di Francesco Raparelli
Raramente capita di leggere un testo di filosofia con la passione
instancabile con cui si legge un giallo: è il caso dell'ultimo saggio di Franco
Lo Piparo, Il
professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere (Donzelli,
2014, pp. VI-186)
Lo stile investigativo
aveva già fatto la sua comparsa ne I due carceri di Gramsci (2012)
e L’enigma del quaderno (2013)[...] , ma solo in quest’ultimo
lavoro all’originale e a volte discutibile ricostruzione biografica si
accompagna una parte filosofica tanto densa quanto potente.
Lo Piparo riprende e sviluppa una tesi di Amartya Sen: Gramsci fu
l’ispiratore inconsapevole delle Ricerche filosofiche, l’opera a
cui Wittgenstein dedica tanta parte della sua vita e che definisce una vera e
propria svolta nel suo pensiero – oltre a essere opera che segna in modo
dirompente il secolo appena trascorso e ancora il nostro presente. Il
«traghettatore»? Piero Sraffa, l’economista italiano che, nello stesso tempo,
insegna a Cambridge – e lì discute assiduamente con Wittgenstein – e
intrattiene con Gramsci un rapporto continuativo durante gli anni del carcere,
poi durante la sua (di Gramsci) permanenza nella clinica Cusumano di Formia e Quisisana
di Roma.
Attraverso una puntigliosa ricognizione tra le lettere, Lo Piparo
svela il ruolo decisivo di Sraffa: conosce bene, e in tempo reale, le ricerche
che Gramsci sta conducendo nella sua cella di Turi, anzi, ne sollecita lo
svolgimento. Altrettanto, la frequentazione intellettuale tra Sraffa e
Wittgenstein è tutt’altro che marginale; a ricordarlo, in modo inconfondibile,
le parole che Wittgenstein dedica all’amico nella Prefazione delle Ricerche.
La tesi di Lo Piparo dunque è più radicale di quella di Sen: non è il Gramsci
di Torino e de «L’Ordine nuovo» quello che Sraffa consegna a Wittgenstein nei
seminari e nelle ripetute conversazioni di Cambridge, ma quello intento nella
scrittura dei Quaderni.
Di più: nel confronto serrato che Sraffa intraprende con Gramsci
ormai fuori dal carcere, l’economista gli sottopone problemi teorici che
assillano Wittgenstein e i seminari della svolta, quelli degli anni 1933-1934 e
1935-1936 (seminari stenografati e poi raccolti nel Blue Book e
nel Brown Book). Un indizio tra i più convincenti? Nella primavera
del 1935 Gramsci scrive d’un fiato ilQuaderno 29, quello dedicato alla
grammatica; nel 1936 Wittgenstein porta a compimento la prima stesura delle Ricerche
filosofiche. Forse più di una semplice coincidenza.
Quali sono i temi che testimoniano l’indiretta frequentazione
intellettuale tra Gramsci e Wittgenstein e, nel farlo, sostengono l’originale
tesi di Lo Piparo? Un «grappolo di concetti»: uso, regola, istituzione, praxis,
gioco linguistico, forma di vita. Per entrambi, infatti, il senso
di una proposizione o di una parola dipende dall’impiego che se ne fa. Così è
per Gramsci critico di Croce («Questa tavola rotonda è quadrata»), così
per Wittgenstein polemico con i logici e il suo Tractatus («Ma
l’eguale senso delle proposizioni non consiste nel loro eguale impiego?»).
E la nozione di ‘uso’ – o impiego o funzione – viene subito declinata al
plurale: gli usi sono «molteplici», «eterogenei», «innumerevoli». Non c’è uso,
però, senza regola, senza tecnica.
In questo senso parlare una lingua (fare uso di una lingua e,
attraverso di essa, della propria facoltà di linguaggio) equivale a «seguire
una regola» o a padroneggiare una tecnica. Altrettanto, vale la pena prestare
attenzione alla preziosa precisazione di Lo Piparo: «è l’uso a stabilire la
regola e non la regola a determinare l’uso». L’uso si presenta come «fenomeno
originario», ma se uso allora regola e, passaggio fondamentale, se regola
allora istituzioni («non si può seguire una regola ‘privatim’»). A
partire dal linguaggio si afferra l’umano come animale istituzionale, di
conseguenza animale naturalmente artificiale, storico.
Giunti a questo punto, il lavoro di Lo Piparo si fa tanto potente
quanto problematico. Come fece già con Aristotele, in un testo importante di
qualche anno fa (Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una
lingua una lingua, Laterza 2005), Lo Piparo torna all’originale, in questo
caso il testo tedesco di Wittgenstein, per scovare elementi decisivi occultati
dalle traduzioni più in voga. Non pare cosa marginale a Lo Piparo, e come
dargli torto, che Wittgenstein utilizzi il termine praxis, quello stesso assai
caro a Gramsci. Concetto imparentato con altre due decisive nozioni delle
Ricerche: «gioco linguistico» e «forma di vita».
La svolta di Wittgenstein è ormai piena: «chiamerò ‘gioco
linguistico’ anche tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività
di cui è intessuto»; «la parola ‘gioco linguistico’ è destinata a mettere in
evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di
un’attività, o di una forma di vita». Svolta – e qui il mio accordo con
l’autore è massimo – che Lo Piparo non si limita a definire «antropologica», ma
che qualifica anche come «storicistica». D’altronde il testo di Wittgenstein è
fin troppo chiaro: «questa molteplicità [tipi di impiego di segni, parole,
proposizioni] non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi
tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e
altri invecchiano e vengono dimenticati»; in Della certezza, «il
gioco linguistico cambia col tempo». Storicità degli usi e delle regole,
storicità dei giochi linguistici, storicità delle forme di vita.
Con la nozione di praxis, dunque, il linguaggio perde
la sua autonomia e si disloca, secondo la metafora tessile dell’intreccio,
nell’attività. Scrive Lo Piparo: «pratiche verbali e non verbali formano un
tessuto co-articolato e unitario, ossia una forma di vita». Questa
la svolta di Wittgenstein, fin qui i meriti del libro di Lo Piparo. Più
problematico il riferimento a Gramsci. Non solo perché non convince l’affondo
biografico: Gramsci professore mancato, totus politicus per un
numero assai ridotto di anni, marginale nel partito anche prima del carcere. Di
più: “libero” (dalla politica) in carcere perché finalmente dedito alla ricerca
«disinteressata» e «für ewig». Una ricostruzione con qualche forzatura
di troppo che dimentica il Gramsci radicalmente operaista, quello che prende
appunti ai cancelli delle fabbriche, quello del «biennio rosso» e de «L’Ordine
nuovo», il Gramsci convintamente leninista e soviettista.
Il problema più significativo, però, è a mio avviso un altro: Lo
Piparo omette il rapporto, decisivo nei Quaderni, tra Gramsci e
Marx. Un «ritorno a Marx» che intende liberare il rivoluzionario di Treviri e
lo stesso Gramsci dall’idealismo italico, come dal materialismo volgare di
Bucharin, dall’involuzione sovietica e staliniana, dal Pci di Togliatti. Non è
casuale che, per qualificare la nozione di ‘filosofia della praxis ‘
(locuzione che risale a Labriola, 1897), Gramsci si dedichi a tradurre le Tesi
su Feuerbach ‒ tradotte prima di lui da Gentile nel 1899 ‒ e alcuni
brani della Prefazione a Per la critica dell’economia
politica.
Filosofia della praxis è un nuovo modo di
qualificare il materialismo storico, tentando di riempire quel vuoto teorico da
Marx mai del tutto colmato: la connessione costitutiva, senza alcuna gerarchia
possibile, tra produzione e linguaggio, rapporti di produzione e istituzioni politiche,
lavoro e apparati ideologici. Questo Gramsci che con Marx pensa oltre Marx e
che usa Marx per farla finita con lo stalinismo, dunque non il Gramsci
professore e liberale, è stato vittima, anche dopo la sua morte, di un «secondo
carcere»: il togliattismo e il socialismo all’italiana (il nazional-popolare,
l’interesse generale e molto altro).
Proprio oggi che massima è la coincidenza tra produzione e
linguaggio (e semiotiche a-significanti), tra moneta e speech act, e oggi che con Renzi e la svolta thatcheriana del Pd
anche solo il ricordo di quel secondo carcere è stato completamente sommerso, è
possibile tornare al materialismo storico gramsciano e, con Lo Piparo,
conquistare il materialismo storico di Wittgenstein. Una grande occasione.