Nell’epoca
in cui l’umanità vive la più intensa e straordinaria esperienza dell’essere-in-comune,
in un tempo in cui mai l’umano è stato attraversato da una condizione esistenziale
di dimensione universale ma al tempo stesso atomizzata, è possibile superare “la
dicotomia che vede nello smantellamento dello Stato e nello Stato minimo il
trionfo del neoliberismo e dell’individualismo sfrenato e nello Stato la
roccaforte del diritto, dei diritti, della responsabilità individuale, di un
senso etico e di cura degli altri?”
A chiunque sarà capitato, curiosando
in rete per avere maggiori informazioni su questa o quella mobilitazione di un
territorio, di incontrare un appuntamento sociale “in difesa della tratta
ferroviaria tra la stazione di Vattelappesca e quella di Inculoallaluna
minacciata da processi di privatizzazione” che chiamava alla lotta per il bene
comune.
La forza prensile e didascalica del
concetto è andata di pari passo con la sua banalizzazione, si dice. Ora, non è
che la banalizzazione sia di per sé un male. La banalizzazione, meglio: la
riduzione a un’espressione semplice, è un potente impulso di diffusione, una
popolarizzazione di un concetto complesso, sfaccettato. Se può derivarne un
indebolimento concettuale, non è detto che non possa anche registrarsi un rafforzamento
politico, di mobilitazione sociale, appunto. Non è che dobbiamo avere sempre
paura che concetti forti diventino popolari, perché così il carattere
innovativo, rivoluzionario perde la sua potenza, un po’ come una palla di fuoco
che per l’attrito si fa sempre più lenta e innocua.
Il problema, semmai, è proprio dal
lato della continua costruzione concettuale del “bene comune”, cioè di un
lavoro che è insieme di approfondimento teorico e di sperimentazione sociale,
insomma politico. È qui che dovremmo evitare di ripetere luoghi comuni e
banalità, per non ritrovarci, invece che a batterci per una repubblica dei beni
comuni per una dei luoghi comuni.
Dovremmo insomma evitare una sorta di
new age dei beni comuni. Quella versione olistica — il clima, l’orbe
terracqueo, le nevi perenni, i grandi ghiacciai, gli oceani, la biodiversità —
e quella versione ridondante di dettagli — la tratta ferroviaria
Vattelappesca/Inculoallaluna, appunto. L’una e l’altra non possono che
incorrere in stereotipi. Prima o poi, l’incanto della narrazione diventa
stucchevole.
Nostalgia
e rimpianto
Che cos’è che rende così accessibile
il concetto di bene comune e anche così immediatamente comprensibile? Cos’è che
rende possibile quel processo di identificazione fra sé e “la trama narrativa”
del bene comune, cioè qual è il meccanismo narrativo? Io credo che sinora nella
narrazione sociale giochi un certo sentimento di “nostalgia”, nostalgia per
qualcosa che si è perduto. E non mi riferisco solo a chi, per età, ha
un’esperienza di vita più sociale — la scuola, la sanità, le occasioni di
relazione — che la privatizzazione e la finanziarizzazione selvagge hanno
spazzato via, ma anche a chi, più giovane, è cresciuto dentro questi processi
selvatici e ne ha preso coscienza e presume l’incanto di un mondo diverso, più
sociale, “prima”. Gioca insomma la nostalgia per qualcosa che ci è stato tolto
— e noi soffriamo più per quello che ci viene tolto di quanto possiamo gioire
per quello che non abbiamo ancora — o il rimpianto per quello che non s’è
avuto. E gioca anche una consapevolezza di un “pessimismo del futuro”, sia in
chi ha visto gradatamente smantellare istituzioni, spazi, momenti di comunità e
quindi ha conto di un processo negativo che sembra inarrestabile, e sia in chi
non ha contezza di un passato diverso, insomma della “storia”, ma vede questo
presente incerto e precario come un’orribile opzione su quello che accadrà,
come un “immobilismo della storia”, una scomparsa dello svolgimento storico.
Nostalgia e rimpianto sembrano le tonalità dei sentimenti narrativi del bene
comune.
L’esperienza
dell’umano
Eppure, io credo che l’accessibilità
del concetto e la sua comprensibilità — o forse meglio: il fatto che ciascuno
lo riempia di cose proprie, di propri saperi, di proprie applicazioni estensive
o immediate — nasca non solo dai sentimenti della nostalgia e del rimpianto e
dal pessimismo del futuro, ma dall’sperienza.
Non c’è mai stato un tempo in cui
l’umanità abbia vissuto così intensamente l’esperienza dell’essere–in–comune. E
pure mai un tempo in cui l’atomizzazione degli individui sia così definita, in
cui l’umano sia così differenziato. Mai un tempo in cui l’umano sia così
universale e pure così particolareggiato e sminuzzato, così vicino e così
lontano. L’essere–in–comune non ha più solo il segno precipuo del timore, della
paura della morte insieme [come è stato per la trincea delle guerre del
novecento, l’esplosione della bomba atomica], ma altrettanto quello della
speranza, della felicità. La paura della morte non è più la prima delle
passioni sociali dell’uomo, anche dopo l’11 settembre. Non c’è esperienza
religiosa, sessuale e sociale a cui io non possa accedere. Domattina posso
scoprirmi musulmano, scintoista, copto, e provare a praticare questa mia nuova
fede. Domattina posso farmi le tette e provare un’esperienza sessuale
completamente rovesciata. Domattina posso farmi decine di amici inventandomi
un’identità, e chattare con loro, e mandare tweet stupidi o intelligenti, e poi
cambiare di nuovo e di nuovo ancora. Ognuna di queste esperienze è reversibile.
È questo che era inimmaginabile solo un pugno d’anni fa. Era inimmaginabile che
un’esperienza fosse praticabile sino in fondo e pure reversibile. Faccio un
esempio “terribile” di questi passaggi: quello del giovane Tsarnaev, il più
giovane dei due fratelli ceceni che hanno attentato alla maratona di Boston,
che aveva abbracciato convintamente un processo di assimilazione, vi era
cresciuto, pure con sollecitazioni opposte, e poi gli si è volto contro, in un
passaggio turbinoso di identità che ha avuto del micidiale. L’esperienza
dell’umano – di ogni antagonismo naturale, di ogni conflitto — non è il
migliore dei mondi possibili, eppure è il possibile mondo che abitiamo adesso.
La molteplicità di identità umane che ci è possibile praticare è anche
l’abbandono di una serie di identità e di pratiche. Ogni abbandono non ci rende
“ex”, anzi ci fa neofiti. Siamo sempre neofiti di una qualche esperienza.
L’esperienza “finita” dell’altro viene trattenuta e si proietta nell’esperienza
infinita del “comune”. È un umanesimo nomade quello che viviamo, senza centro,
quasi rovesciando l’antropocentrismo dell’umanesimo rinascimentale. Non c’è
bisogno che io non possa patire e non c’è desiderio che io non possa sognare.
Non c’è diritto che io non possa immaginare. Il «diritto a tutte le cose» si
diffonde e cresce tra un desiderio esclusivo proprietario, di possesso e una
possibilità di uso comune. Tra l’amor proprio e l’amor comune non c’è più solo
una relazione di esclusività — il mercante e il mercato, il monaco e la
comunità religiosa.
È la miserabilità e la potenza del
presente il purgatorio dell’essere–in–comune. Ma il bene comune non è uno stato
da ripristinare né un sol dell’avvenire. È il paletto di frassino conficcato in
un presente che è non–vivo e non–morto, è il conflitto che spacca il presente
del non–ancora e del non–più.
Le
categorie
È perciò evidente la mia perplessità
riguardo la “categoria dei beni comuni”, la categorizzazione dei beni comuni,
anche in una versione lata [«i beni comuni sono quei beni che non sono
proprietà di nessuno, come l’acqua, l’aria, il clima, le risorse minerarie dei
fondi marini, la biodiversità, la conoscenza e la cultura, le orbite
satellitari, le bande dell’etere»; e ancora: «non solo le componenti naturali
ma anche le forme della conoscenza, il capitale sociale, le regole, le norme,
le istituzioni e i diritti sono essi stessi beni pubblici»: cito da Laura
Pennacchi, Filosofia dei beni comuni,
Donzelli, 2012].
Perché mi sembra più proprio, più
perspicuo mettere in relazione e conflitto la nostra “dannata” — antagonista
fra realtà e splendore glorioso, come antagonista è tutto ciò che è umano —
esperienza dell’essere–in–comune con l’intero assetto istituzionale, normativo
e proprietario. O l’essere–in–comune trova forme, istituzioni, norme e regole
che decretino e diano ordine nuovo alla nostra esperienza del vivere, del
lavorare, del desiderare, del patire, del conoscere, diventando grundnorme,
principio fondativo e costitutivo della nostra sperimentazione sociale. Oppure,
si restringe nell’orizzonte della normativizzazione “una parte” [comune] del
nostro essere gettati nel mondo [nel pubblico e nel privato, nella mondanità e
nell’interiorità].
In un mondo dove di tutto ciò che è
comune ormai sembra ci si possa appropriare, senza neppure produrlo, senza
neppure toglierlo a un altro, e dove nulla può essere distribuito ma rimanere
stretto in poche mani, e dove la produzione ha perso il suo carattere lineare
di accumulazione e espansione, perciò di liberazione, ma rimane stretta in un
ciclo di creazione e distruzione di ricchezza, perciò di asservimento, quale
mai potrà essere la legge?
C’è
vita oltre lo Stato?
Un appunto polemico, nei confronti di
Laura Pennacchi — che peraltro considero persona preparata e competente —, già
citata, e del suo libro. La Pennacchi parla di una triangolazione necessaria
pubblico–privato–comune, e della insopprimibile necessità di rifondare lo Stato
come garante. Uno Stato forte e stratega, per un nuovo modello di sviluppo. La
Pennacchi parla di stateness,
traducibile forse con statualità, forse con statabilità, più propriamente forse
con “sentimento di Stato”.
È possibile superare la dicotomia che
vede nello smantellamento dello Stato e nello Stato minimo il trionfo del
neoliberismo e dell’individualismo sfrenato e nello Stato la roccaforte del
diritto, dei diritti, della responsabilità individuale, di un senso etico e di
cura degli altri?
La questione non è che lo Stato — il
cui percorso di realizzazione è stato importantissimo, quello, poi, della
modernità — abbia dato una brutta prova di sé e vada quindi rimesso in ordine;
la questione non è che sia una ingombrante presenza, che sia troppo, cioè,
oppure che sia stato poco e ce ne occorra semmai di più — che era il pensiero
di Federico Caffè —, ma che è diventato un obiettivo “minuto” a fronte della
complessità sociale e della ricchezza dell’individuo, a fronte cioè della
potenza e della capacità dell’essere–in–comune.
La funzione dello Stato di
redistribuzione senza essere più produttore è divenuta oppressiva e odiosa.
Ricondurre la produzione allo Stato [ché su questo si fondava la sua autorità e
la sua legge], che sarebbe poi il ruolo del “pubblico” che prima d’essere
distributivo è produttivo, è ormai impossibile: la produzione è sfuggita dal
pubblico e non si può più ricondurla.
È possibile la democrazia senza lo
Stato? Come potrà configurarsi una nuova democrazia, dopo quella “democrazia
del privato” che è stata la democrazia liberale, dopo quella “democrazia del
pubblico” che è stata la democrazia keynesiana, la grosse koalition, il
compromesso storico fra socialdemocrazia e popolari del secondo dopoguerra?
Come potrà essere la forma della democrazia dell’essere–in–comune?
È possibile l’esercizio della
sovranità e della forza senza lo Stato, che trattenga o eserciti la forza
presso di sé senza alienarla? È possibile la repubblica senza lo Stato? È
possibile esercitare le virtù repubblicane senza lo Stato? È possibile un patto
tra gli uomini — una cospirazione delle volontà e delle opportunità — non più
solo per timore della morte ma per speranza di felicità?