di Stefano
Nanni
Tamar Aviyah, attivista
della sinistra israeliana (in prima linea anche in questi giorni a manifestare nelle strade di Tel
Aviv per chiedere di fermare “il genocidio in corso a Gaza”, nonostante gruppi
di estrema destra si siano opposti alle proteste), nell’intervista raccolta da
l’ Osservatorio
Iraq parla dell'involuzione
sempre più autoritaria della società israeliana, dove le voci di dissenso sono
ridotte spesso al silenzio
"Chiunque, in qualsiasi società,
voglia davvero combattere per la giustizia e libertà paga un prezzo molto alto.
Viene isolato, trattato da spergiuro, mentre d'altro canto, per chi lotta
insieme a te, puoi essere considerato un eroe. Ma tutto questo non può durare
per sempre: sento che il mio limite è vicino, perché nonostante la lotta i
risultati sono scarsissimi".
È Tamar Aviyah a parlare. Israeliana, ebrea,
attivista politica di sinistra per sua stessa definizione, che ancora di più in
questi giorni qualcuno considera semplicemente una "traditrice".
Perché si oppone al massacro in corso nella Striscia di Gaza, all’Occupazione
nei Territori Occupati, alle discriminazioni contro i cittadini
arabo-israeliani all’interno della sua società, così come di altre minoranze
che in Israele subiscono forti disparità in termini di diritti e giustizia. Che
si tratti di richiedenti asilo di origine africana in cerca dei propri diritti,
oppure della comunità ultraortodossa che si oppone al servizio militare, o
ancora dei cittadini arabo-israeliani beduini che si vorrebbero sradicare dalle
proprie terre nel Negev, lei è sempre lì, in prima linea, come pochi altri
colleghi e amici (“saremo in tutto poche centinaia”, ammette), a manifestare contro
le ingiustizie e l’oppressione.
Partiamo dagli scontri che si sono verificati nei giorni scorsi a Tel
Aviv, Haifa e Nazareth, tra manifestanti pacifisti in solidarietà con i
palestinesi e gruppi da te definiti “fascisti”. Cosa è successo?
Prima di tutto credo sia importante
illustrare il contesto nel quale emergono e si sviluppano questi gruppi
nazi-sionisti. Avevano infatti già organizzato altre dimostrazioni, in seguito
al rapimento dei giovani coloni, successivamente all’uccisione di Mohammad Abu
Khdeir e prima che l’operazione militare contro la Striscia di Gaza iniziasse,
principalmente a Gerusalemme, sempre inneggiando slogan come “morte per gli
arabi”.
Stiamo parlando di almeno 7 gruppi, quali
Kahana, Im Tirztu, Lehava, La Familia (i tifosi ultrà della squadra di calcio
Beitar di Gerusalemme), gli ultras del Maccabi Tel Aviv, e altri due
raggruppamenti che si raccolgono attorno al gruppo musicale hip-hop The Shadow
e al movimento religioso Shuvu Banim.
Questi gruppi erano già attivi in Israele ma
mai come in questo periodo hanno raccolto intorno a loro migliaia di persone in
strada e decine di migliaia di sostenitori su Facebook e sui social network.
Stanno ricevendo insomma un supporto incredibile, non solo da persone che hanno
un background affine, ma soprattutto da cittadini ordinari provenienti da
diversi strati della società.
Le loro azioni consistono in organizzarsi
per scendere in strada e cercare palestinesi ed arabi per picchiarli o nel
migliore dei casi per importunarli. Già erano tantissime le persone che sono
state attaccate prima dell’operazione militare, dopo la quale ci sono state
manifestazioni da parte di gruppi e attivisti afferenti a sinistra, anch’essi
presi di mira da questi nazi-sionisti.
Che, ripeto, definisco in questo modo
perché non saprei cosa dire di qualcuno che ha una matrice ultra-radicale di
destra, che inneggia all’uccisione degli arabi e indossando tra l’altro segni
distintivi di alcuni gruppi neo-fascisti europei.
La situazione è molto preoccupante perché stanno
ricevendo molto consenso, non è affatto un fenomeno marginale.
È possibile individuare eventuali relazioni tra questi gruppi e i partiti
presenti nel Parlamento Israeliano?
È molto difficile affermarlo. Per quanto
ne so c’è un partito politico, “Potere ad Israele”, non presente in Parlamento
e che è in contatto con loro. Credo inoltre che siano finanziati e sostenuti da
un coordinamento centrale, su cui però non sono in grado di dare informazioni,
perché la loro organizzazione sembra molto buona.
Aggiungo inoltre che ciò che è successo
dopo l’inizio dell’operazione su Gaza è stato uno spostamento dell’attenzione
di questi gruppi verso i manifestanti di sinistra scesi in piazza per la
cessazione delle ostilità, che sono stati picchiati e presi di mira ad Haifa,
Nazareth, Tel Aviv e Gerusalemme.
Come hanno reagito le forze di polizia di fronte a questi episodi?
Contrariamente a quanto successo in
precedenza, in condizioni “normali”, quando la polizia tendeva a separare
fisicamente i due gruppi opposti, entrambi circondati da barriere, in modo che
non ci fosse alcun contatto tra loro, nel corso delle prime dimostrazioni dopo
l’inizio dell’offensiva su Gaza a Tel Aviv, Haifa e Nazareth questo non è
avvenuto.
Le manifestazioni degli attivisti di
sinistra sono state attaccate liberamente, con infiltrazioni nel corteo,
attacchi e danni a biciclette, moto e alle stesse persone, sotto lo sguardo
della polizia che non è intervenuta subito.
Soltanto quando gli scontri si sono
intensificati i poliziotti sono intervenuti per separare i gruppi e cercare di
riportare la calma, tuttavia usando sempre la mano leggera, facendo il minimo
necessario nei confronti dei manifestanti neo-nazisti.
L’altro ieri invece a Jaffa (Tel Aviv) le
cose sono andate diversamente, senza scontri. C’è stata una dimostrazione
organizzata dal Movimento islamico nel quartiere abitato prevalentemente da
palestinesi musulmani. Più a nord di Jaffa, non lontano, c’era una
manifestazione parallela organizzata da questi gruppi di destra, che su Facebook
invitavano i partecipanti a portare armi, bastoni e bottiglie di vetro. Di loro
ce n’erano alla fine soltanto 200, molti meno di quanti avevano aderito sul
social network, che una volta riunitisi sono stati circondati dalla polizia.
Diverse strade a Jaffa sono state chiuse, in pratica la città sembrava
sottoposta ad un coprifuoco.
A cosa è dovuta questa differenza di comportamento da parte della
polizia?
A Jaffa c’è stata una decisione politica
chiara, sproporzionata rispetto alle reazioni precedenti.
Questo perché in primo luogo, il Movimento
islamico in Israele collabora molto con la polizia e le autorità in modo da
tenere la situazione sotto controllo ed evitare derive estremiste. È un caso
interessante da indagare ed analizzare, perché in sostanza c’è un tacito
accordo per cui il Movimento s’impegna a non portare avanti un’agenda politica
nazionalista palestinese.
In secondo luogo è noto che Tel Aviv e
Jaffa sono centri turistici ed economici rinomati, dove dal punto di vista
politico scontri e disordini urbani sarebbero troppo dannosi come pubblicità.
La loro dimensione internazionale porta la politica a non rischiare da questo
punto di vista: il danno in termini di immagine sarebbe troppo alto.
Sul comportamento della polizia, a mio
avviso è certamente importante sottolineare l’ambiguo comportamento nei
confronti dei gruppi neo-fascisti, ma lo è ancora di più la campagna di arresti
e persecuzioni nei confronti dei cittadini arabo-israeliani che si stanno
opponendo al massacro di Gaza.
Soprattutto lungo i confini con Gaza e
Cisgiordania, la polizia sta davvero perdendo la ragione. Non ho numeri
precisi, ma ci sono tanti casi di palestinesi che sono stati arrestati, come
Samih, intercettato dalla polizia mentre veniva intervistato su Skype e portato
in carcere, e Johayna, una delle organizzatrici di una manifestazione che
doveva tenersi l’altro ieri ad Acri (a nord del paese, ndr), arrestata anche
lei.
Sempre l’altro ieri c’è stata una
dimostrazione a Nazareth, conclusasi con l’arresto di 25 attivisti palestinesi,
6 o 7 feriti, e ad Hebron. In entrambi i casi la repressione nei confronti dei
palestinesi dell’esercito è stata fortissima, attraverso l’uso di lacrimogeni e
cannoni ad acqua.
In questi giorni ci sono stati appelli
per uno sciopero generale da parte
dell’Higher Arab Monitoring Committee. Hanno ricevuto adesione, ma qual è stata
la reazione da parte dei datori di lavoro e in generale da parte della società,
considerato anche il contro-appello da parte del ministero degli Esteri,
Avigdor Lieberman, al boicottaggio dei negozi e aziende dei cittadini
arabo-israeliani?
Questi scioperi si stanno svolgendo per lo
più nel nord di Israele, ad Haifa e nelle cittadine e villaggi abitati
prevalentemente da palestinesi, per esprimere solidarietà nei confronti dei
gazawi, e riguardano esclusivamente le attività commerciali condotte da
cittadini palestinesi.
È lì che hanno ricevuto più adesione,
mentre poca risonanza hanno avuto, ad esempio, Tel Aviv, dove la comunità araba
è abbastanza integrata con il resto degli israeliani, e mantiene uno status
sociale piuttosto elevato.
Posso dire invece che non c’è stata la
minima attenzione da parte degli israeliani ebrei. Anzi, ci sono tante pagine
su Facebook che dimostrano come alcuni abbiano invece preso parte attivamente
all'invito al boicottaggio dei palestinesi (come questa che fa appello al boicottaggio dei
cittadini arabo-israeliani quest’altra, che raccoglie i nomi di coloro che
“osano” criticare l’esercito israeliano, ndr).
Una simile situazione come e dove si inserisce nella sfera politica e
pubblica? Come reagiscono i mezzi di informazione rispetto a questi episodi, in
particolare agli scontri che ci hai descritto?
Non posso dire molto di quanto succede sui
giornali perché non seguo gran parte dei media israeliani, a parte precisi siti
e testate di cui so di potermi fidare. Così come non do attenzione a quanto
affermano e dicono i partiti di sinistra, a partire dal Labour: in entrambi i
casi, media e politica, portano avanti secondo me un’agenda sionista.
Ad ogni modo soprattutto dopo gli attacchi
ai dimostranti di sinistra ad Haifa da parte dei neo-fascisti ci sono state
diverse condanne da parte di alcuni esponenti politici, ma non le considero
sincere perché non si riferiscono a loro in quanto estremisti, e non legando le
recenti azioni al loro attivismo politico radicale di destra, che viene portato
avanti da molti anni.
Credi tuttavia che ci sia un aumento graduale nel numero di cittadini
israeliani che si oppongono alle politiche di occupazione e di discriminazione
contro i palestinesi? Come giudichi iniziative quali l’appello al boicottaggio di Nurit Peled o la lettera di 142 cittadini indirizzata alla
famiglia di Mohammed Abu Khdeir?
Ci sono stati diversi esempi, molto
interessanti, di iniziative da parte dei cittadini, come queste due lettere,
alla quale aggiungo un’altra importante azione del gruppo religioso
ultra-ortodosso Mea Shaarim, che sta distribuendo volantini e poster a
Gerusalemme con messaggi politici rivolti alla propria comunità, condannando
gli incitamenti alla violenza contro gli arabi e invitando a rifiutare l’agenda
politica sionista e nazionalista.
Per quanto importanti, questi esempi
continuano ad interessare tuttavia una piccola minoranza in Israele. Siamo
qualche centinaio, considerati traditori, nemici interni.
Andare in giro per me non è facile, perché
sembro “strana”, perché sono di sinistra. Mi è successo in questi giorni:
alcuni ragazzi mi hanno indicato da lontano e detto “questa è di sinistra”.
Questo capita a chiunque voglia esprimere pubblicamente la propria opposizione
al sionismo, all’Occupazione e che sa riconoscere la realtà politica e storica
delle narrative sioniste. E’ inutile parlare inoltre di cosa succede sui social
network, dove si sviluppano gli attacchi e le accuse più forti. Che si ripetono
anche in famiglia, tra amici e colleghi di lavoro.
C’è comunque un’altra parte della società
israeliana, non minoritaria ma neanche troppo grande, che si considera sionista
di sinistra, che riconosce i diritti dei palestinesi ma che non si esprime a
favore della possibilità che israeliani e palestinesi, ebrei ed arabi, vivano
insieme. Possono essere uguali tra di loro, ma non insieme nello stesso
contesto. Rifiutano la violenza, l’occupazione, l’uccisione di civili e
bambini, credono nei più alti valori ebraici, ma non hanno una chiara e netta
posizione politica sulla giustizia che reclamano legittimamente i palestinesi.
È una sorta di atteggiamento umanitario,
moralistico, ma alla fine non rimettono in discussione i principi del sionismo.
Cosa si prova a vivere in un contesto come questo, che appare sempre più
complesso e difficile?
Chiunque, in qualsiasi società, voglia
davvero combattere per la giustizia e libertà paga un prezzo molto alto. Viene
isolato, trattato da spergiuro. Tutto questo non può durare per sempre: sento
che il mio limite è vicino, perché nonostante la lotta i risultati sono
scarsissimi.
Un giorno andrò via, mi arresteranno o
morirò. Il regime sionista è sempre più vivo, il mondo, i mezzi di informazione
sono silenti oppure rappresentano una realtà totalmente diversa da quella che
viviamo.
La polarizzazione all’interno della
società prosegue a ritmi serrati. I neo-fascisti aumentano, la rabbia dei
palestinesi del 1948 pure. Non so dove ci porterà quest’ultimo massacro a Gaza,
così come la pulizia etnica dei palestinesi, ma le sensazioni non sono buone.
L’unica soluzione praticabile, che mi
lascia un minimo di speranza è il BDS (Boicottaggio, disinvestimento e
sanzioni, ndr) a livello mondiale, ma ha bisogno di essere sostenuto e
supportato da un numero più grande possibile di persone.