lunedì 25 marzo 2013

Il papa, Grillo e la decrescita

di Gianluca Carmosino

se si riduce la durata del tempo quotidiano che si spende nella produzione di beni aumenta il tempo disponibile da dedicare alle relazioni, alle attività creative e alla conoscenza, all’autoproduzione di beni e allo scambio di servizi, all’arte o alla lotta, insomma alla vita

Proviamo per un momento a mettere da parte le gravi accuse di diversi testimoni e le prove raccolte da Horacio Verbitsky sul ruolo o sui silenzi di Jorge Mario Bergoglio nella dittatura argentina. E mettiamo da parte anche la militanza del giovane Bergoglio in un gruppo della destra o le sue idee circa i diritti degli omosessuali. Di certo, le prime scelte del nuovo papa, a cominciare dal nome, hanno stupito e convinto molti e tanto è stato scritto. Con curiosità abbiamo letto sul sito dei nostri compagni di strada di Dinamopress un articolo di Francesco Raparelli («La potenza della povertà»), che tra l’altro scrive: «L’ispirazione francescana va di gran moda e tanto la Chiesa quanto il M5S, con il mantra della “decrescita felice” e la decurtazione degli stipendi parlamentari, hanno deciso di farsene interpreti… Produrre poveri – attraverso la leva del debito pubblico, la dismissione e privatizzazione del Welfare State, la deregolamentazione del mercato del lavoro… – è il passaggio necessario per definire su nuove basi il rapporto capitalistico di sfruttamento. La moralità pubblica e le ideologie della decrescita sono il puntello politico-culturale di questa violenta operazione». La condivisione dei beni e la vita collettiva di Francesco d’Assisi, spiega poi giustamente Raparelli, sono prima di tutto una forma di resistenza al diritto di proprietà e all’«individualismo possessivo», resistenza che mette in discussione una certa idea di società. Del resto su Francesco hanno ragionato e scritto da sempre in tanti, non solo tra i credenti. Per Toni Negri è l’esempio migliore del militante puro e convinto, come se la ribellione al capitalismo fosse una questione che riguardasse solo o soprattutto i «militanti», in contrapposizione all’idea zapatista, decisamente più interessante, per cui siamo persone comuni e pertanto ribelli. Ma torniamo al ragionamento di Raparelli che merita un approfondimento e una critica.
Molti quando richiamano quello che è uno dei padri della nonviolenza sottovalutano la principale novità della sua vita, ma sarebbe più giusto dire della vita un gruppo di uomini e di donne (a cominciare da Chiara). Come accaduto per altri, l’agiografia del «poverello di Assisi» è stata abbellita, romanticizzata (l’uomo che parlava al lupo e a fratello sole, l’uomo sempre dolce e pacifico) e trasformata dai libri di storia. L’obiettivo era evitare di affrontare la profonda provocazione che porta in sé. Questa riscrittura ha avuto successo: oggi dimentichiamo che «la sua vita – scrive Ernesto Balducci in «Gli ultimi tempi» (Borla) – è stata in realtà un fallimento». Balducci alludeva alle chiese e alla basilica alle quali i francescani hanno dato subito molto importanza ma anche alla timidezza con la quale era stata accolta la scelta di Francesco, quando con la sua irrequietezza tentava di dissuadere i cristiani dall’andare in guerra contro i musulmani. Il moderno business religioso gestito dai francescani ad Assisi, le mercificazione della natura e degli animali o il pacifismo di facciata di molti credenti sembrano confermare ancora oggi la tesi di Balducci.

Non volle farsi prete
In ogni caso, Francesco, figlio di un mercante della borghesia emergente, lasciò tutto e cominciò a vivere in modo diverso, trasformando insieme ad altri le proprie attività quotidiane, ma prima di tutto non volle farsi prete. Eccola la novità, la rottura più importante e sorprendente. Per quale motivo? Perché farsi prete allora (anche oggi?) voleva dire entrare nella casta dei potenti. Papa Innocenzo III, preoccupato per la fratellanza/sororità radicale che emergeva dalle pratiche di quel gruppo di persone che di fatto svuotava di senso la cultura dominante nella Chiesa e nella società, accettò la nascita dell’ordine francescano.
Cosa altro è il presepe, realizzato per la prima volta nella storia dai francescani a Greccio (non con pupazzi da vendere a Natale ma con persone, una sorta di teatro di strada che rompe gli immaginari), se non il simbolo del capovolgimento della storia, del rifiuto del potere? Mostrare un bambino che nasce in una stalla fuori città da una ragazza emarginata, è la storia a quota zero, è l’antistoria che fiorisce dentro e contro le relazioni di dominio. Ieri e oggi, a Betlemme come in molti altri luoghi dell’Impero. Il mondo, dice Francesco, si può cambiare soltanto dal basso, con i senza potere, non ci sono scorciatoie neanche per la Chiesa. E fin quando ci saranno relazioni tra Chiesa e poteri forti, per quanto il pastore della Chiesa possa vivere e proporre la povertà e la condivisione (di fatto alternative al diritto di proprietà), «papa francescano» resta un ossimoro.

Tra socialismo e tradizione anarchica
Tuttavia, e qui veniamo alla critica, ciò che non convince dell’articolo di Raparelli è legare la povertà con la decrescita e questa con l’austerity o la decurtazione degli stipendi parlamentari. Che ci siano idee diverse sulla decrescita è noto, almeno per chi ha approfondito questi temi, ma è anche noto che la gran parte dei gruppi e delle reti che sperimentano le diverse declinazioni della decrescita o chi scrive su questi argomenti ha cominciato a parlare di decrescita come passaggio successivo della critica dello sviluppo, cioè del capitalismo.
Secondo Serge Latouche il progetto della società della decrescita ha cominciato a essere formulato negli anni ’70 (anche se il termine è stato introdotto solo di recente all’interno del dibattito economico, politico e sociale), da teorici come André Gorz, Ivan Illich, Cornelius Castoriadis. Ma «le sue radici – ricorda Latouche – si perdono nel primo socialismo e nella tradizione anarchica rinnovata dal situazionismo». Oggi, aggiunge l’autore di «La scommessa della decrescita» (Fetrinelli) e di «L’invenzione dell’economia» (Bollati Boringhieri), la fioritura di iniziative «decrescenti» e solidali, aiuta «a rimettere in discussione il dominio dell’economia sul resto della vita, ma soprattutto nelle nostre teste. Ciò deve comportare un’aufhebung (rinuncia, abolizione e superamento) della proprietà privata dei mezzi di produzione e dell’accumulazione illimitata di capitale, ma anche a un abbandono dello sviluppo e dei suoi miti fondatori. Questa trasformazione non passa per delle nazionalizzazioni né per una pianificazione centralizzata, ma per azioni, magari contraddittorie, quanto “decrescenti” e solidali».
Non siamo legati alle etichette, ma certo bisogna riconoscere che decrescita è stato finora, non è detto che sia così in futuro, uno slogan di rottura importante che quanto meno costringe a pensare. La decrescita non è solo una critica al primato della crescita né una riduzione quantitativa del Pil, ma nemmeno la riduzione volontaria dei consumi per ragioni etiche, perché la rinuncia implica una valutazione positiva di ciò che si rinuncia. La decrescita cerca di seguire invece il rifiuto di ciò che non serve, ad esempio, il rifiuto di merci che non soddisfano bisogni o possono essere sostituiti con beni autoprodotte oppure scambiate, gratuitamente o tramite un mercato regolamentato. È un elemento che contribuisce prima di tutto a una diversa concezione del mondo, non solo in una prospettiva ecologica (la risorse della terra sono limitate), ma in un fare sociale nel quale si instaurano relazioni che privilegiano la cooperazione sulla competizione e in cui gli affetti contano più del possesso delle cose e del denaro. Non è certo un’ideologia né tanto meno una meta, ma semmai una strada.

Il tempo
Se si riduce la durata del tempo quotidiano che si spende nella produzione di beni (davvero l’aumento dei posti di lavoro tradizionali è un obiettivo auspicabile?), ad esempio, aumenta il tempo disponibile da dedicare alle relazioni, alle attività creative e alla conoscenza, all’autoproduzione di beni e allo scambio di servizi, all’arte o alla lotta, insomma alla vita. In quel caso il Pil forse si riduce ma il benessere, la vita come creazione, trasformazione, relazione, piacere di sicuro aumenta. In questo senso la decrescita si muove in un orizzonte opposto alla società della crescita della produzione e del consumo di merci, in cui la vita delle persone è subordinata a quei fini.
Per questi motivi alcuni sostengono che il concetto a cui allude la decrescita non ha tanto bisogno di buoni amministratori che dall’altro impongono o favoriscono certe scelte, ma ha bisogno di gruppi di cittadini che si autorganizzano per scambiare beni (e non merci) e servizi, gruppi che costruiscono relazioni diverse, gruppi che non hanno un’alternativa pronta e impeccabile ma sono disposti a sperimentare. Molti hanno già cominciato. In fondo la decrescita è un progetto sociale e non politico. E il cambiamento profondo, da Francesco agli obiettori della crescita, con buona pace anche del M5S, non passa per la conquista di alcun potere.