giovedì 31 luglio 2014

RASSEGNA MENSILE/07

Sommario


La disfatta morale di Israele ci perseguiterà per anni di Amira Hass

“Se vittoria vuol dire causare al nemico una pila di bambini massacrati, allora Israele ha vinto. Queste vittorie si aggiungono alla nostra implosione morale, la sconfitta etica di una società che ora si impegna a non fare un’auto-analisi, che si bea nell’autocommiserazione a proposito di ritardi nei voli aerei?”
 
 
Il Novecento di Giovanni Arrighi di Benedetto Vecchi

La casa editrice il Saggiatore ripropone a venti anni dalla prima pubblicazione «Il lungo XX secolo» di Giovanni Arrighi. Un appassionante affresco sullo sviluppo del capitalismo storico che mantiene ancora intatta la sua forza analitica




Tamar Aviyah, attivista della sinistra israeliana nell’intervista raccolta da l’Osservatorio-Iraq parla dell'involuzione sempre più autoritaria della società israeliana, dove le voci di dissenso sono ridotte spesso al silenzio



Lavorare meno, lavorare tutti di Lelio Demichelis
la vecchia distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero e di vita è stata cancellata da un’economia che impone di mettere al lavoro la vita intera di tutti e dall’imperativo di dover essere sempre connessi
 

25 anni fa se ne andava Marco Lombardo Radice, psichiatra, rivoluzionario, scrittore. Ora a rischio è il reparto di neuropsichiatria infantile a cui aveva dedicato una vita con i colleghi e un'intera comunità 
 

il futuro del sindacalismo classico e delle nuove forme emergenti di solidarietà e mutuo soccorso in relazione alle trasformazioni in atto dell’organizzazione del lavoro, in cui quello ‘digitale’ è parte di un più ampio sviluppo
 

bisogna difendere Gaza dall'escalation militare, inceppare la macchina da guerra armata, ma anche quella mediatica ed economica. Oggi dobbiamo tornare a dire, forte e chiaro, che siamo tutti palestinesi
 

“Dalla consapevolezza di essere postumani alla necessità di agire il conflitto sociale”. Ovvero, il territorio come “luogo dove l'indivisibilità tra natura e cultura mostra tutta la sua pregnanza” 
 

Scioperiamo la crisi: per un autunno di lotte di Assemblea plenaria Venaus
il messaggio dei movimenti contro austerity e precarietà a conclusione delle giornante di confronto, discussioni ed iniziative fra realtà europee e nazionali per la costruzione di una opposizione sociale alla crisi



ci sono accordi che sono destinati a segnare un'intera fase. È  stato così per quello della vergogna  alla Fiat di Pomigliano che ha decretato l'affermazione del sistema derogatorio, corporativo e autoritario



Il diritto alla fuga di  Toni Negri
«Confini e frontiere, la moltiplicazione del lavoro nel mondo globale». Il ritorno della lotta di classe come motore dinamico del cambiamento possibile



In principio era la praxis di Francesco Raparelli
Raramente capita di leggere un testo di filosofia con la passione instancabile con cui si legge un giallo: è il caso dell'ultimo saggio di Franco Lo Piparo ‘Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere’



Jobs Act  - il quadro che si prospetta non promette nulla di buono per i precarie e le precarie (siano essi/e occupati/e in modo stabile, in modo atipico o disoccupati/e). Nulla di nuovo sotto il sole, anzi d’antico….

 

 

La disfatta morale di Israele ci perseguiterà per anni

di Amira Hass - Haaretz

Scrive la giornalista israeliana: “Se vittoria vuol dire causare al nemico una pila di bambini massacrati, allora Israele ha vinto. Queste vittorie si aggiungono alla nostra implosione morale, la sconfitta etica di una società che ora si impegna a non fare un’auto-analisi, che si bea nell’autocommiserazione a proposito di ritardi nei voli aerei?”

Ramallah, 30 luglio 2014, Nena News – Se la vittoria si misura in base al numero dei morti, allora Israele e il suo esercito sono dei grandi vincitori. Da sabato, quando ho scritto queste parole, a domenica, quando voi le leggete, il numero [dei morti palestinesi] non sarà più di 1.000 (di cui il 70-80% civili), ma anche di più [sono 1200, ndt].
Quanti altri ancora? Dieci corpi, diciotto? Altre tre donne incinte? Cinque bambini uccisi, con gli occhi semichiusi, le bocche aperte, i loro piccoli denti sporgenti, le loro magliette coperti di sangue e tutti trasportati su una sola barella? Se vittoria vuol dire causare al nemico una pila di bambini massacrati su una sola barella, perché non ce ne sono abbastanza, allora avete vinto, capo di stato maggiore Benny Gantz e ministro della Difesa Moshe Ya’alon, voi e la nazione che vi ammira.
E il trofeo va anche alla Nazione delle Start Up, questa volta alla start up premiata per sapere e riferire il meno possibile al maggior numero possibile di mezzi di comunicazione e siti web internazionali. “Buon giorno, è stata una notte tranquilla” ha annunciato plaudente il conduttore della radio militare giovedì mattina. Il giorno precedente il felice annuncio, l’esercito israeliano ha ucciso 80 palestinesi, 64 dei quali civili, compresi 15 bambini e 5 donne. Almeno 30 di loro sono stati uccisi durante quella stessa notte tranquilla da una devastante cannoneggiamento, bombardamento e fuoco di artiglieria israeliana, e senza contare il numero di feriti o di case distrutte.
Se la vittoria si misura con il numero di famiglie distrutte in due settimane – genitori e bambini, un genitore e qualche bambino, una nonna e alcune nuore, nipoti e figli, fratelli e i loro bambini, in tutte le variabili che si possono scegliere – allora noi siamo i vincitori. Ecco qui i nomi a memoria: Al-Najjar, Karaw’a, Abu-Jam’e, Ghannem, Qannan, Hamad, A-Salim, Al Astal, Al Hallaq, Sheikh Khalil, Al Kilani. In queste famiglie, i pochi membri sopravvissuti ai bombardamenti israeliani nelle scorse due settimane invidiano la loro morte.
E non bisogna dimenticare la corona di alloro per i nostri esperti giuridici, quelli senza i quali l’esercito israeliano non fa una mossa. Grazie a loro, far saltare in aria una casa intera – sia vuota o piena di gente – è facilmente giustificato se Israele identifica uno dei membri della famiglia come obiettivi legittimi ( che si tratti di un importante dirigente o semplice membro di Hamas, militare o politico, fratello o ospite della famiglia). “Se questo è ammesso dalle leggi internazionali” mi ha detto un diplomatico occidentale, scioccato dalla posizione a favore di Israele del suo stesso Stato, “vuol dire che qualcosa puzza nelle leggi internazionali.”
E un altro mazzo di fiori per i nostri consulenti, i laureati delle nostre esclusive scuole di diritto in Israele e negli Stati Uniti, e forse anche in Inghilterra: sono certo loro che suggeriscono all’esercito israeliano perché è consentito sparare alle squadre di soccorso palestinesi e impedirgli di raggiungere i feriti. Sette membri delle equipe mediche che stavano cercando di soccorrere i feriti sono stati uccisi da colpi sparati dall’esercito israeliano in due settimane, gli ultimi due solo lo scorso venerdì. Altri sedici sono stati feriti. E questo non include i casi nei quali il fuoco dell’esercito israeliano ha impedito alle squadre di soccorso di arrivare sulla scena del disastro.
Ripeterete sicuramente quello che sostiene l’esercito:”Le ambulanze nascondevano dei terroristi” – poiché i palestinesi non vogliono veramente salvare i loro feriti, non voglio veramente evitare che muoiano dissanguati sotto le macerie, non è questo che pensate?

Il Novecento di Giovanni Arrighi

di Benedetto Vecchi

La casa editrice il Saggiatore ripropone a venti anni dalla prima pubblicazione «Il lungo XX secolo» di Giovanni Arrighi. Un appassionante affresco sullo sviluppo del capitalismo storico che mantiene ancora intatta la sua forza analitica
Uno dei più impor­tanti libri delle scienze sociali di fine Nove­cento. È cosi che Mario Pianta defi­ni­sce Il lungo XX secolo nella pre­fa­zione che accom­pa­gna la nuova edi­zione del libro di Gio­vanni Arri­ghi voluta da Sag­gia­tore nel ven­ten­nale della prima pub­bli­ca­zione ita­liana. Un giu­di­zio con­di­vi­si­bile, non per motivi «disci­pli­nari», bensì per la capa­cità del sag­gio di Arri­ghi di for­nire una let­tura «forte» del capi­ta­li­smo sto­rico, espres­sione mutuata dal com­pa­gno di strada Imma­nuel Wal­ler­stein, che l’economista ita­liano conobbe in Africa e con il quale, dopo il suo tra­sfe­ri­mento defi­ni­tivo negli Stati Uniti, con­di­vise le sorti del Fer­nand Brau­del Cen­ter. Come ogni let­tura «forte» che si rispetti, anche il Lungo XX secolo non è esente da limiti, ma ha comun­que rap­pre­sen­tato una ven­tata di aria nuova, con­tri­buendo a dira­dare la neb­bia che avvol­geva, negli anni Novanta del Nove­cento, il pen­siero cri­tico sta­tu­ni­tense.  Quello di Arri­ghi, assieme agli studi di Saskia Sas­sen sulla glo­ba­liz­za­zione e per altri versi Impero di Michael Hardt e Toni Negri hanno infatti rap­pre­sen­tato i ten­ta­tivi più impe­gnati, negli Stati Uniti, nella ripresa di una pun­tuale e ade­guata cri­tica mar­xiana del capi­ta­li­smo contemporaneo.

Una ten­denza di lunga durata
Il Lungo XX secolo arriva nelle libre­rie una man­ciata di anni dopo la pub­bli­ca­zione delle Con­se­guenze della moder­nità di David Har­vey e della Logica cul­tu­rale del tardo capi­ta­li­smo di Fre­dric Jame­son, inno­va­tive rico­gni­zioni del post­mo­derno, una pro­spet­tiva filo­so­fica che, a dif­fe­renza dell’Europa, costi­tuiva negli Stati Uniti un’elaborazione che l’establishment cul­tu­rale col­lo­cava alla sini­stra del pan­theon acca­de­mico. A dif­fe­renza di Har­vey e Jame­son, Arri­ghi era però inte­res­sato a rin­trac­ciare le inva­rianti dello svi­luppo capi­ta­li­stico, alla luce del ruolo sem­pre più rile­vante assunto dalla finanza nel ridi­se­gnare le gerar­chie sociali e poli­ti­che sia a livello «locale» che pla­ne­ta­rio. Da que­sto punto di vista, Il lungo XX secolo secolo è da con­si­de­rare un punto di svolta nella pro­du­zione teo­rica di Arri­ghi.
I libri che segui­ranno, a par­tire dal sag­gio scritto a quat­tro mani con Beverly Sil­ver sul caos deri­vato dalla crisi irre­ver­si­bile dell’egemonia sta­tu­ni­tense nel capi­ta­li­smo mon­diale (Caos e governo del mondo, Bruno Mon­da­dori) e Adam Smith a Pechino (Fel­tri­nelli) si con­cen­trano infatti sul mondo emerso dal venir meno della forza pro­pul­siva dell’egemonia sta­tu­ni­tense. E se il caos raf­forza il mili­ta­ri­smo del capi­tale, la Cina è inter­pre­tata come un modello sociale che ha le carte in regola per aspi­rare a diven­tare il cen­tro di un nuovo ciclo di espan­sione eco­no­mica, in virtù del fatto che non è più una società socia­li­sta, ma non è però diven­tata un paese capi­ta­li­sta. Dun­que, non un nuovo modello di capi­ta­li­smo, bensì una società di mer­cato che man­tiene alcune carat­te­ri­sti­che «socia­li­ste» del recente pas­sato, men­tre ne ha adot­tate alcune «capi­ta­li­ste». In chiu­sura del libro «cinese», l’autore annun­cia una ulte­riore tappa del suo nuovo per­corso teo­rico, che non sarà però resa pos­si­bile a causa della sua morte nel 2009.
Quel che emerge dalla rilet­tura del Lungo XX secolo è la scelta di Arri­ghi di un’analisi sulla lunga durata dello svi­luppo eco­no­mico, carat­te­riz­zato da un anda­mento ciclico, dove alla fase auro­rale, che pone le basi di un’egemonia eco­no­mica e poli­tica di una realtà locale, ne segue una espan­siva, che sta­bi­li­sce un rap­porto di inter­di­pen­denza tra il cen­tro dello svi­luppo e le zone di influenza, che ven­gono pla­smate in base ai vin­coli posti dalla cre­scita eco­no­mica. È all’azimut del ciclo, qua­li­fi­cato come siste­mico, che si mani­fe­stano le con­trad­di­zioni, i limiti di quel modo di pro­du­zione ege­mo­nico. Ed è in que­sta con­tin­genza che, mar­xia­na­mente, la finanza diviene momento di sta­bi­liz­za­zione, di gestione della crisi, senza che però possa arre­stare il declino del cen­tro del sistema-mondo che quel ciclo ha prodotto.

venerdì 25 luglio 2014

Israele. Il coraggio (e l’isolamento) dei “nemici interni”

di Stefano Nanni

Tamar Aviyah, attivista della sinistra israeliana (in prima linea anche in questi giorni a manifestare nelle strade di Tel Aviv per chiedere di fermare “il genocidio in corso a Gaza”, nonostante gruppi di estrema destra si siano opposti alle proteste), nell’intervista raccolta da l’ Osservatorio Iraq parla dell'involuzione sempre più autoritaria della società israeliana, dove le voci di dissenso sono ridotte spesso al silenzio

"Chiunque, in qualsiasi società, voglia davvero combattere per la giustizia e libertà paga un prezzo molto alto. Viene isolato, trattato da spergiuro, mentre d'altro canto, per chi lotta insieme a te, puoi essere considerato un eroe. Ma tutto questo non può durare per sempre: sento che il mio limite è vicino, perché nonostante la lotta i risultati sono scarsissimi". 
È Tamar Aviyah a parlare. Israeliana, ebrea, attivista politica di sinistra per sua stessa definizione, che ancora di più in questi giorni qualcuno considera semplicemente una "traditrice". Perché si oppone al massacro in corso nella Striscia di Gaza, all’Occupazione nei Territori Occupati, alle discriminazioni contro i cittadini arabo-israeliani all’interno della sua società, così come di altre minoranze che in Israele subiscono forti disparità in termini di diritti e giustizia. Che si tratti di richiedenti asilo di origine africana in cerca dei propri diritti, oppure della comunità ultraortodossa che si oppone al servizio militare, o ancora dei cittadini arabo-israeliani beduini che si vorrebbero sradicare dalle proprie terre nel Negev, lei è sempre lì, in prima linea, come pochi altri colleghi e amici (“saremo in tutto poche centinaia”, ammette), a manifestare contro le ingiustizie e l’oppressione.

Partiamo dagli scontri che si sono verificati nei giorni scorsi a Tel Aviv, Haifa e Nazareth, tra manifestanti pacifisti in solidarietà con i palestinesi e gruppi da te definiti “fascisti”. Cosa è successo?

Prima di tutto credo sia importante illustrare il contesto nel quale emergono e si sviluppano questi gruppi nazi-sionisti. Avevano infatti già organizzato altre dimostrazioni, in seguito al rapimento dei giovani coloni, successivamente all’uccisione di Mohammad Abu Khdeir e prima che l’operazione militare contro la Striscia di Gaza iniziasse, principalmente a Gerusalemme, sempre inneggiando slogan come “morte per gli arabi”.
Stiamo parlando di almeno 7 gruppi, quali Kahana, Im Tirztu, Lehava, La Familia (i tifosi ultrà della squadra di calcio Beitar di Gerusalemme), gli ultras del Maccabi Tel Aviv, e altri due raggruppamenti che si raccolgono attorno al gruppo musicale hip-hop The Shadow e al movimento religioso Shuvu Banim.
Questi gruppi erano già attivi in Israele ma mai come in questo periodo hanno raccolto intorno a loro migliaia di persone in strada e decine di migliaia di sostenitori su Facebook e sui social network. Stanno ricevendo insomma un supporto incredibile, non solo da persone che hanno un background affine, ma soprattutto da cittadini ordinari provenienti da diversi strati della società.
Le loro azioni consistono in organizzarsi per scendere in strada e cercare palestinesi ed arabi per picchiarli o nel migliore dei casi per importunarli. Già erano tantissime le persone che sono state attaccate prima dell’operazione militare, dopo la quale ci sono state manifestazioni da parte di gruppi e attivisti afferenti a sinistra, anch’essi presi di mira da questi nazi-sionisti.
Che, ripeto, definisco in questo modo perché non saprei cosa dire di qualcuno che ha una matrice ultra-radicale di destra, che inneggia all’uccisione degli arabi e indossando tra l’altro segni distintivi di alcuni gruppi neo-fascisti europei.
La situazione è molto preoccupante perché stanno ricevendo molto consenso, non è affatto un fenomeno marginale.

È possibile individuare eventuali relazioni tra questi gruppi e i partiti presenti nel Parlamento Israeliano?

È molto difficile affermarlo. Per quanto ne so c’è un partito politico, “Potere ad Israele”, non presente in Parlamento e che è in contatto con loro. Credo inoltre che siano finanziati e sostenuti da un coordinamento centrale, su cui però non sono in grado di dare informazioni, perché la loro organizzazione sembra molto buona.
Aggiungo inoltre che ciò che è successo dopo l’inizio dell’operazione su Gaza è stato uno spostamento dell’attenzione di questi gruppi verso i manifestanti di sinistra scesi in piazza per la cessazione delle ostilità, che sono stati picchiati e presi di mira ad Haifa, Nazareth, Tel Aviv e Gerusalemme.

Come hanno reagito le forze di polizia di fronte a questi episodi?

Contrariamente a quanto successo in precedenza, in condizioni “normali”, quando la polizia tendeva a separare fisicamente i due gruppi opposti, entrambi circondati da barriere, in modo che non ci fosse alcun contatto tra loro, nel corso delle prime dimostrazioni dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza a Tel Aviv, Haifa e Nazareth questo non è avvenuto.
Le manifestazioni degli attivisti di sinistra sono state attaccate liberamente, con infiltrazioni nel corteo, attacchi e danni a biciclette, moto e alle stesse persone, sotto lo sguardo della polizia che non è intervenuta subito.
Soltanto quando gli scontri si sono intensificati i poliziotti sono intervenuti per separare i gruppi e cercare di riportare la calma, tuttavia usando sempre la mano leggera, facendo il minimo necessario nei confronti dei manifestanti neo-nazisti.
L’altro ieri invece a Jaffa (Tel Aviv) le cose sono andate diversamente, senza scontri. C’è stata una dimostrazione organizzata dal Movimento islamico nel quartiere abitato prevalentemente da palestinesi musulmani. Più a nord di Jaffa, non lontano, c’era una manifestazione parallela organizzata da questi gruppi di destra, che su Facebook invitavano i partecipanti a portare armi, bastoni e bottiglie di vetro. Di loro ce n’erano alla fine soltanto 200, molti meno di quanti avevano aderito sul social network, che una volta riunitisi sono stati circondati dalla polizia. Diverse strade a Jaffa sono state chiuse, in pratica la città sembrava sottoposta ad un coprifuoco.

A cosa è dovuta questa differenza di comportamento da parte della polizia?

A Jaffa c’è stata una decisione politica chiara, sproporzionata rispetto alle reazioni precedenti.
Questo perché in primo luogo, il Movimento islamico in Israele collabora molto con la polizia e le autorità in modo da tenere la situazione sotto controllo ed evitare derive estremiste. È un caso interessante da indagare ed analizzare, perché in sostanza c’è un tacito accordo per cui il Movimento s’impegna a non portare avanti un’agenda politica nazionalista palestinese.
In secondo luogo è noto che Tel Aviv e Jaffa sono centri turistici ed economici rinomati, dove dal punto di vista politico scontri e disordini urbani sarebbero troppo dannosi come pubblicità. La loro dimensione internazionale porta la politica a non rischiare da questo punto di vista: il danno in termini di immagine sarebbe troppo alto.
Sul comportamento della polizia, a mio avviso è certamente importante sottolineare l’ambiguo comportamento nei confronti dei gruppi neo-fascisti, ma lo è ancora di più la campagna di arresti e persecuzioni nei confronti dei cittadini arabo-israeliani che si stanno opponendo al massacro di Gaza.
Soprattutto lungo i confini con Gaza e Cisgiordania, la polizia sta davvero perdendo la ragione. Non ho numeri precisi, ma ci sono tanti casi di palestinesi che sono stati arrestati, come Samih, intercettato dalla polizia mentre veniva intervistato su Skype e portato in carcere, e Johayna, una delle organizzatrici di una manifestazione che doveva tenersi l’altro ieri ad Acri (a nord del paese, ndr), arrestata anche lei.
Sempre l’altro ieri c’è stata una dimostrazione a Nazareth, conclusasi con l’arresto di 25 attivisti palestinesi, 6 o 7 feriti, e ad Hebron. In entrambi i casi la repressione nei confronti dei palestinesi dell’esercito è stata fortissima, attraverso l’uso di lacrimogeni e cannoni ad acqua.

Lavorare meno, lavorare tutti

di Lelio Demichelis

la vecchia distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero e di vita è stata cancellata da un’economia che impone di mettere al lavoro la vita intera di tutti e dall’imperativo di dover essere sempre connessi, con gli orari che si allungano, i ritmi che si intensificano e cresce la flessibilità e la precarietà del lavoro, che è un altro modo per intensificare/sfruttare il lavoro

Se non fosse oggi l’uomo più ricco del mondo – secondo l’ultima classifica della rivista americana Forbes pubblicata nei giorni scorsi – per gli ideologi (o gli intellettuali organici) del neoliberismo in servizio permanente effettivo, il messicano Carlos Slim sarebbe un pericoloso sovversivo perché sovvertitore del magico ordine del libero mercato e negatore della sua altrettanto magica mano invisibile.
Cosa ha detto di così scandaloso e di eretico l’uomo più ricco del mondo, messicano ma di origini libanesi e imprenditore di successo? Ha detto – parlando a un Seminario ad Asunciòn, in Paraguay – che per ridurre la disoccupazione dilagante nel mondo occidentale e per dare più qualità alla vita delle persone bisogna ridurre gli orari di lavoro.
Secondo Slim bisognerebbe lavorare solo tre giorni alla settimana. Certo, lavorando magari anche 11 ore per ciascuno di questi giorni. Ma è la prima parte del suo ragionamento che qui vogliamo sottolineare. Ridurre l’orario di lavoro. Liberarsi dalla fatica e dal peso del lavoro sulla vita. È stato il sogno del Novecento e dei suoi intellettuali migliori, sogno in gran parte realizzatosi soprattutto nei primi trent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, quelli della democratizzazione del capitalismo come li ha definiti Wolfgang Streeck.
Poi – scena rovesciata e inizio della de-democratizzazione del capitalismo – negli anni Novanta del secolo scorso sono state le retoriche o i conformismi allora dominanti a sostenere che il pc avrebbe liberato il lavoro dalla fatica, che avremmo tutti lavorato di meno e avuto quindi più tempo libero, che stavamo entrando nella nuova fase, ovviamente virtuosa, del lavoro immateriale, cioè intellettuale più che fisico, nell’economia della conoscenza, nel capitalismo cognitivo e persino nel punkcapitalismo, nella wikinomics eccetera eccetera.
Oggi, invece – effetto inevitabile delle nuove tecnologie e della organizzazione in rete del lavoro – chi lavora lavora più di prima, la vecchia distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero e di vita (distinzione che dava qualità alla vita, tenendo separati due mondi che sono alternativi) è stata cancellata da un’economia che impone di mettere al lavoro la vita intera di tutti, dall’imperativo di dover essere sempre connessi, con gli orari che si allungano, i ritmi che si intensificano e cresce la flessibilità (e la precarietà) del lavoro, che è un altro modo per intensificare/sfruttare il lavoro.
E dalla promessa di un’economia della conoscenza e di un lavoro immateriale quasi-senza-più-fatica siamo in fretta caduti (ma così era nelle premesse) in un nuovo pesante taylorismo, analogo a quello di cento anni fa, anche se virtuosamente digitale. Dove la rete è la vecchia catena di montaggio ma con altro nome. Mentre i tentativi di fine anni Novanta, fatti in Francia (riusciti, ma poi più volte attenuati) e in Italia (fallito), di arrivare alle 35 ore di lavoro per legge sono stati sommersi da cori di contestazione e di riprovazione in nome della libertà individuale e del libero mercato, dimenticando che in Germania (ma non solo) molte categorie avevano ottenuto le 35 ore già nel 1995.

La rivoluzione quotidiana di Marco Lombardo Radice

di Rosa Mordenti

25 anni fa se ne andava Marco Lombardo Radice, psichiatra, rivoluzionario, scrittore. Ora a rischio è il reparto di neuropsichiatria infantile a cui aveva dedicato una vita con i colleghi e un'intera comunità. (leggi anche: Neuropsichiatria infantile a San Lorenzo!)

Noi che Marco Lombardo Radice non l’abbiamo conosciuto, ma per fortuna ne abbiamo moltissimo sentito parlare e abbiamo letto le cose splendide che ha scritto – alcune delle quali raccolte nel libro ‘Una concretissima utopia’, pubblicato dalle Edizioni dell’asino nel 2010 – sappiamo, ad esempio, che quando ‘Porci con le ali’ divenne un best seller dal successo clamoroso, lui che ne era l’autore (insieme a Livia Ravera) scelse di andarsene per un po’, non a godersi il successo ma a fare il medico volontario in un campo profughi palestinese in Libano. ‘Lombardone’ è morto esattamente 25 anni fa. Ha lavorato con straordinaria dedizione nell’Istituto di Neuropsichiatria infantile di via dei Sabelli e in ogni angolo di quel luogo ha lasciato un po’ di sé e della sua energia. E sappiamo che è anche per non dimenticare quella energia e onorarne la memoria che lavoratori, pazienti e famiglie resistono - insieme al quartiere di San Lorenzo - contro i tagli sconsiderati che da anni minano il funzionamento dell’Istituto, la qualità dei suoi interventi, la possibilità di offrire risposte complesse e differenziate ai problemi neurologici e psichiatrici dei bambini e degli adolescenti. Difendono, lavoratori pazienti e quartiere, lo straordinario laboratorio che venne fondato da Giovanni Bollea, il padre della neuropsichiatria infantile italiana, vanamente e pomposamente celebrato proprio in queste settimane mentre il suo lavoro viene sistematicamente offeso.
Sulla dedizione generosa di Marco Lombardo Radice esistono racconti che sembrano leggende. Dei giorni e delle notti passati nell’Istituto senza riposarsi mai, senza lasciare mai soli ‘i ragazzini’; dello schierarsi senza timidezze a fianco dei lavoratori nelle battaglie sindacali; dei pazienti portati a casa con sé quando riteneva il ritorno in famiglia prematuro o dannoso, e perché ci sono, ha scritto, “contesti e situazioni insalvabili da cui un minore va semplicemente tirato fuori”; della presa in carico di casi altrove considerati disperati, che lui chiamava ‘i casacci’; dello smontare con serena determinazione le rigidità dell’istituzione clinica, come quando introdusse un cane in reparto per il bene di una paziente (e “sarebbe troppo lungo raccontare l’atroce casino che una decisione del genere può scatenare”, ha più tardi spiegato).
Una dedizione, quella di Lombardo Radice, che non aveva nulla della concezione eroica o pacificata del servizio; era il frutto della sua libertà, creatività, competenza. Della sua militanza: “Marco – hanno scritto Luigi Manconi e Marino Sinibaldi nell’introduzione a Una concretissima utopia – mostrava una possibilità, anzi una necessità diversa. Quella di costruire le proprie forze (formarsi con quell’intreccio di accuratezza teorica ed esperienza pratica, densità della ricerca ed empirica buona volontà) e poi contare su quelle. Ovvero assumersi responsabilità individuali a partire da valori collettivi”. Era il suo metodo di lavoro: “Se dai al ragazzino ciò di cui veramente ha bisogno – ha scritto Lombardo Radice - i miracoli sono possibili […]. Ed è l’aspetto esaltante di questa professione, toccare con mano la possibilità di dare vita, gioia, senso a esistenze altrimenti destinate a perdersi. Ma ne è anche l’aspetto angoscioso, sempre più angoscioso. Perché far ciò ha un costo personale altissimo, totale; e quando hai dato tutto di più non puoi dare e cominciano a passarti avanti ragazzini per cui sai che la risposta esiste ma non c’è nessuno che possa darla”.
Questa dedizione era, anche, un’idea di sanità pubblica. Esserci sempre per i pazienti, risolvere problemi inventandosi soluzioni non previste né prevedibili, superare burocrazie, inefficienze, inadeguatezze, consuetudini dell’istituzione per curare, per accogliere, per assumersi la responsabilità; adattare con fatica l’istituzione ai bisogni dei pazienti e non viceversa. Un’idea rivoluzionaria che Lombardo Radice ha agito quotidianamente e sulla quale ha riflettuto. La mia libertà di azione, ha scritto, si conquista “a condizioni precise e pesanti”: “La prima è ovviamente di non avere da perdere che le proprie catene, in concreto cioè non avere aspirazioni o ambizioni di carriera o altro; solo così è possibile confrontarsi a muso duro, quando sia necessario, anche con chi è ‘sopra’. La seconda è di occupare un posto, come il mio, di responsabilità e importanza ma non appetito o appetibile […]. La terza condizione è, modestia a parte, di essere terribilmente bravi: in altri termini, di restituire ciò che ti prendi in gradi di libertà sotto forma di risultati che promuovano o reclamizzino l’istituzione stessa”.

sabato 19 luglio 2014

Sindacalizzazione, lavoro digitale e economia della condivisione negli Stati Uniti. Intervista a Trebor Scholz

a cura di Tiziana Terranova

il futuro del sindacalismo classico e delle nuove forme emergenti di solidarietà e mutuo soccorso in relazione alle trasformazioni in atto dell’organizzazione del lavoro, in cui quello ‘digitale’ è parte di un più “ampio sviluppo che include processi di globalizzazione, anti-sindacalismo, deregolamentazione, precarizzazione, la proletarizzazione delle professioni e molto ancora”. Il lavoro digitalizzato sposta indietro le lancette dell’orologio “fino alla seconda metà dell’Ottocento quando la settimana lavorativa di ottanta ore era ancora la norma”

Tiziana Terranova: Trebor, in Italia come altrove immagino, stiamo discutendo cosa sta succedendo a forme tradizionali di organizzazione del lavoro come i sindacati e di nuove forme di sperimentazione che potremmo definire di ‘sindacalismo sociale’. Ci interessa la relazione tra nuove forme di sindacalizzazione e la loro relazione con lotte più ampie e meno definite. Pensiamo per esempio alle lotte ambientali, a lotte informali nella città attorno al precariato ecc, che confondono la relazione tra vita e lavoro. Tu d’altro canto stai seguendo da vicino le trasformazioni del sindacalismo negli Stati Uniti, ma anche l’impatto globale della riorganizzazione del lavoro indotto dall’uso di Internet come infrastruttura lavorativa. Hai notato un ritorno di sindacalismo in luoghi di lavoro in cui è stato tradizionalmente molto difficile organizzarsi come l’industria del fast food o grandi magazzini come Walmart. Ma quello che sembra preoccuparti di più, però, è la sfida di organizzare quello che chiami lavoro digitale e in particolare il crowdsourcing che hai ribattezzato crowdmilking (la mungitura delle folle). Qui ‘lavoratori anonimi’ incontrano ‘datori di lavoro’ anonimi. Ci puoi parlare un po’ di questo nuovo modo di organizzare la produzione e la sfida che pone alla sindacalizzazione?

Trebor ScholzCiao Tiziana e grazie per il tuo invito a parlare del futuro dei sindacati tradizionali e di nuove forme emergenti di solidarietà e mutuo soccorso. Facciamoci una camminata nei campi del lavoro e per non perderci, stabiliamo prima i termini. Voglio essere chiaro che sono concentrato soprattutto sugli Stati Uniti e specialmente su quello che io chiamo il ‘lavoro digitale’ e in questo vasto labirinto di pratiche diverse, discuterò dei lavoratori più poveri e sfruttati nell’industria del crowdsourcing. Continuo ad usare il termine lavoro in questo contesto sebbene sia problematico e abbastanza difficile da definire. Voglio mantenere il linguaggio del lavoro perché non voglio perdere la connessione con gente come la giovane femminista e attivista del lavoro Karen Silkwood che perse la vita per svelare i segreti sulle violazioni della sicurezza nella fabbrica di plutonio Kerr-McGee nel 1974. Magari ti ricordi del film Silkwood in cui Meryl Streep impersonava questa coraggiosa attivista. O, pensa allo sciopero del tessile di Lawrence Massachussets nel 1912, quando migliaia di operaie mandarono i figli a New York City prima di iniziare questo sciopero militante con il sostegno del IWW. Le rivolte di Haymarket, le enormi proteste contro le fabbriche a seguito dell’incendio nelle fabbrica Triangle Shirtwaist… questa eredità si perde se smettiamo di parlare di lavoro.
Nel pensare all’urgenza di organizzare il lavoro, specialmente in relazione a pratiche facilitate da Internet, vorrei evidenziare due aree. Nel campo del lavoro non pagato, negli Stati Uniti almeno, il caso più cocente è quello dei tirocini non pagati. Poi c’è una discussione un po’ più alla moda, ma secondo me secondaria, sulla ‘mezzadria ambientale’: la raccolta, analisi, e vendita di Big Data presi dai servizi di social networking. Mi preoccupa specialmente a causa delle rivelazioni post-Snowden che dimostrano come le compagnie di telecomunicazioni facciano milioni di dollari vendendo i nostri dati al governo.
Nel campo del lavoro digitale pagato (e nota come uso i termini ‘labor’ e ‘work’ in maniera intercambiabile che sarebbe il soggetto di tutta un’altra conversazione), il problema più urgente è quello dei lavoratori più poveri nell’industria del crowdsourcing, che svolgono i lavori più umili, pagati regolarmente tra due e tre dollari all’ora, sostenuti dalla mancata imposizione del National Labor Standards Act che ritiene queste pratiche illegali. Quindi non mi riferisco a tutto il lavoro nell’industrial del crowdsourcing come ‘mungitura delle folle’, ma ho introdotto questo termine per evidenziare il segmento più disperato di quest’area del lavoro, dove c’è bisogno disperatamente di cambiamenti. Una società che si definisce una democrazia non dovrebbe tollerare questi ambienti lavorativi.
Ma prima di procedere, fammi riassumere alcuni recenti momenti di promettente organizzazione del lavoro.

martedì 15 luglio 2014

Gaza, noi e la "questione palestinese"

di Emiliano Viccaro

Da qualche parte bisogna ripartire. Oggi bisogna difendere Gaza dall'escalation militare, inceppare la macchina da guerra armata, ma anche quella mediatica ed economica. Oggi dobbiamo tornare a dire, forte e chiaro, che siamo tutti palestinesi

1. Il titolo, in taglio basso, della prima pagina del Messaggero di ieri non lascia dubbi: "Allarme razzi a Tel Aviv". A rinforzare il titolo, una foto di una soldatessa israeliana che mette in mostra i resti di un razzo intercettato, quegli ordigni che fino ad oggi hanno provocato zero vittime e zero feriti. Nell'occhiello in alto, minuscolo, la conta dei morti palestinesi: oltre 100, mentre i feriti non si contano più. All'interno, il racconto del massacro emerge con più forza ma accanto, come in un macabro gioco di specchi, viene pubblicata un' "inchiesta" sulla diffusione di immagini di guerra strazianti, di repertorio o riferite ad altri scenari di guerra, utilizzate per una "campagna mistificatoria" contro la bontà delle operazioni di Israele, i suoi raid chirurgici e pre-allertati. Secondo il giornale, i morti arabi sarebbero dovuti, nella maggior parte dei casi, alla crudeltà di Hamas che utilizza donne e bambini come "scudi umani".
Siamo allo zenit della cattiva coscienza europea e occidentale, fatta di neo-colonialismo e razzismo di ritorno, collusione di interessi e quintali di ignavia politica ed etica. Le ultime notizie che giungono dai residui dell'opposizione interna al governo di Netanyahu consegnano una firma beffarda sulla tragedia: il quotidiano progressista Ha'aretz, grazie a una fonte interna ai servizi segreti, riporta il resoconto di una riunione dei vertici dello Shin Bet, tenuta lo scorso 5 giugno, in cui si ipotizzava uno scenario abbastanza dettagliato del sequestro di tre giovani coloni, come test di prova per l'esercito alla luce di una recente proposta di una legge che avrebbe consentito al governo la possibilità di scambiare gli ostaggi con terroristi condannati per omicidio.
Quale corto circuito culturale e politico, nel nostro paese, ha prodotto un muro di gomma cosi impenetrabile a difesa del governo di Israele, quando molti di questi mattoni sono stati impastati da certa sotto cultura cattolica, reazionaria, borghese profondamente antisemita? Quando si è compiuta l'inversione di marcia, nei confronti dei movimenti e della sinistra radicale, che ha deciso di bollare come antisemita ogni espressione di opposizione all'apartheid e all'estremismo sionista?

2. Non serve immergere la testa nelle paludi complottiste per cogliere i nessi mostruosi tra cause, effetti e interessi in campo. In un senso di impunità che ricorda alcuni precedenti storici - viene in mente il Sud Africa dell'apartheid, le guerre imperialiste Usa, le dittature militari sud americane, i massacri polpottiani - il governo di Israele si prepara a invadere via terra la Striscia di Gaza, una sorta di mega campo di concentramento a cielo aperto, con la più alta densità demografica del mondo e un livello di vita che definire infernale è alquanto realistico.
Quasi 50 anni di "routine del male" hanno prodotto una anestetizzazione di massa alla guerra, alla sopraffazione, al massacro di bambini, donne e uomini di ogni età, quasi sempre civili. Israele si presenta già come stato binazionale, con pesanti discriminazioni interne che colpiscono il 20% di popolazione araba-israeliana, a cui è interdetta una sostanziale mobilità sociale e l'accesso ad alcuni funzioni politiche e amministrative. Le immagini di alcuni abitanti di Siderot, al confine con Gaza, che organizzano visioni colettive dei bombardamenti sulla Striscia come se stessero davanti a uno spettacolo estivo di fuochi d'artificio, dà l'idea del livello di degrado della percezione pubblica della guerra ai palestinesi, di come l'odio e il razzismo hanno permeato le coscienze di una storia nata, comunque la si veda, con l'ambizione puntuale (per gli ebrei) ma universale (per tutti gli oppressi) di mettere fine a secoli di discriminazioni.
Che fine hanno fatto le manifestazione oceaniche di Peace Now e della sinistra israeliana della prima Intifada? Che cosa ha prodotto l'esemplarità e il coraggio dei "refusenik", i militari obiettori che pagano con il carcere la loro disobbedienza? Dove si è perso il fragile ma importante movimento "Occupy" che nel 2012 aveva aperto un varco contro le politiche neo-liberali e di austerità di Tel Aviv? Dove sono le parole degli intellettuali israeliani contro l'occupazione? Dove sono finiti gli studenti, i giovani e i movimenti laici, queer e per i diritti civili?

Soggettività postumane: prospettive conflittuali

di Leandro Sgueglia

“Dalla consapevolezza di essere postumani alla necessità di agire il conflitto sociale”. Questo sottotitolo della recensione al volume di Rosi Braidotti (Il postumano. La vita oltre l'individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, 2014, pp.256), ci rinvia ad un ambito del discorso in cui trovano riscontro le lotte per i commons, specificamente “per quel common che si caratterizza come un sistema complesso e complessivo”: il territorio. Cioè, quell’insieme di risorse naturali, storico-monumentali e relazionali. Ovvero, il territorio come “luogo dove l'indivisibilità tra natura e cultura mostra tutta la sua pregnanza” 

La fase storica in corso ci mette di fronte ad un dato di fatto: l'esistenza delle donne e degli uomini, quella dell'ecosistema complessivamente inteso, sono direttamente intersecate con la tecnologia. Protesi, macchine, biotecnologie sono elementi della vita quotidiana. Come dice bene Rosi Braidotti nel suo ultimo lavoro, Il postumano. La vita oltre l'individuo, oltre la specie, oltre la morte, «tutto questo ha cancellato la frontiera tra ciò che è umano e ciò che non lo è», palesando come le fondamenta dell'umanità non siano naturali e come non si possano scindere natura e cultura.

Umano, Soggetto, Umanesimo
I secoli imperniati intorno al discorso dominante dell'umano e del soggetto unitario-universale, caldeggiato dalle correnti egemoniche della filosofia occidentale, costituiscono epoche che hanno visto l'istituzione di un soggetto che, astraendosi dai corpi e disincarnandosi, non poteva che aggettivarsi con connotati precisi per quanto assolutizzati: maschio, bianco, propietario, occidentale. L'Umano e quindi la sua declinazione storicamente costruita di genere in “la Donna” e “l'Uomo”, come da anni suggerisce Judith Butler e in quest'ultima sua pubblicazione ci ricorda ancora una volta Braidotti, è una convenzione normativa con un forte potere di selezione, esclusione e discriminazione, formandosi con la cronica individuazione del dis-umano. Di qui un antropocentrismo, la centralità di quel soggetto umano dominante con la polarizzazione di ogni alterità come oggetto da subordinare o da marginalizzare, quindi il paradigma della sopraffazione come strumento di accumulazione.
Ogni teoria critica che abbia provato in qualche modo a mettere in discussione quest'ordine del discorso dominante e/o le sue forme politiche ma rimanendo nella prospettiva di un altro umanesimo, è rimasta chiusa – dal punto di vista di chi scrive – nella gabbia dell'universalismo, terreno foriero anche “da sinistra” di tante mostruosità della storia.
Chi nel corso dell'ultimo trentennio novecentesco ha invece sferrato efficacemente un attacco al dominio discorsivo ed economico-politico, lo ha fatto – secondo chi scrive – partendo dalla preliminare critica all'universalismo, al soggetto universale e unitario, all'umano assolutizzato e biforcato negli altri due assoluti: “la Donna” e “l'Uomo”.
Chi ha assaltato il comando culturale del capitalismo con la forza di una teoria che si fa immediatamente prassi, lo ha fatto svelando il nesso fra umanesimo e centralità del profitto – proprio in virtù dell'antropocentrismo di cui sopra – smentendo quell'opzione che vede nel primo un'alternativa al paradigma individualistico. Qui si pensa che chi ha centrato il bersaglio, insomma, sono state quelle correnti di pensiero come il post-strutturalismo, come quel femminismo e quell'oltre-femminismo che hanno declinato le intuizioni post-strutturaliste accentuandone una prospettivsa sessuata, come quel postcolonialismo che vi introduce la variabile della razzializzazione, come quell'ecologismo radicale che non si è mai limitato a tematizzare la salvaguardia degli habitat ma connette la devastazione ambientale con i modelli di sviluppo e con i sistemi etico-filosofici che li fondano.
Ovviamente anche la teoria critica più efficace – sia essa poststrutturalista, postacoloniale, femminista, queer, ecologista-radicale – non è bastata per abbattere totalmente l'ordine del discorso dominante e neppure le soggettività politiche e i movimenti sociali alla cui ispirazione hanno contribuito. Tuttavia si è aperto un rapporto conflittuale.
Nel frattempo il meccanismo complesso di relazione tra la circolazione di saperi interdisciplinari e il sistema neocapitalistico che tende a sussumerli, riuscendoci spesso, hanno messo nuovi dispositivi tecnologici e culturali nelle mani di quel soggetto antropocentrico ed auto-assolutizzato di cui sopra, producendo una dinamica che: da un lato ha costruito la sua apoteosi, il trionfo di un Umano che può tutto perché si potenzia a tal punto di estensioni tecnologiche, frutto della sua stessa razionalità scientifica e tecnica, che perfeziona la sua capacità di dominio sull'ambiente circostante a partire dalla biosfera arrivando a meccanismi di estrazione di plusvalore dalla zoe (la vita delle speci oltre gli individui e i gruppi) dopo averlo già fatto del tutto col bios (le forme di vita sociali); ma dall'altro una dimensione che rende insufficiente la categoria stessa di Umano.

Scioperiamo la crisi: per un autunno di lotte

di Assemblea plenaria Venaus

Il messaggio dei movimenti contro austerity e precarietà a conclusione delle giornante di confronto, discussioni ed iniziative, svoltesi in Val di Susa -dall’ 11 al 13 Luglio a Venaus- fra realtà europee e nazionali per la costruzione di una opposizione sociale alla crisi

Il consolidamento del blocco di governo renziano e delle riforme, nel contesto del semestre di presidenza europea, segna una seconda fase delle politiche di austerity, in cui timide concessioni ai ceti medi ai fini di una stabilizzazione degli equilibri fra blocchi sociali convivono con l’approfondimento dell’attacco al reddito e il peggioramento delle condizioni di vita complessive.
Il modello di questa riproduzione sociale nella crisi è ormai esplicitamente caratterizzato dall’esercizio di una funzione di saccheggio sui territori e le loro risorse, il disciplinamento della povertà tramite lavoro, la frammentazione e l’indebolimento di ampie fasce sociali. I processi di marginalizzazione prodotti dall’iniziativa capitalistica approfondiscono le differenze esistenti e operano nuovi tagli sociali: un segmento generazionale, fra gli altri, è oggetto di un’esclusione senza precedenti, tanto sul terreno sociale quanto su quello produttivo, di valorizzazione delle proprie capacità, di soddisfazione dei propri bisogni.
La risposta istituzionale si incarna nel modello Expo2015: enormi profitti per chi ci specula, lavoro gratuito o sottopagato rigorosamente a termine e precario per noi. Ma se la proletarizzazione violenta dei più giovani punta ad indebolirne il potenziale rivendicativo, è esattamente su questo piano, quello di un’inclusione non produttiva ma conflittuale, che si apre per noi la possibilità di ricomporre-contro un territorio sociale frammentato e disperso.
La ricomposizione politica della nostra controparte non è infatti priva di ambivalenze nella misura in cui per i soggetti che pagano la crisi si chiude, col blocco di consensi attorno a Renzi, ogni spazio di rappresentazione nell’arena istituzionale. Di questa contrapposizione sociale, spontanea, diffusa, ma che fatica ad assumere dimensione collettiva noi vogliamo essere aggregatori e catalizzatori. Per questo desideriamo sperimentare, quest’autunno, delle forme di sciopero sociale e metropolitano che sappiano eccedere tanto le forme classiche e categoriali di astensione dal lavoro, quanto l’attivazione esclusiva dei percorsi già esistenti, raccogliendo la sfida del blocco della città e dei suoi flussi, dell’aggressione della controparte nei suoi punti di accumulazione e di estrazione di valore. Ripartendo dalla ricchezza delle lotte che hanno attraversato i nostri territori, ma consapevoli di non potercene accontentare.

Accordo Alitalia: il volto brutale del nuovo verso

di Sergio Bellavita*

Ci sono accordi che sono destinati a segnare un'intera fase. È  stato così per quello della vergogna  alla Fiat di Pomigliano che ha decretato l'affermazione del sistema derogatorio, corporativo e autoritario e con esso la fine del contratto nazionale, sistema oggi esteso all'insieme del mondo del lavoro grazie agli accordi interconfederali riunificati nel testo unico sulla rappresentanza

L'accordo Alitalia si incarica di compiere quel salto violento nel nuovo sistema di ristrutturazioni. Un salto logico e coerente con la riscrittura del sistema di welfare, a partire dalla riforma degli ammortizzatori sociali e dalla cancellazione delle pensioni volute dalla Fornero.  Il combinato disposto della legislazione degli ultimi anni sta cancellando progressivamente e rapidamente gli spazi concreti per gestire in maniera soft le pesanti ristrutturazioni aziendali. Oggi le imprese pretendono e molte volte ottengono i licenziamenti collettivi si, ma nominativi, cioè costruiti ad hoc per decidere chi licenziare.
Nella vicenda Alitalia lo spazio per qualche ammortizzatore sociale in più c'era, ma James Hogan il ceo di Etihad ha preteso e ottenuto, in barba alle mediazioni del ministro Poletti, i licenziamenti collettivi immediati. I numeri della barbarie Alitalia sono ben diversi da quelli che snocciola truffando il ministro Lupi. Certo non sarebbe cambiato il risultato finale dell'accordo se ci fosse stato qualche mese di cassa integrazione ad accompagnare mestamente i licenziamenti, sebbene non si debba mai sottovalutare il valore per un lavoratore di uno o due anni di reddito in più in questa fase. Tuttavia senza ammortizzatore alcuno. Il segno che anche sul terreno occupazionale si vuole imporre la cancellazione di mediazioni e liturgie. Le stesse che hanno reso possibile negli ultimi 23 anni la gestione di milioni di esuberi con i diversi strumenti di accompagnamento lasciando al sindacato lo spazio angusto e inaccettabile di accompagnare i processi di ristrutturazione che hanno decimato l'industria nazionale in maniera soft. Non a caso nel 1991 di fronte all'approvazione della legge 223 sulla mobilità che avviava e autorizzava un'ondata impetuosa di licenziamenti nell'industria si ebbe la fiera opposizione della parte più cosciente del sindacalismo italiano. Oggi quel “ricco” sistema di ammortizzatori sociali è stato cancellato a favore della dura legge del mercato e del potere aziendale. Le ristrutturazioni proseguiranno e si intensificheranno e saranno sempre più brutali. Per queste ragioni l'accordo Alitalia ha un valore generale ed è destinato a segnare un'intera fase sindacale.

martedì 8 luglio 2014

Il diritto alla fuga

di  Toni Negri

Tempi presenti. «Confini e frontiere, la moltiplicazione del lavoro nel mondo globale», il libro di Sandro Mezzadra e Brett Neilson sulla variabilità e le alternative alla geopolitica della costrizione. E il ritorno della lotta di classe come motore dinamico del cambiamento possibile

Dopo l’89 e la fine dell’Unione Sovie­tica il mer­cato capi­ta­li­sta è diven­tato glo­bale. Da allora, pur attra­verso mol­te­plici crisi, tale glo­ba­lità si è man­te­nuta – anzi, raf­for­zata. Si sono tut­ta­via potuti osser­vare altri feno­meni: la rela­tiva crisi dell’egemonia Usa e soprat­tutto una nuova, sem­pre più evi­dente, pro­gres­siva costi­tu­zione e/o modi­fi­ca­zione delle linee che defi­ni­scono gli spazi del tes­suto glo­bale. Lasciando alla geo­po­li­tica la discus­sione sul declino (o meno) della potenza nord-americana e sulla distri­bu­zione ormai con­ti­nen­tale della sovra­nità impe­riale, con­cen­tria­moci sul nuovo dina­mi­smo delle fron­tiere – non tanto di quelle esterne quanto di quelle interne, dei flussi migra­tori, degli esodi e della ricol­lo­ca­zione delle indu­strie mani­fat­tu­riere, del riqua­li­fi­carsi uni­ver­sale dei ser­vizi logi­stici e finan­ziari… il «liscio» del para­digma glo­bale ci si pre­senta ora piut­to­sto come un dislo­carsi con­ti­nuo di dif­fe­renze e/o di diverse figure di orga­niz­za­zione, di flussi e/o di potenze varia­bili di inten­sità, e la tota­lità si offre come insieme ete­ro­ge­neo di movi­menti spa­ziali e/o di rimo­del­late insi­stenze gerarchiche.

Com­po­si­zioni in debolezza
L’orizzonte dei «mille piani» da astratto si è fatto reale. E dove non c’è più «fuori», il «den­tro» pro­duce diver­sità sem­pre più rile­vanti; dove il con­cavo è dato, il con­vesso si sta­bi­li­sce non come con­tra­rio ma come flut­tuante alter­na­tiva. Marx aveva ben descritto la ten­denza (e l’interiore dispo­si­tivo) che spin­geva verso la costi­tu­zione del mer­cato mon­diale ma non aveva espli­ci­tato come nello svi­luppo della ten­denza doves­sero ricom­pa­rire diverse fun­zioni di domi­nio, insi­stenti sulla con­ti­nua muta­zione e sulla sin­go­la­rità spa­ziale delle forme dello sfrut­ta­mento, dei dispo­si­tivi e delle ten­sioni gerar­chi­che – anch’esse varia­bili – del comando.
La divi­sione inter­na­zio­nale del lavoro risulta imple­men­tata da una nuova strut­tu­ra­zione spa­ziale: come ciò avvenga, Marx non lo dice – tut­ta­via egli ci ha for­nito un punto di vista dina­mico, il movi­mento del lavoro vivo, dal quale guar­dare que­sta mute­vole realtà (e a par­tire dal quale inte­grare la sua opera). C’è un grande lavoro da fare. Tanto più impor­tante quando, dal punto di vista di un’analisi geo­po­li­tica di quella lotta di classe che ormai si svolge a livello glo­bale, si avverta quanto siano usati e insuf­fi­cienti metodi ana­li­tici altre volte effi­caci, come ad esem­pio la pos­si­bi­lità di strin­gere den­tro una chiave ana­lo­gica (in ter­mini di iso­for­mia) strut­ture eco­no­mi­che e poli­ti­che, di poter fare della com­po­si­zione tec­nica del capi­tale e della forza lavoro la base di com­pren­sione della com­po­si­zione poli­tica delle classi.
Quelle logi­che oggi spesso si scon­trano e fun­zio­nano indi­pen­den­te­mente l’una dall’altra sic­ché dal loro con­fronto spesso deriva caos – oppure, come usano i rea­zio­nari, risul­tano ricom­po­si­zioni «deboli», estre­ma­mente varie­gate ed instabili.
Non c’è modo di affron­tare rea­li­sti­ca­mente il pro­blema se non immer­gen­dosi in que­sta nuova realtà e ten­tando di scom­porla e rico­struirla genea­lo­gi­ca­mente. Lo fanno Brett Neil­son e San­dro Mez­za­dra. Il libro di cui par­liamo Con­fini e fron­tiere. La mol­ti­pli­ca­zione del lavoro nel mondo glo­bale (Il Mulino, Bolo­gna, 2014), era già stato pub­bli­cato negli Usa con il titolo Bor­der As Method (pec­cato, per l’accademica e banale modi­fi­ca­zione del titolo da parte dell’editore ita­liano!). «Le mol­te­plici com­po­nenti del con­cetto e dell’istituzione del con­fine (giu­ri­di­che e cul­tu­rali, sociali ed eco­no­mi­che) ten­dono a stac­carsi dalla linea magne­tica cor­ri­spon­dente alla linea geo­po­li­tica di sepa­ra­zione tra Stati-nazione. Per affer­rare que­sto pro­cesso pren­diamo le distanze dall’interesse pre­va­lente per i con­fini geo­po­li­tici che carat­te­rizza molti approcci cri­tici, par­lando non solo di una pro­li­fe­ra­zione ma anche di una ete­ro­ge­neiz­za­zione dei con­fini»: tali il pre­sup­po­sto e l’approccio.
Que­sto signi­fica che Mez­za­dra e Neil­son assu­mono il con­fine in maniera del tutto nuovo (fou­cal­tiana?) come punto di vista epi­ste­mo­lo­gico, e si met­tono sul con­fine per guar­dare, per costruire con­cetti ade­guati ai flussi che sem­pre nuo­va­mente costrui­scono o con­trad­di­cono il dato, per con­di­vi­dere le pas­sioni dei corpi che, attorno ai con­fini, lot­tano, oltre­pas­san­doli o rima­nen­done vit­time – in ogni caso espri­mendo su que­sto ter­reno nuove rispo­ste alle nuove figure del domi­nio – rispo­ste sem­pre ete­ro­ge­nee quanto lo diven­gono gli attori che qui si pro­pon­gono, ma sem­pre potenti quando si con­ceda alla riu­scita dell’attraversamento della fron­tiera la dignità onto­lo­gica della pro­du­zione di soggettività.
Assu­mia­molo dun­que anche noi que­sto punto di vista e ponia­moci su quel luogo pri­vi­le­giato di let­tura e di par­te­ci­pa­zione, di dif­fe­renza e di anta­go­ni­smo, ai pro­cessi di glo­ba­liz­za­zione. «Con­fini pro­li­fe­ranti» – il punto cen­trale, la mac­china che smuove e ricom­pone i con­fini è la lotta di classe; e il rea­liz­zarsi del desi­de­rio noma­dico, l’esercizio del «diritto di fuga» che si pre­sen­tano dina­mi­ca­mente come pres­sione sui con­fini geo­po­li­tici esi­stenti e si rive­lano onto­lo­gi­ca­mente come movi­mento irre­si­sti­bile. «Il nostro obiet­tivo – dicono gli autori – è quello di tenere insieme una pro­spet­tiva sul con­fine segnata dall’attenzione per la forza-lavoro, con il nostro inte­resse per le lotte di con­fine e la pro­du­zione di sog­get­ti­vità. L’analisi si con­cen­tra così sulle ten­sioni e i con­flitti attra­verso cui i con­fini pla­smano le vite e le espe­rienze dei sog­getti che, per il fun­zio­na­mento del con­fine stesso, sono con­fi­gu­rati come “por­ta­tori” di forza-lavoro. La pro­du­zione della sog­get­ti­vità di que­sti sog­getti costi­tui­sce un momento essen­ziale del più gene­rale pro­cesso di pro­du­zione della forza-lavoro come merce».
Di qui il discorso sulla «pro­li­fe­ra­zione delle fron­tiere», dive­nuto motore di ricon­fi­gu­ra­zione della forza-lavoro, si spo­sta deci­sa­mente sulla defi­ni­zione delle forme spe­ci­fi­che nelle quali il lavoro-vivo si mol­ti­plica. È una vera e pro­pria apo­lo­gia del lavoro-vivo quella che qui si apre.
Il con­cetto di «mol­ti­pli­ca­zione del lavoro» segue quella feno­me­no­lo­gia con­tem­po­ra­nea che descrive, nella intel­let­tua­liz­za­zione, nella imma­te­ria­liz­za­zione ed infor­ma­tiz­za­zione del lavoro, il nuovo con­fi­gu­rarsi e dif­fe­ren­ziarsi di capa­cità pro­dut­tive. La trat­ta­zione di que­sto punto non è noio­sa­mente ripe­ti­tiva: rende conto del fatto che que­ste qua­li­fi­ca­zioni astratte (e talora – come l’immateriale – biz­zarre) della forza-lavoro si ricom­pon­gono nella con­cre­tezza del pro­cesso lavo­ra­tivo e nell’evidenza della mate­ria­lità della merce. E tut­ta­via insi­ste sul fatto che qui ormai è la coo­pe­ra­zione lavo­ra­tiva, il momento cen­trale che pre­siede ad ogni mol­ti­pli­ca­zione. «Cooperazione–comune»: è il pre­sup­po­sto dell’agire pro­dut­tivo e se esso non si può rico­no­scere che al ter­mine del pro­cesso, ciò non­di­meno è la coo­pe­ra­zione che tiene aperti piani mol­te­plici ed irre­ver­si­bili di pro­du­zione di sog­get­ti­vità. Con ciò la tra­sfor­ma­zione dei con­fini ha successo.

In principio era la praxis

di Francesco Raparelli

Raramente capita di leggere un testo di filosofia con la passione instancabile con cui si legge un giallo: è il caso dell'ultimo saggio di Franco Lo Piparo, Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere (Donzelli, 2014, pp. VI-186)

Lo stile investigativo aveva già fatto la sua comparsa ne I due carceri di Gramsci (2012) e L’enigma del quaderno (2013)[...] , ma solo in quest’ultimo lavoro all’originale e a volte discutibile ricostruzione biografica si accompagna una parte filosofica tanto densa quanto potente.
Lo Piparo riprende e sviluppa una tesi di Amartya Sen: Gramsci fu l’ispiratore inconsapevole delle Ricerche filosofiche, l’opera a cui Wittgenstein dedica tanta parte della sua vita e che definisce una vera e propria svolta nel suo pensiero – oltre a essere opera che segna in modo dirompente il secolo appena trascorso e ancora il nostro presente. Il «traghettatore»? Piero Sraffa, l’economista italiano che, nello stesso tempo, insegna a Cambridge – e lì discute assiduamente con Wittgenstein – e intrattiene con Gramsci un rapporto continuativo durante gli anni del carcere, poi durante la sua (di Gramsci) permanenza nella clinica Cusumano di Formia e Quisisana di Roma.
Attraverso una puntigliosa ricognizione tra le lettere, Lo Piparo svela il ruolo decisivo di Sraffa: conosce bene, e in tempo reale, le ricerche che Gramsci sta conducendo nella sua cella di Turi, anzi, ne sollecita lo svolgimento. Altrettanto, la frequentazione intellettuale tra Sraffa e Wittgenstein è tutt’altro che marginale; a ricordarlo, in modo inconfondibile, le parole che Wittgenstein dedica all’amico nella Prefazione delle Ricerche. La tesi di Lo Piparo dunque è più radicale di quella di Sen: non è il Gramsci di Torino e de «L’Ordine nuovo» quello che Sraffa consegna a Wittgenstein nei seminari e nelle ripetute conversazioni di Cambridge, ma quello intento nella scrittura dei Quaderni.
Di più: nel confronto serrato che Sraffa intraprende con Gramsci ormai fuori dal carcere, l’economista gli sottopone problemi teorici che assillano Wittgenstein e i seminari della svolta, quelli degli anni 1933-1934 e 1935-1936 (seminari stenografati e poi raccolti nel Blue Book e nel Brown Book). Un indizio tra i più convincenti? Nella primavera del 1935 Gramsci scrive d’un fiato ilQuaderno 29, quello dedicato alla grammatica; nel 1936 Wittgenstein porta a compimento la prima stesura delle Ricerche filosofiche. Forse più di una semplice coincidenza.
Quali sono i temi che testimoniano l’indiretta frequentazione intellettuale tra Gramsci e Wittgenstein e, nel farlo, sostengono l’originale tesi di Lo Piparo? Un «grappolo di concetti»: uso, regola, istituzione, praxis, gioco linguistico, forma di vita. Per entrambi, infatti, il senso di una proposizione o di una parola dipende dall’impiego che se ne fa. Così è per Gramsci critico di Croce («Questa tavola rotonda è quadrata»), così per Wittgenstein polemico con i logici e il suo Tractatus («Ma l’eguale senso delle proposizioni non consiste nel loro eguale impiego?»). E la nozione di ‘uso’ – o impiego o funzione – viene subito declinata al plurale: gli usi sono «molteplici», «eterogenei», «innumerevoli». Non c’è uso, però, senza regola, senza tecnica.
In questo senso parlare una lingua (fare uso di una lingua e, attraverso di essa, della propria facoltà di linguaggio) equivale a «seguire una regola» o a padroneggiare una tecnica. Altrettanto, vale la pena prestare attenzione alla preziosa precisazione di Lo Piparo: «è l’uso a stabilire la regola e non la regola a determinare l’uso». L’uso si presenta come «fenomeno originario», ma se uso allora regola e, passaggio fondamentale, se regola allora istituzioni («non si può seguire una regola ‘privatim’»). A partire dal linguaggio si afferra l’umano come animale istituzionale, di conseguenza animale naturalmente artificiale, storico.
Giunti a questo punto, il lavoro di Lo Piparo si fa tanto potente quanto problematico. Come fece già con Aristotele, in un testo importante di qualche anno fa (Aristotele e il linguaggioCosa fa di una lingua una lingua, Laterza 2005), Lo Piparo torna all’originale, in questo caso il testo tedesco di Wittgenstein, per scovare elementi decisivi occultati dalle traduzioni più in voga. Non pare cosa marginale a Lo Piparo, e come dargli torto, che Wittgenstein utilizzi il termine praxis, quello stesso assai caro a Gramsci. Concetto imparentato con altre due decisive nozioni delle Ricerche: «gioco linguistico» e «forma di vita».
La svolta di Wittgenstein è ormai piena: «chiamerò ‘gioco linguistico’ anche tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto»; «la parola ‘gioco linguistico’ è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita». Svolta – e qui il mio accordo con l’autore è massimo – che Lo Piparo non si limita a definire «antropologica», ma che qualifica anche come «storicistica». D’altronde il testo di Wittgenstein è fin troppo chiaro: «questa molteplicità [tipi di impiego di segni, parole, proposizioni] non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati»; in Della certezza, «il gioco linguistico cambia col tempo». Storicità degli usi e delle regole, storicità dei giochi linguistici, storicità delle forme di vita.
Con la nozione di praxis, dunque, il linguaggio perde la sua autonomia e si disloca, secondo la metafora tessile dell’intreccio, nell’attività. Scrive Lo Piparo: «pratiche verbali e non verbali formano un tessuto co-articolato e unitario, ossia una forma di vita». Questa la svolta di Wittgenstein, fin qui i meriti del libro di Lo Piparo. Più problematico il riferimento a Gramsci. Non solo perché non convince l’affondo biografico: Gramsci professore mancato, totus politicus per un numero assai ridotto di anni, marginale nel partito anche prima del carcere. Di più: “libero” (dalla politica) in carcere perché finalmente dedito alla ricerca «disinteressata» e «für ewig». Una ricostruzione con qualche forzatura di troppo che dimentica il Gramsci radicalmente operaista, quello che prende appunti ai cancelli delle fabbriche, quello del «biennio rosso» e de «L’Ordine nuovo», il Gramsci convintamente leninista e soviettista.