti modi, che sentono con forza che questo è
esattamente ciò che sono socialmente e psicologicamente, e vogliono vivere in quella
categoria ma non hanno lo spazio di farlo. Non penso che quelle che sono
sessualmente donne debbano rifiutare di fare figli o di sposarsi, non lo direi
mai, ma ci sono lesbiche che vogliono sposarsi e questo va bene, e ci sono
trans che vogliono avere figli e sposarsi e questo va bene, e se non vogliono
sposarsi e avere figli potrebbero comunque essere coinvolte nella cura dei
figli con altre persone, non dobbiamo prendere una sola scelta e renderla una
norma per tutti, questa sarebbe una forma di violenza simbolica.
Lo sarebbe senz’altro. Ma non
bisognerebbe perdere di vista una critica della famiglia come luogo in cui si
organizzano rapporti di oppressione e di dominio. Se guardiamo la cosa dal
punto di vista della libertà individuale è certamente necessario mantenere
l’apertura che hai appena descritto. Ma istituzioni come il matrimonio e
persino la scelta, certamente personale, della maternità vanno anche pensate in
relazione al loro significato sociale, ai ruoli che prescrivono alle donne ed è
in questo senso che sono state oggetto della critica femminista. Proprio questo
cercavo di dire all’inizio: le donne in un certo modo hanno la possibilità,
proprio perché si suppone che occupino certe posizioni, di criticare quelle
istituzioni in quanto riproducono rapporti sociali di potere.
Capisco questo, ma penso che le istituzioni abbiano una storia, non sono le
stesse in ogni cultura e contesto storico. Per esempio, se il femminismo vuole
essere globale è estremamente importante che veda che non tutte le donne si
muovono in una cornice di libertà individuale come in Europa, che ci sono
diversi rapporti di connessione familiare e parentela che allargano la
famiglia, e che questa non ha solo la forma della famiglia nucleare. Se
pensiamo alla parentela e alla famiglia nucleare come una modalità di parentela
tra le altre, e a relazioni di sostegno diverse dalla famiglia nucleare,
partire da un modello occidentale è un’ingiusta imposizione culturale. Non mi
interessa la questione della scelta personale e individuale, mi interessa di
più che cosa è invivibile, è una cornice diversa, perché per alcune persone non
sarebbe vivibile la struttura familiare o la struttura di parentela allargata,
mentre per altre persone è l’unico modo per sopravvivere e fiorire, e altre
persone vivono forme di ambivalenza fortissime nella struttura familiare, come
uomini che si prendono cura della casa o curano i figli o sono in rapporti che
non dipendono dalla divisione sessuale del lavoro. Ci sono alcune persone che
stanno attivamente ristrutturando questi rapporti e ci stanno riuscendo in
qualche misura, le famiglie lesbiche e gay non sono famiglie tradizionali, sono
famiglie miti, ci sono madri dal primo matrimonio o dal secondo matrimonio, con
un padre gay, le relazioni di amicizia possono dare strutture di parentela più
elaborate. Non penso che possiamo risalire a Engels per trovare la famiglia
come una struttura oppressiva che rimarrà sempre tale, l’analisi strutturalista
non ci permette una concezione storica della famiglia, e io penso che ci serva
un’analisi che ci permetta di capire come questa istituzione funziona.
Sono d’accordo che non si possa
prescindere dalle condizioni storiche in cui si articola la critica alla
famiglia. Ma mi pare anche piuttosto chiaro che nelle condizioni attuali, in
Europa e non solo in Europa, il neoliberalismo sta riportando al centro una
concezione tradizionale della famiglia, e quindi prescrivendo alle donne una
specifica posizione, perché si tratta di una struttura fondamentale di
riproduzione della società, tanto più in un contesto in cui la fine di ogni
politica sociale impone un’assoluta individualizzazione delle responsabilità
per la propria vita come quella che tu stessa descrivi nella tua riflessione.
Mi pare che questo renda necessaria una critica femminista della famiglia e non
solo l’idea che debba essere allargata a figure che non rientrano nel suo
modello.
Capisco quello che dici e possiamo complicare ancora di più questa
situazione perché abbiamo un femminismo neoliberale, abbiamo Hillary Clinton,
lei si è fatta da sola, è un autoimprenditrice, vuole che le donne avanzino
negli affari, che facciano le piccole imprenditrici, si è forse preoccupata se
la cura dei figli sia finanziata e non sia soggetta a tagli e coinvolta in
politiche di austerità? Avrebbe dovuto! E invece è con i Clinton che sono
cominciati i tagli ai welfare e l’abbattimento di tutto quello che è rimasto
della socialdemocrazia negli Stati uniti. Molte donne non hanno votato per lei,
molte donne nere non si sono sentite rappresentate da lei, molte donne bianche
povere non si sono sentite rappresentate da lei, il suo femminismo è
completamente centrato sull’autoavanzamento e questo è l’obiettivo neoliberale.
Questo è stato un punto ampiamente
dibattuto nell’accademia negli Stati uniti quando Nancy Fraser ha sostenuto che
il femminismo è diventato l’ancella del neoliberalismo, e che questo è accaduto
nel momento in cui le identity politics hanno preso il posto delle istanze di
redistribuzione della ricchezza durante gli anni ’80.
Penso che anche qui dobbiamo distinguere il femminismo che è diventata una
politica ufficiale di Stato, anche se per certi versi non lo è più, non abbiamo
più femminismo nelle istituzioni e nemmeno donne, è stato un colpo di coda
durissimo. Ma molti aspetti del femminismo socialista, del movimento delle
donne contro la violenza, o dei movimenti contro la povertà che in modo
sproporzionato colpisce le donne non sono stati ascoltati dal femminismo
ufficiale. Ed è una pena vedere come il femminismo sia stato incorporato, ne
saranno forse contente le femministe liberali, che sono soprattutto o
esclusivamente bianche, ma la critica del liberalismo o del neoliberalismo non
è certo esaurita.
Questo ci riporta alla capacità dei
movimenti di consolidarsi. Nelle tue note sulle assemblee hai molto insistito
sul fatto che le assemblee sono temporanee, contingenti, e sottolinei che ciò
non è necessariamente un limite perché possono accadere in ogni momento. Questa
idea di contingenza o transitorietà come si confronta con il problema della
continuità e dell’organizzazione delle assemblee? Se la contingenza è il modo
di essere delle assemblee, non c’è il rischio che solo la loro rappresentazione
nelle istituzioni possa dare loro continuità?
Oltre alla temporaneità io ho sottolineato che le assemblee possono
articolare un certo tipo di critica. Per esempio anche lo sciopero delle donne
dell’8 marzo ha articolato dei principi, per cui il punto diventa come quei
principi sono tradotti in pratiche e organizzazione e movimento. Penso che il
grande momento pubblico abbia un’importanza quando i principi che annuncia sono
raccolti da altri tipi di movimento che magari non sono così spettacolari e
pubblici. Ma c’è un altro punto che mi interessa sottolineare: un’assemblea che
dura molto tempo diventa un accampamento, o magari un’occupazione, che dura più
tempo o si allarga e può diventare un movimento sociale e anche una lotta
rivoluzionaria. A seconda da quanto spesso accadono, da quanto grandi
diventano, da quanto a lungo durano, puoi tracciare il modo in cui ciò che
comincia come un piccolo gruppo di persone che si riunisce può trasformarsi nel
tempo e nello spazio in un più largo e sostenuto movimento sociale. Questo mi
interessa e mi porta a pensare allo sciopero generale, non uno sciopero per un
giorno, non «oggi non lavoriamo», ma «non lavoreremo più finché non cambiano le
condizioni», non solo questo giorno ma ogni giorno finché queste condizioni
sono mantenute. Lo sciopero generale è il rifiuto di un regime, di un’intera organizzazione
del mondo, della politica, di un regime di apartheid, di un regime coloniale,
li abbiamo visti abbattuti dai movimenti di massa. So che la gente dice che i
movimenti non possono fare niente, invece lo fanno, sbagliamo a sottovalutare
il potere dei movimenti di massa, ma ci vuole tempo per accumulare e la gente
deve avere più di qualche slogan per andare avanti, devono sapere che ci sono
principi, un’analisi, per potersi considerare parte di quello che sta
succedendo e che quello che accade in una parte del mondo è connesso a quello
che succede da un’altra parte. Se pensiamo alle popolazioni che sono rese
precarie dalle politiche economiche neoliberali, o da governi autoritari, o
dalla decimazione dei beni pubblici, dei sussidi, dell’educazione, della
salute, ci sentiamo molto soli finché non realizziamo che altri stanno facendo
esperienza dell’accelerazione e intensificazione della povertà o dell’abbandono
o della perdita del lavoro. Deve essere chiaro che questo accade sul piano
transnazionale e deve essere messo in termini che la gente possa capire, perché
possa riconoscere l’ingiustizia della propria sofferenza. C’è il pericolo che
la gente pensi che la propria situazione è solo un problema locale, quando
invece ha una dimensione transnazionale. E se possiamo tornare indietro alla
lotta al femminicidio, quella è un’enorme ispirazione per me, perché ci sono
statistiche terribili su quante donne e quanti trans sono uccisi in un posto
come l’Honduras, che forse ha le statistiche peggiori, in Brasile in Argentina,
sono statistiche sconcertanti, ma lo sforzo di costruire network tra le donne e
quelli che si oppongono ai femminicidi è impressionante. Mi rendo conto di
quanto duro debba essere leggere quelle statistiche, riunirsi e fare un’analisi
che la gente possa accettare e quanto è stato importante per quel movimento
essere prima di tutto interamericano, e che i tribunali abbiano dichiarato il
femminicidio un crimine. Il problema è che la polizia in tutti quegli Stati non
ha nessuna intenzione di farsi carico del crimine e riconoscerne l’importanza,
e spesso arrestano le donne che denunciano, è un terrorismo di Stato inflitto a
coloro che portano questo problema in pubblico, perché la struttura del
patriarcato locale e le alleanze patriarcali tra la polizia e lo Stato sono
molto forti. Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle
strutture dello Stato, in cui si mettono in relazione con le organizzazioni per
i diritti umani e si rivolgono alle corti interamericane e producono alleanze
transnazionali non dipende dal potere dello Stato, ma chiede conto allo Stato
della sua complicità. Penso che questo sia enormemente interessante, è una
mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale, quindi penso
che dovremmo studiare questi movimenti e trarne ispirazione. Forse non sono
ancora riusciti a porre fine a questa pratica atroce, ma hanno allargato la
possibilità di farsi ascoltare, ora il mondo sa che cosa accade, e hanno
prodotto network per supportarsi e sviluppare impressionanti pratiche di
resistenza
Una versione abbreviata di questa
intervista è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 1 luglio 2017
L’intervista è stata realizzata
mercoledì 28 giugno a Bologna, dove Judith Butler si trovava come promotrice
della conferenza internazionale «The critical tasks of the University» e per partecipare alla Summer School
«Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and
Critical Theory (Duke University, University of Virginia,
Università di Bologna)