- GIGI ROGGERO-
recensione
del volume scritto da Luca Chiurchiù, dedicato alla storica rivista
“maodadaista”, con la prefazione di Bifo
/si colloca all’interno di una miriade di riviste grandi e piccole, la cui importanza è sottolineata dal volume
/nel ’76 il sottotitolo di A/traverso cambia: non più “giornale dell’autonomia” ma “giornale per l’autonomia”
/si colloca all’interno di una miriade di riviste grandi e piccole, la cui importanza è sottolineata dal volume
/nel ’76 il sottotitolo di A/traverso cambia: non più “giornale dell’autonomia” ma “giornale per l’autonomia”
«Scrivere questo libro ha significato soprattutto rimettere insieme i pezzi
di un oggetto rotto, riassemblare i frammenti di un’unità ormai perduta». Così
si conclude l’acuto volume di Luca Chiurchiù,
La rivoluzione è finita abbiamo vinto. E così inizia la sua
ricerca, concepita per la tesi di laurea dell’autore, successivamente diventata
un libro. L’“oggetto rotto” in questione, l’“unità ormai perduta”, è la rivista A/traverso,
di cui Chiurchiù ricostruisce storia e sostanza. Una storia legata,
innanzitutto, al movimento del doppio Sette, anno concretamente simbolico
assurto a paradigma di un ventennio di lotta di classe. Una storia legata, in
modo niente affatto secondario, a una città, Bologna, in cui il Settantasette
ha avuto caratteri al contempo specifici e generali, una città che di
quell’anno riassume almeno in parte potenza, possibilità e nodi irrisolti.
L’autore si concentra sui numeri della rivista che vanno dal 1975 al 1979,
anno marchiato da un altro 7, di segno opposto, quello di aprile, firmato da
Calogero e dal Pci. Ne usciranno altri due numeri, nell’80 e nell’81, che a
quel punto del futuro non cercheranno più l’anticipazione, si limiteranno a
testimoniarne l’esaurimento. Con una scrittura chiara e penetrante Chiurchiù
centra la sua analisi sul tentativo fatto da A/traverso di
“mettere in moto la rivoluzione dal linguaggio”, mischiando Mao con Dada,
Artaud con Majakovskij. Tentativo che va inquadrato nel contesto dei movimenti
e dei conflitti di quei due straordinari decenni, di cui l’autore fornisce
introduttivamente una ricostruzione sintetica e accurata, per quanto a tratti
un po’ scolastica. Nel libro si prova anche a tratteggiare le figure, gli
ambienti, gli umori sociali in cui presero vita l’esperienza di questo “piccolo
gruppo in moltiplicazione” e quella, genealogicamente e politicamente gemella,
di Radio Alice.
Il primo editoriale della rivista afferma con precisione: “il problema
della ricomposizione è il problema del passaggio dall’estraneità diffusa e
dissoluta alla ricostruzione di nuovi strumenti di aggregazione e
collettivizzazione del desiderio”. Moltiplicazione e ricomposizione, due
concetti chiave, che ruotano attorno a un asse centrale: il rifiuto del lavoro,
non utopia o ideologia astratta, ma comportamento di rottura storicamente
determinato. È dal quel rifiuto, diffuso e massificato, che trae forza la
soggettività di movimento che può distruggere la macchina capitalistica, ed è
nel processo di questa distruzione che si forgiano le capacità per costruire un
nuovo mondo. Altroché ricette e soli dell’avvenire, il cielo sta sotto i piedi
di una “jacquerie senza bandiere”.
A/traverso si colloca all’interno di una miriade di riviste grandi e piccole, la cui
importanza è sottolineata dal volume. Nel ’76 il sottotitolo cambia: non più
“giornale dell’autonomia”, ma “giornale per l’autonomia”. Proprio perché
l’autonomia è fondata sulla materialità delle pratiche di conflitto e rifiuto,
la stessa distinzione tra autonomia creativa e autonomia organizzata andrebbe
posta in un rapporto di tensione più che fissata rigidamente in una secca
contrapposizione. Il dibattito politico, anche aspro, è semmai su come quel
rifiuto si ricompone in forza d’attacco, come l’estraneità al lavoro e alla
politica istituzionale si ribalta in potenza autonoma. Ma la base materiale
della creatività e dell’organizzazione è affatto comune. Tant’è che A/traverso si
scaglierà programmaticamente contro i professionisti della creatività, le
figure dell’avanguardia artistica e dell’intellettuale, la prima riassorbita
dentro il movimento reale, la seconda messa al lavoro e proletarizzata. Tenterà
di essere “avanguardia celibe” e intellettuale collettivo, di “leggere nella
merda” – come recita un editoriale del ’76, – perché solo lì si può afferrare
la maledetta materialità dei bisogni, dei comportamenti e delle pratiche, la
radice concreta del linguaggio, di ciò che viene rimosso, del profumo
dell’essere. Quanto avrebbe da insegnare quella lezione ai grigi intellettuali
che oggi hanno l’ardire di definirsi “militanti”, con la loro puzza sotto il
naso, con la loro schifata spocchia per la sporcizia dei comportamenti sociali.
A questo punto, immerso e affascinato dalla radicalità di questo
esperimento (quello di A/traverso, in quanto prodotto specifico di
quella potenza autonoma), Chiurchiù si pone correttamente un problema: si può
studiare una rivista avanguardistica che voleva porsi oltre qualsiasi forma di
esegesi, perfino distruggerne la possibilità? Consapevoli dell’azione di
volontaria chiusura nei confronti del potere e dei suoi servitori, si può
ricostruire un archivio di chi rifiutava la forma-archivio, rimettere insieme i
pezzi di una rivista il cui supporto cartaceo sembra quasi essere stato scelto
appositamente per dissolversi rapidamente? La risposta è sì, ci dice l’autore,
a patto che si faccia i conti con la contraddizione. Aggiungiamo: è una
contraddizione che è nelle cose, non solo nelle parole che descrivono le cose.
Il capitale è una formidabile macchina di produzione, di organizzazione e di
cattura: il museo arriva in ritardo rispetto alla dirompenza delle avanguardie,
e tuttavia se non lo si distrugge per tempo arriva. La sovversione dei
linguaggi di Radio Alice e di A/traverso le ritroviamo nei decenni
successivi dentro l’industria della comunicazione neoliberale: con segno
opposto, senza più sovversione. Il desiderio e la prassi molecolare, a partire
dagli anni ’80, sono divenuti merci con cui riempire gli scaffali dei
supermercati tangibili e virtuali. Cosa è cambiato nel frattempo? I rapporti di
forza: la risposta è semplice, e qua non c’è “post” che tenga.
Nel gennaio del ’78 A/traverso prova a rilanciare in
avanti: la rivoluzione è finita abbiamo vinto, ma noi facciamone un’altra.
Invece, incapaci di trasformare la sovversione in rottura, la rivoluzione
l’hanno rifatta i nostri nemici chiamandola innovazione. Il cielo è caduto
sulla terra, e il capitale è riuscito ad appropriarsene trasformandolo in un
inferno. È andata così, certo. Eppure, non doveva necessariamente andare così.
Soprattutto, non sta scritto da nessuna parte che debba continuare così.
Dipende da noi.
Per favore non prendiamo il potere, ripete A/traverso; però il
potere continua a prendere noi. “Guai a chi smette. Guai a chi continua”: se
c’è chiarezza nell’individuare cosa non funziona più, la difficoltà è
individuare cosa può funzionare. Quarant’anni dopo o giù di lì, siamo ancora e
in modo nuovo attorcigliati in questi nodi. Senza rottura, non si esce dal
cielo infernale. Non concediamo alcuno spazio alla disperazione, non concediamo
alcuno spazio all’euforia. La traversata del deserto continua. Ma come ci
spiegava Huey P. Newton il deserto non è un circolo, è una spirale. Quando
siamo passati attraverso il deserto, niente sarà più come prima.
La recensione de La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista «A/traverso»”, DeriveApprodi, 2017, pp. 206
è pubblicata anche su alfabeta2 e commonware
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