di Lelio Demichelis
la vecchia distinzione tra
tempo di lavoro e tempo libero e di vita è stata cancellata da un’economia che
impone di mettere al lavoro la vita intera di tutti e dall’imperativo di dover
essere sempre connessi, con gli orari che si allungano, i ritmi che si
intensificano e cresce la flessibilità e la precarietà del lavoro, che è un
altro modo per intensificare/sfruttare il lavoro
Se non fosse oggi l’uomo più ricco del mondo – secondo l’ultima classifica
della rivista americana Forbes pubblicata
nei giorni scorsi – per gli ideologi (o gli intellettuali organici) del
neoliberismo in servizio permanente effettivo, il messicano Carlos Slim sarebbe
un pericoloso sovversivo perché sovvertitore del magico ordine del libero
mercato e negatore della sua altrettanto magica mano invisibile.
Cosa ha detto di così scandaloso e
di eretico l’uomo più ricco del mondo, messicano ma
di origini libanesi e imprenditore di successo? Ha detto – parlando a un
Seminario ad Asunciòn, in Paraguay – che per ridurre la disoccupazione
dilagante nel mondo occidentale e per dare più qualità alla vita delle persone
bisogna ridurre gli orari di lavoro.
Secondo Slim bisognerebbe lavorare solo tre giorni alla settimana. Certo,
lavorando magari anche 11 ore per ciascuno di questi giorni. Ma è la prima
parte del suo ragionamento che qui vogliamo sottolineare. Ridurre l’orario di
lavoro. Liberarsi dalla fatica e dal peso del lavoro sulla vita. È stato il sogno del Novecento e dei suoi
intellettuali migliori, sogno in gran parte realizzatosi soprattutto nei primi
trent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, quelli della democratizzazione del capitalismo come li ha
definiti Wolfgang Streeck.
Poi – scena rovesciata e inizio della de-democratizzazione del
capitalismo – negli anni Novanta del secolo scorso sono state
le retoriche o i conformismi allora dominanti a sostenere che il pc avrebbe
liberato il lavoro dalla fatica, che avremmo tutti lavorato di meno e avuto
quindi più tempo libero, che stavamo entrando nella nuova fase, ovviamente
virtuosa, del lavoro immateriale, cioè intellettuale più che fisico,
nell’economia della conoscenza, nel capitalismo cognitivo e persino nel
punkcapitalismo, nella wikinomics eccetera eccetera.
Oggi, invece – effetto inevitabile delle nuove tecnologie e della
organizzazione in rete del lavoro – chi lavora lavora più di prima, la vecchia
distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero e di vita (distinzione che dava
qualità alla vita, tenendo separati due mondi che sono alternativi) è stata
cancellata da un’economia che impone di mettere al lavoro la vita intera di tutti, dall’imperativo di dover essere sempre connessi, con gli orari che si
allungano, i ritmi che si intensificano e cresce la flessibilità (e la
precarietà) del lavoro, che è un altro modo per intensificare/sfruttare il
lavoro.
E dalla promessa di un’economia della conoscenza e di un lavoro immateriale
quasi-senza-più-fatica siamo in fretta caduti (ma così era nelle premesse) in
un nuovo pesante taylorismo, analogo a quello di cento anni fa, anche se
virtuosamente digitale. Dove la rete è la vecchia
catena di montaggio ma con altro nome. Mentre i tentativi di fine anni Novanta,
fatti in Francia (riusciti, ma poi più volte attenuati) e in Italia (fallito),
di arrivare alle 35 ore di lavoro per legge sono
stati sommersi da cori di contestazione e di riprovazione in nome della libertà
individuale e del libero mercato, dimenticando che in Germania (ma non solo)
molte categorie avevano ottenuto le 35 ore già nel 1995.
Eppure, l’economista John Maynard Keynes nel 1930, nelle sue famose Prospettive economiche per i nostri nipoti sosteneva
– guardando appunto al futuro – che “per la prima volta dalla sua creazione
l’uomo si troverà di fronte ad un nuovo problema, quello di come impiegare il
tempo libero e la sua libertà dalle occupazioni economiche”. Certo, per un uomo
allenato per secoli a faticare questo non sarebbe stato facile, continuava
Keynes che ancora non immaginava tuttavia quanto l’economia capitalista avrebbe
poi trasformato anche il tempo libero, l’arte e la cultura in merci e
soprattutto in industria da cui trarre profitto per sé (meno per gli uomini).
Ma aggiungeva: “dovremo adoperarci a far parti accurate di questo ‘pane’
affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito tra quanta più gente
possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di
quindici ore (…) sono più che sufficienti per soddisfare il
vecchio Adamo che è in ciascuno di noi”.
E dunque, da Keynes a Carlos Slim? L’idea di ridurre l’orario di lavoro per
ridare qualità alla vita degli uomini torna forse di attualità? Carlos Slim
aggiunge: questa riduzione avrebbe effetti positivi sulle industrie del
turismo, dell’intrattenimento e dell’ozio. Le persone potrebbero dedicare più
tempo alla famiglia e ai figli, ma anche dedicare più ore alla cultura, allo
studio, all’approfondimento. Certo, Slim ha proposto anche di alzare l’età del
pensionamento a 70 o a 75 anni. Così rimanendo dentro al discorso capitalista. Riprendendo con la destra
ciò che aveva offerto con la sinistra, perché ovviamente Carlos Slim non è un
comunista, né un libertario, né promette di liberarci dal lavoro capitalista. E
tuttavia, questa idea che sembra risorgere per voce di un supercapitalista come
appunto Slim è un’occasione da cogliere al volo.
Se ci fosse ancora una Sinistra. Perché ci
eravamo oramai dimenticati – tutti presi dai nuovi ritmi di lavoro,
perennemente stressati e incapaci di fermarci, compulsivamente connessi a un pc
o a uno smartphone – che la vita è anche altro e soprattutto può essere molto
meglio rispetto a quanto ci impongano mercato e rete. E che dunque si potrebbe
anche lavorare diversamente. Ma soprattutto ci siamo dimenticati che la stessa
rete ci aveva fatto delle promesse che non ha mantenuto. Anzi, ha realizzato il
contrario di ciò che prometteva.
Come il capitalismo, che con la promessa della massima libertà per
l’individuo poi ha creato e continuamente ricrea una infinità di poteri che lo
prendono, lo circondano, lo avvolgono, lo assoggettano, lo disciplinano, lo
alienano da se stesso per farne un capitalista – e
solo quello. Forse, potremmo/dovremmo ricordare queste verità, per non passare
ancora per bambini che credono alle favole, quella della rete libera e
democratica e quella della mano invisibile del mercato. E per ricordare alla
rete, ai mercati, alla speculazione finanziaria, alle oligarchie vecchie e
nuove (ma in realtà a noi stessi) che ad essere sovrani nel
senso del demos (e quindi con il potere di decidere come lavorare
e quanto e perché e per chi) siamo noi; non la rete, non i mercati, non le
oligarchie.