-ARCHIVIO MULTIMEDIALE LFB-
«Pensiamo che una politica dei governati sia
il modo per tradurre la debole istanza populista in reali contropoteri sociali,
affrontando i dispositivi del governo per incepparli o per rovesciarli e per
costruire autentici percorsi di istituzionalizzazione del desiderio e della
libertà»
La questione del populismo, al di là del campo che esso perimetra e che altri intendono come spazio per battaglie di egemonia (che andrebbero comunque praticate con elasticità e realismo), ci sembra prestarsi prima di tutto a una lettura sintomatica. È un modo per porre al centro dell’attenzione la crisi strutturale in cui versa la rappresentanza politica e la domanda urgente di effettiva partecipazione che la innesca e attraversa, e di cui appunto i populismi ci appaiono come macroscopica sintomatologia. Se il populismo è da leggersi all’interno della cornice di crisi profonda che attraversa la democrazia rappresentativa, non pare però articolarsi come un tentativo di rottura del meccanismo elettorale o come una critica generale della logica stessa della rappresentanza. Sembra invece darsi, da un lato, come una rivendicazione di maggiore visibilità e di riconoscimento, come desiderio di Stato e d’integrazione nello Stato a fronte di una distanza dalle istituzioni, quest’ultima percepita come sempre più marcata. Dall’altro, si declina spesso come virulento attacco alla “politica come professione” e parallela richiesta di assunzione del primato della “professionalità”, in nome di un’ingannevole ideologia del “merito” per cui gli attori della politica dovrebbero essere innanzitutto ed essenzialmente onesti e capaci.
Il
fatto che il discorso populista, e i populismi realmente esistenti, rimangano
questioni tutte interne alla democrazia rappresentativa – senza che venga mai
proposta una critica del meccanismo concettuale (e pratico) della logica
moderna della rappresentanza – è attestato dal continuo richiamo alla
“sovranità popolare” che, in alcune sue improbabili varianti, si declina nella
lotta contro l’Europa in una versione dal cattivo retrogusto nazionale (se non addirittura nazionalista). Sembra essere presi in un gioco tutto moderno, insomma: e non è
un caso che il sistema operativo del M5S si chiami proprio Rousseau. Ancora una
volta, appare il Potere (con la P maiuscola), e se ne dimentica la trama di cui
sono intessute le nostre relazioni, i nostri posizionamenti e i rapporti che
intratteniamo gli/le uni/e con gli/le altri/e. Sebbene si faccia continuamente
appello all’immediatezza, all’assenza di intermediazione tra la “gente” e il
Potere, non si dà già forse astrazione, se non nel leader carismatico,
quantomeno nell’ipostatizzazione di un soggetto, vuoto appunto, quale è il
“popolo”? Leggiamo questo nella marginalizzazione, anche in certi discorsi
populisti “di sinistra”, della componente migrante e delle soggettività
LGBTQIA, o nella risibile accusa di complicità con il neoliberalismo rivolta al
femminismo. E in questo appello alla democrazia diretta, come nel ricorso a
volte a un incarnato empatico, non si rischia forse di perdere la complessità
delle narrazioni che ci costituiscono?
Ma se,
premesso questo (e tenendolo sempre presente), volessimo provare ad afferrare
quegli elementi del discorso populista che risultino utilizzabili in una
prospettiva di radicale trasformazione dello “stato di cose presenti”, si
potrebbe dire che i populismi hanno il merito di rendere visibile la scissione
che separa i due corpi del popolo: da un lato, il Popolo dell’operatore
rappresentativo, l’Uno dentro cui la rappresentanza prova a costringere la
moltitudine, personificandolo in una volontà generale; dall’altro, il popolo
che la retorica populista identifica con il popolo «reale», la «gente», il
«vero» sovrano. Quest’ultimo è il popolo la cui materialità va indagata e
politicamente organizzata all’altezza di rapporti di produzione e riproduzione
sociale che non sono più quelli dell’era fordista. Chi pensa il popolo
nell’atto di tracciare la frontiera antagonista che lo oppone alle élite, ai
«politici», all’economia finanziaria del turbocapitalismo, incrociando le
braccia sulla Rust Belt, probabilmente non ha capito
che questo popolo non esiste più e che gli algoritmi globali del capitale lo
hanno smaterializzato nei bits del debito, nelle rimesse dei migranti nei paesi d’origine, nei
nodi delle reti delle grandi imprese con i loro flussi transnazionali.
Il
nostro problema, allora, è effettivamente quello di dare corpo al popolo, e
cioè di assegnare il soggetto politico alla differenza, articolandone
politicamente l’eterogeneità e di riconoscere, allo stesso modo, che le “élite”
non sono al loro interno omogenee, ma bensì complesse e attraversate da
contraddizioni. Il popolo è articolato sui molti livelli in cui si misura con i
dispositivi di governo di un potere che si è fatto tecnico, amministrativo,
post-democratico in senso proprio, e che non ci interessa integrare con
supplementi di rappresentatività.
estratto dagli Appunti del lavoro seminariale svolto dal
Collettivo di redazione dell’«Archivio-Luciano Ferrari Bravo»