martedì 14 maggio 2013

Bruciare Debord? A partire da un libro di Anselm Jappe*

di Alessandro Simoncini

È possibile costruire “situazioni” e potenza dal basso contro la rivoluzione dall’alto? Possiamo produrre rendita sociale contro la rendita finanziaria e la tirannia del valore? Per dare le risposte a questi interrogativi l’autore di della recensione al libro di Jappe (Guy Debord,Manifestolibri) ritiene assolutamente inopportuno mettere  Guy Debord al rogo. Anzi, è bene –ci dice Simoncini- «lavorare ad una adeguata comprensione delle nuove forme del concetto di spettacolo, senza smettere però di valorizzare il modo in cui il suo “inventore” ne ha messo a nudo l’anima stessa». Jappe ci mostra che il concetto di spettacolo non riguarda tanto i bagliori della “sua manifestazione più opprimente”- la componente mass-mediatica –, quanto il modo in cui nella società dello spettacolo “il vivere e il determinare gli eventi in prima persona” venga radicalmente interdetto dalla “contemplazione passiva di immagini, che sono state scelte da altri”

Tra Socialisme ou Barbarie e Maggio ‘68
Debord sarà sempre fermo nella critica ad ogni possibile difesa dell’esperienza dei socialismi realizzati, che imbrigliano la vita delle popolazioni nella morsa dello “spettacolo concentrato”. In ciò deve molto alla rivistaSocialisme ou Barbarie, che legge quelle fomazioni sociali come duramente classiste e, in fin dei conti, “peggiori del feudalesimo”. Dalla rivista, il filosofo situazionista- mutua anche l’avversione nei confronti di ogni tipo di burocrazia, anche quella delle avanguardie che si battono in nome del proletariato. La burocrazia di partito, che approfondisce la frattura socialmente egemone tra governanti e governati, va sostituita con forme organizzative consiliari capaci di diffondere l’azione politica ben al di fuori della fabbrica – della cui funzione socializzante i redattori di Socialisme ou Barbarie scorgono precocemente la crisi . Per loro occorre giungere all’ “autogestione generalizzata”: più che pianificare l’economia o redistribuire ricchezze, il socialismo dovrà infatti “dare un senso alla vita e al lavoro, liberare la creatività e riconciliare l’uomo con la natura”. Jappe sottolinea l’influenza di queste tematiche su Debord, ma mostra anche come l’Internazionale situazionista – quando la rivista passerà dalla critica dell’economicismo alla critica del marxismo tout court – criticherà Socialisme ou Barbarie di umanesimo molle e di simpatia con le retoriche della “democrazia occidentale”.
Tra non poche contraddizioni, come quella che la vede riservare al proletariato il ruolo centrale nella sovversione della società pur avendo tolto ogni valore al lavoro – Ne travaillez jamais, avevano già scritto i lettristi sui muri -, l’ “avanguardia inaccettabile” (come lo stesso Jappe definisce l’Internazionale situazionista ne L’avant-garde inacceptable. Réflexions sur Guy Debord, Paris, Éditions Léo Scheer, 2009) scivola fieramente verso il Maggio ’68 preoccupandosi di “mantenere il proprio monopolio sulla radicalità”e facendosi beffe di ogni terzomondismo piagnone: “il progetto rivoluzionario deve essere realizzato nei paesi industriali avanzati”, si sostiene sulla rivista dell’I.S. Nel “bel Maggio” – continua Jappe – i situazionisti vedevano confermata la bontà delle loro previsioni. Infatti, pur senza crisi economiche in vista, appariva possibile quel “rovesciamento del mondo rovesciato” che faceva leva sul desiderio di una vita diversa presente nella maggioranza dei viventi: quel “desiderio di essere maestri della propria vita” che in ogni momento può “mettere in ginocchio uno Stato moderno”. Al mondo borghese ecologicamente distruttivo del capitale, del valore, della quantità e della merce, avrebbe sempre potuto far seguito un mondo passionale, qualitativo, composto da “maestri senza schiavi”. Contro lo spettacolo che nega la storia e la rinchiude in un eterno presente, il “bel Maggio” mostrava insomma che in ogni momento era possibile riaprire la partita. È soprattutto una questione di strategia, sembrava ritenere Debord. Si tratta, cioè, di tenere sott’occhio la dinamica dei movimenti per inserirvisi nel momento opportuno; come nella più barocca delle letture del reale, bisogna insomma prendere la scena del gran teatro del mondo, dove si svolge quell’eterno gioco-scontro tra le forze che è in fin dei conti la storia.
Non è un caso, allora, che Debord fosse un grande ammiratore di Paul Gondi, il Cardinal de Retz, ma anche di Machiavelli e di Clausewitz; come non è casuale che abbia inventato un “gioco della guerra” che verrà anche commercializzato. Tradendo l’adesione ad una concezione duellistica della guerra, dalla quale mutuerà per Jappe una concezione in fondo rigida della lotta di classe, Debord scriverà che “le teorie non sono fatte che per morire nella guerra del tempo: sono delle unità più o meno forti che bisogna impegnare al momento giusto nella lotta”. E ancora: “ogni teoria non è altro che un battaglione da lanciare nella guerra”.
Jappe mostra bene come “Maggio ’68” rappresenti il vero momento di gloria dei situazionisti, ma anche l’inizio di quella crisi che condurrà allo scioglimento della loro Internazionale nel 1972. In un modo per nulla convincente, ne La vera scissione nell’internazionale (1972), lo stesso Debord e l’italiano Sanguineti sosterranno che lo scioglimento è conseguente al fatto che le idee situazioniste sono ormai diffuse in tutte le organizzazioni rivoluzionarie; e in tutte quelle che i due chiamano “lotte contro l’alienazione”: le lotte dei neri afro-americani (e non), degli studenti, delle donne, degli omosessuali; lotte peraltro mai davvero approfonditamente indagate nella loro specificità. Agli occhi dei componenti superstiti dell’I. S., sopravissuti alle scissioni e alle scomuniche di un Debord rigorosamente ortodosso tra i nemici di ogni ortodossia, lo scioglimento era nelle cose, poiché il compito dell’organizzazione era stato finalmente svolto con successo.
Al riguardo Jappe parla esplicitamente di “megalomania” e di “perdita del senso della realtà”, rilevando come le teorie situazioniste fossero di fatto presenti solo tra gli studenti e tra gli intellettuali e non in quel proletariato tanto agognato che del resto non si è mai davvero battuto contro la società dello spettacolo intesa nella sua “totalità”. Per Jappe è proprio l’individuazione del proletariato come soggetto antagonista dello spettacolo «il limite evidente della teoria di Debord». In molti luoghi della sua opera egli aveva infatti evidenziato il «carattereinconscio della società retta dal valore»,  in sintonia con il modo in cui nel Capitale Marx aveva descritto gli abitanti della società della merce come donne e uomini il cui «movimento sociale assume la forma di un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo». Ciononostante restava legato ad un concetto in fondo idealistico della “classe” e della “lotta di classe”. Nell’ipotesi di Jappe, però, è proprio quest’ultima – declinata in forma per lo più distributiva nell’esperienza storica del movimento operaio – ad aver permesso di rafforzare la presa del sistema capitalistico su individui ridotti davvero ad “uomini senza qualità”; uomini che competono unicamente “per un posto più confortevole nell’alienazione generale”, diventando così progressivamente «”monadi” astratte e uguali che partecipano in pieno al denaro e allo Stato».
Debord si è illuso che il proletariato fosse un soggetto antagonista naturalmente esterno alla logica dello spettacolo – è la tesi di Jappe –, mentre questo continuava ad essere prodotto e riprodotto come un «attrezzo vivo del capitale variabile e del capitale fisso», in una parola come spettatore nella società della merce.

Lo spettacolo nei Commentari
Solo in pochi strutturano le immagini spettacolari, altri le contemplano poiché esse tendono naturalmente a sottrarsi al controllo dei viventi. Lo spettacolo è solo una parte della società, ma capta tutta l’attività sociale volgendola ai suoi fini. Per Debord lo spettacolo è il potente “strumento con il quale questa parte domina la società intera” assoggettandola ai propri interessi. In ciò lo spettacolo è l’erede della religione e Jappe non manca di notare il richiamo di Debord al Feuerbach de L’essenza del cristianesimo: «la vecchia religione aveva proiettato la potenza dell’uomo nel cielo, dove essa assume le sembianze di un dio che si oppone all’uomo come entità estranea; lo spettacolo svolge la stessa operazione sulla terra». Le immagini spettacolari, create dall’uomo stesso, si stagliano ora di fronte a lui come forze onnipotenti sfuggite al controllo. Le rappresentazioni dello spettacolo si separano, sovrastandola, dalla vita reale degli individui che – come nella religione – «trova il suo senso solo al di fuori di se stessa».
L’intero corso della Modernità non farebbe che perfezionare questa forma del dominio. Così lo spettacolo consolida il regno della merce e delle sue immagini e dopo molte peripezie giunge ad imporsi come una totalità tanto all’interno delle società, quanto su scala mondiale. Da questo punto di vista, per Debord, la cosiddetta guerra fredda non è stata altro che lo scontro tra due sistemi spettacolari segretamente solidali tra loro: lo “spettacolo concentrato” già praticato dal nazi-fascismo – quello in cui ha preso storicamente forma il dominio delle burocrazie e del capitalismo di stato sulle società dei paesi sedicenti comunisti -  e lo “spettacolo diffuso” – quello dei paesi in cui la merce e la sua immagine si sono imposte, nei paesi a capitalismo avanzato, come il soggetto supremo al quale intere masse di spettatori potavano sì ampiamente accedere, ma solo in via adorante e subalterna.
In un efficace paragrafo del suo libro, intitolato Lo spettacolo vent’anni dopo, Jappe analizza il modo in cui neiCommentari sulla società dello spettacolo Debord riflette sul modo in cui, nel ventennio seguito al maggio ’68, le forme dello spettacolo si ricombinano. I due nemici apparenti si fondono in quello “spettacolo integrato” nel quale il segreto, la mafia, la violenza la falsificazione entrano in sinergia con le frontiere ultime del mediatico e con le più seducenti fantasmagorie della merce. Coniugando vecchi e nuovi metodi del dominio, lo spettacolo integrato si impone allora ovunque catturando ogni forma di resistenza (la critica artistica, il rifiuto del lavoro, il rigetto della burocrazia statale) e mettendola al lavoro nei dispositivi spettacolari. Per Debord, con lo “spettacolare integrato” la forma-merce completa la colonizzazione della società, integrando ogni opposizione immanente (il movimento operaio, i movimenti di liberazione “terzomondiali”, quelli studenteschi e femministi, ecc.). Al tempo stesso, però, lo strapotere della forma-valore mina dall’interno il sistema spettacolar-capitalistico stesso dal momento che – come mostra bene la crisi ecologica – questo mostra di non saper gestire “le folli leggi dell’economia”. Jappe mostra bene come di fronte all’indiscutibile vittoria della società della merce nei Commentari Debord oscilli: se da una parte vede lo spettacolo perfezionarsi al punto che “ha potuto allevare una generazione sottomessa alle sue leggi”, dall’altra nella sua affermazione conclamata e senza più veli “non abbassa gli uomini fino a farsene amare”, perché suscita anzi un “disprezzo generale”: “nessuno crede [più] veramente allo spettacolo”, sembra pensare Debord.
E ciò non stupisce: il filosofo situazionista – uno«tra i pochi hegelo-marxisti francesi», scrive Jappe -  appare infatti disorientato da quello stesso sguardo “dialettico” che lo rende al contempo capace di cogliere al meglio le contraddizioni nei processi e negli eventi, senza dimenticare di segnalare la loro appartenenza ad una ben determinata totalità. Per il dialettico Debord, infatti, «l’alienazione […] colpisce tutta la società a partire dalla tirannia del valore di scambio – sottolinea Jappe – e […] trasforma virtualmente, sul piano del vissuto, tutti gli uomini in proletari» sotto il regno dello spettacolo. Così quest’ultimo finisce per somigliare “a una tappa nel cammino dello Spirito del mondo”; e tuttavia l’uomo – secondo l’ispirazione di un hegelismo mediato da Kojève e contrapposto ad ogni strutturalismo (pura apologetica dello spettacolo per Debord) – resta libero di negarel’ordine dato.

Sul “platonismo” in Debord
Non accade così, per Jappe, nelle teorie della “società dei simulacri” à la Baudrillard, che separando il concetto di spettacolo dalla sua base materiale ne fanno “un sistema autoreferenziale” in cui i segni coincidono senza residui con la realtà. Nel Baudrillard di Jappe, allora, le intuizioni di Debord finiscono per essere recuperate da una teoria postmoderna che “nega ogni rapporto dialettico tra il simulacro e la realtà e non scorge più alcuna resistenza all’opera: lo scambio dei segni ha ormai occupato tutto il sociale”.
Al contrario Debord ritiene che il desiderio possa in ogni momento bucare lo schermo dello spettacolo e sovvertire il capitalismo, restituendo così ai viventi “il controllo sul proprio ambiente e su tutti i mezzi materiali e intellettuali”. Certo, si tratta di un desiderio che non viene inteso come una forza inconsapevole e legata ai bisogni, né come l’”immaginazione inconscia” dei surrealisti, o come quel desiderio erotico che così sovente sfuma nella propaganda borghese dell’”amore come unica avventura possibile”. Per Debord è piuttosto una libera espressione «consapevole e scelta dagli individui»; è «un piacere [che] deve essere aumentato al massimo». E ciò non può avvenire nella società della merce, dove anche ciò che vanta le insegne dell’antagonismo si presenta quasi sempre «nella forma niente affatto innocente dell’immagine spettacolare».
Come si è visto, tuttavia, Jappe mostra come in Debord, dopo l’abbandono delle illusioni sul proletariato e in controtendenza rispetto a queste posizioni, restino forti le tracce di una ontologia del soggetto antagonista. In molti luoghi del discorso situazionista un simile soggetto sembra coincidere con la vita stessa. Nella Società dello spettacolo Debord sembra infatti porre il problema nei termini di un rapporto di opposizione tra lo spettacolo – la non-vita, cioè la “vita permessa”e falsa – e la società: l’esistenza interdetta e vera, che alla prima oppone irriducibilmente il suo flusso in nome di un’altra vita. È una posizione vitalista – osserva Jappe – in buona sostanza riconducibile all’idea bergsoniana del flusso temporale come vera dimensione umana. Una posizione rinvenibile anche in Storia e coscienza di classe di Lukàcs, dove il processo di “disalienazione” riguarda la sola sfera vitale della coscienza reificata; una posizione comune, in fin dei conti, a tutta la sinistra modernista che, ipotizzando un soggetto puro pervertito dall’azione corrosiva della merce (il proletariato, il terzo mondo, gli studenti, le donne, i migranti, i lavoratori cognitivi, ma anche la sessualità, la creatività…), rischia di assolvere il capitalismo dalla sua colpa più grave: quella di produrre continuamente le forme di vita funzionali alla propria egemonia, impedendo di fatto “la formazione di quella soggettività cosciente di cui il capitalismo stesso ha creato molti dei presupposti necessari”. Il problema – continua Jappe – non è quello di sottoporre a critica una forma di coscienza reificata in nome della sollevazione del soggetto puro, ma quello di comprendere (e criticare) le ”circostanze sotto cui vivono gli uomini”: quelle in cui si produce senza posa la loro soggettività; quelle che tengono in forma una “società governata dal valore”, che si impone come un automa alla stessa vita sociale tramite il medium della merce e del denaro.
In questo modo Jappe affronta apertamente il tema dell’esistenza di un vero e proprio “platonismo” in Debord, concludendo che il filosofo situazionista non esalta tanto «un “autentico” in senso assoluto», ma sostiene piuttosto la necessità di schierarsi a favore sia di quello «sviluppo organico dei bisogni sociali» caduto sotto i colpi di un’economia separata dal soggetto, sia di quella “potenza indipendente” che lo spettacolo è ormai divenuto. Per Debord e i situazionisti non si tratta, allora, di definire la rotta di una società ontologicamente autentica e vera, ma di «determinare “ontologicamente” la falsità o inautenticità della società della merce»; si tratta di gettare luce sul dominio di quella potenza di astrazione spettrale del valore che oggettiva i soggetti rivelandosi sovrana sui bisogni sociali. Lo scopo di Debord – scrive Jappe – è togliere «quelle oggettivazioni che si oppongono in modo assoluto all’individuo»; non tanto per giungere ad una società finalmente vera e priva di conflitti, quanto per realizzarne una in cui gli individui possano determinare la scelta dei modi di produzione della loro stessa vita, dedicandosi «gioiosamente alle vere divisioni e alle rivalità senza fine della vita storica» – scriverà Debord nel 1979. La dérive, il détournement, l’Urbanesimo unitario, la forma organizzativa consiliare – in momenti, forme e tempi diversi nel pensiero di Debord – non sono strumenti utili a dar forma ad un mondo in cuiritrovarsi; servono piuttosto a crearne uno nuovo “che invoglia a perdersi”, nel quale divenire autonomi produttori di se stessi e liberi costruttori della propria vita quotidiana.
Ritorna qui, evidentemente, quel «desiderio di forgiarsi una vita appassionante» maturato nell’ambito delle avanguardie artistiche del primo ‘900. Un desiderio che nel pensiero di Debord gioca un ruolo fondamentale e che precede ogni interesse per il marxismo; un desiderio che permetterà al filosofo di detournare il marxismo stesso, liberandosi tanto dai suoi aspetti economicistici e lavoristi quanto dalla falsa opposizione tra struttura e sovrastruttura. Ibridando la lezione del Marx meno caduco con quella di Marcel Mauss e di George Bataille, Debord avrebbe mostrato come – pur restando a tutti gli effetti “un momento dello sviluppo della produzione della merce” – lo spettacolo e le sue fantasmagorie ridefinivano in modo decisivo quel dispositivo dello scambio e del principio di equivalenza per cui nella società contemporanea il lavoro viene sempre concepito come una unità scambiabile con denaro ed oggettivata in merci; e mediante il quale il valore diventa un vero e proprio “fatto sociale totale”. Per Debord solo il salto verso un modo di produzione immediatamente socializzato, già virtualmente possibile, avrebbe potuto farla finita con il pilota automatico del valore e del suo spettacolo. Ma già nei Commentari tutto ciò gli doveva apparire tremendamente difficile.
Debord aveva infatti ben compreso la composizione organica di quello che Luc Boltanski ed Eve Chiapello avrebbero successivamente definito “il nuovo spirito del capitalismo”. Questo era sorto mettendo al lavoro nel calderone della “mercificazione totale del mondo” gran parte delle pratiche di libertà e creatività che nel precedente ordine fordista e keynesiano avevano giocato un ruolo antagonista. Per Debord – scrive Jappe – “l’abbandono alle pulsioni inconsce, il disprezzo della logica, le sorprese inaspettate e le combinazioni arbitrarie e fantastiche” erano state recuperate e avevano prodotto esiti ben diversi da quelli che si aspettavano i surrealisti o i dadaisti. Il filosofo dei Commentari comprendeva che nell’affermazione vittoriosa dello spettacolo diventava progressivamente inefficace combattere contro l’etica del lavoro e dei sacrifici in nome di quella soddisfazione immediata dei bisogni e dei desideri che stava ergendosi a tonalità emotiva dominante dell’ultimo capitalismo. Debord era perfettamente consapevole del «gigantesco détournement che è stato applicato a tutte le tendenze rivoluzionarie del secolo». Come del resto Breton, egli capì presto che la dissoluzione delle forme artistiche non aveva generato nuove potenzialità emancipatorie, ma aveva finito per accompagnare l’incedere progressivo dello “spettacolare integrato” e il “trionfo della monade astratta del denaro”.

Conclusione
Come si è detto, nella sua anima e nelle sue forme la società del capitale è ancora oggi una società dello spettacolo: il nuovo spettacolo del debito e della colpa rappresentano un’inedita scena per la rivoluzione dall’alto, quella con cui il kratos finanziario saccheggia ciò che resta della ricchezza comune del demos. Al contempo, nonostante la crisi, la merce e il valore continuano a imporre la propria forza di feticcio alle vite dei più, avvolgendole ancora con la loro fantasmagoria Non accettiamo dunque inviti a “dimenticare Debord”. Tantomeno a “bruciare Debord”. 
Al contrario, oggi ci serve moltissimo proprio quel Debord che, come mostra Jappe nel finale del suo libro, resta interno a una linea di pensiero che  – da Kant a Freud, da Marx ai francofortesi (fino a Foucault, aggiungerei) – ha sempre promosso un’importante “autocritica dell’illuminismo”. Dove per illuminismo si intende, con Adorno ed Horkheimer, quel “pensiero in continuo progresso [che] ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni”. Debord ha cercato di decifrare e di contrastare il dispositivo di assoggettamento spettacolare in cui ha scorto correttamente l’erede di quella religione che gli illuministi avevano scelto come il loro obiettivo polemico privilegiato. Così Debord ha continuato a suo modo la Dialettica dell’illuminismo, leggendo lo spettacolo non certo come una parentesi nella storia della ragione moderna, bensì come l’esito conseguente della razionalizzazione capitalista. O, se si vuole, come il punto di approdo di un “illuminismo irriflesso”, di una ragione autonomizzata che ha partorito i nuovi miti nei quali l’umanità – ancora confinata nel kantiano “stato di minorità” – è costretta a contemplare le proprie forze, separate da un progetto globale cosciente che possa condurla a riappropriarsi di una vita che le sfugge. 
Ripensando il concetto di “situazione” – e riprendendo una traccia non sempre centrale nell’importante libro di Jappe – occorre tornare a chiedersi, con Debord e oltre Debord, se sia ancora possibile attivare contro-spettacolo per un’altra democrazia. È possibile, cioè, costruire “situazioni” e potenza dal basso contro la nostra rivoluzione dall’alto? Posiamo produrre rendita sociale contro la rendita finanziaria e la tirannia del valore? Quali sono le modalità più efficaci per riappropriarsi della potenza di agire politicamente sequestrata dallo spettacolo e da una rappresentanza ormai in agonia? Pensando al globo, possiamo costruire concatenamenti internazionalisti e socialità desiderante, a partire da una scala almeno europea, contro lo spettacolo passivizzante ed austero prodotto dall’anti-Europa della Trojka e del capitale? Domande per i movimenti sociali contemporanei, potenzialmente forti ma oggi incapaci di creare le necessarie, durevoli forme organizzative. Dunque deboli, perché poco creativi e privi delle necessarie istituzioni del comune. Restituendo Debord alla cassetta degli attrezzi utili a tracciare linee di fuga dentro contro l’ultimo spettacolo, il libro di Jappe aiuta a porsi di nuovo quelle domande. E per il verso giusto.

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