giovedì 28 febbraio 2013

newsletter settimanale n.8

RASSEGNA POSTELETTORALE
a cura della Redazione



di Franco Beradi Bifo

Le elezioni italiane sono una risposta che può evolversi in maniera positiva o in maniera catastrofica. Dipende dai progressisti, gli intellettuali e gli autonomi del continente, dipende da noi… Fuori dagli schemi novecenteschi può diffondersi dovunque un movimento di insolvenza organizzata e di autonomia produttiva



di Gigi Roggero

Dobbiamo fare delle premesse, mettere in guardia dai pericoli, smarrirci nelle precisazioni? Se sì mettiamo avanti le cautele, diciamo che Grillo è una figura inquietante, rassicuriamo che noi siamo tutt’altra cosa, dettagliamo i rischi dell’attuale scenario, specifichiamo che non siamo fautori di un caos fine a se stesso, giuriamo di non credere al tanto peggio tanto meglio, eccetera eccetera eccetera. Per una volta invece vogliamo saltare questa liturgia e prestare il fianco agli equivoci, perché è il contesto della crisi a essere costitutivamente equivoco


di Sergio Cararo

Lo spettro dell'ingovernabilità è come quello dello spread: una minaccia per cuori semplici. Il Belgio è stato senza governo per 535 giorni. Ma le scelte peggiori imposte dall'Unione Europea le ha fatte tutte


di Claudio Gnesutta

Il voto consegna uno scenario mutato e una governabilità difficile. Eppure una svolta è necessaria, in uno scenario profondamente mutato. Ma che ancor più di prima chiede all'Italia terapie d'urgenza per cambiare rotta, e all'Europa di creare spazio per un intervento anticongiunturale non effimero. Solo allentando i vincoli dell'austerità l'Ue può aiutare l'Italia e se stessa


di Lanfranco Caminiti

Intanto, un referendum sull’euro e l’Europa: una maggioranza politica, in percentuale dei votanti — tra Berlusconi, Tremonti, Maroni, e il 5 stelle — e aggiungendo l’astensione che certo non può essere calcolata come appartenesse al senso di responsabilità verso l’Europa e i mercati, già c’è e è contro l’euro



L’anti-Europa è sconfitta

di Franco Beradi Bifo

Le elezioni italiane sono una risposta che può evolversi in maniera positiva o in maniera catastrofica. Dipende dai progressisti, gli intellettuali e gli autonomi del continente, dipende da noi… Fuori dagli schemi novecenteschi può diffondersi dovunque un movimento di insolvenza organizzata e di autonomia produttiva

L’Unione Europea nacque come progetto di pace e di solidarietà sociale raccogliendo l’eredità della cultura socialista e internazionalista che si oppose al fascismo.
Negli anni ’90 le grandi centrali del capitalismo finanziario hanno deciso di distruggere il modello europeo, e dalla firma del Trattato di Maastricht in poi hanno scatenato un’aggressione neoliberista. Negli ultimi tre anni l’anti-Europa della BCE e della Deutsche Bank ha preso l’occasione della crisi finanziaria americana del 2008 per trasformare la diversità culturale interna al continente europeo (le culture protestanti gotiche e comunitarie, le culture cattoliche barocche e individualiste, le culture ortodosse spiritualiste e iconoclaste) in un fattore di disgregazione politica dell’unione europea, e soprattutto per piegare la resistenza del lavoro alla definitiva sottomissione al globalismo capitalista.
Riduzione drastica del salario, eliminazione del limite delle otto ore di lavoro quotidiano, precarizzazione del lavoro giovanile e rinvio della pensione per gli anziani, privatizzazione dei servizi. La popolazione europea deve pagare il debito accumulato dal sistema finanziario perché il debito funziona come un’arma puntata alla tempia dei lavoratori.
Cosa accadrà? Due cose possono accadere: o il movimento del lavoro riesce a fermare questa offensiva e riesce a mettere in moto un processo di ricostruzione sociale dell’Unione europea, o il prossimo decennio vedrà in molti luoghi d’Europa esplodere la guerra civile, il fascismo crescerà dovunque, e il lavoro sarà sottomesso a condizioni di sfruttamento ottocentesco. Ma come fermare l’offensiva? Le elezioni italiane sono una risposta che può evolversi in maniera positiva o in maniera catastrofica. Dipende dai progressisti, gli intellettuali e gli autonomi del continente, dipende da noi.

Viva l’ingovernabilità: una nota leggera

di Gigi Roggero

Dobbiamo fare delle premesse, mettere in guardia dai pericoli, smarrirci nelle precisazioni? Se sì mettiamo avanti le cautele, diciamo che Grillo è una figura inquietante, rassicuriamo che noi siamo tutt’altra cosa, dettagliamo i rischi dell’attuale scenario, specifichiamo che non siamo fautori di un caos fine a se stesso, giuriamo di non credere al tanto peggio tanto meglio, eccetera eccetera eccetera. Per una volta invece vogliamo saltare questa liturgia e prestare il fianco agli equivoci, perché è il contesto della crisi a essere costitutivamente equivoco

Innanzitutto, quindi, vogliamo dare una tonalità emotiva ai risultati elettorali: evviva! Perché del resto dovremmo condividere un senso di sconfitta con chi è stato alternativamente un nostro avversario o un nostro nemico? Diciamolo in modo secco: da questo voto per loro devastante escono sconfitti l’agenda dell’austerity temporaneamente targata Monti e chi più si era presentato come il suo continuatore, il Partito Democratico e la sua appendicina di sinistra, Sel. Se poi guardiamo più da vicino le grottesche disfatte di Vendola e Ingroia (a proposito: dove sono finiti i fabbrichisti di Nichi e gli arancioni anti-corruzione e filo-costituzione?), dovremmo attenderci le dimissioni della magistratura e magari di una parte consistente del ceto politico di movimento. Aggiungiamo che, tra i molti sconfitti, vi è il sistema dei media, da Santoro al Partito di Repubblica. A quando una critica radicale di stampa e televisione agito autonomamente dai movimenti? Ecco un punto di programma per noi tutti.
Questo risultato di ingovernabilità è stato, in secondo luogo, determinato dall’astensionismo e soprattutto dal M5s. Ci piaccia o no, questo è un dato di fatto. E poi, perché viene condannato un uso giustamente pragmatico del voto da parte delle lotte (vedi il No Tav) o addirittura per nominare le ambivalenze del M5s sono necessarie mille precauzioni che eliminino il dubbio di un endorsement in suo favore, di fronte a chi per dieci anni ha tentato – peraltro in modo fallimentare – di allearsi con questa sinistra disgraziata e avversa ai movimenti? Oggi tutti costoro stanno piangendo sulla sconfitta, la cui colpa non è loro bensì dell’ostinazione dei movimenti a non farsi rappresentare e dei fanatici della rivolta (do you remember 15 ottobre?). Lasciamoli soli nel rancore della disperazione.

In Italia è “Sindrome di Bruxelles”?

di  Sergio Cararo

Lo spettro dell'ingovernabilità è come quello dello spread: una minaccia per cuori semplici. Il Belgio è stato senza governo per 535 giorni. Ma le scelte peggiori imposte dall'Unione Europea le ha fatte tutte
 
L'ipotesi della ingovernabilità politica spaventa dell'Italia può non essere la fine del mondo evocata da tanti. C'é infatti un precedente – e proprio nel cuore dell' Unione Europea - che dimostra come i meccanismi decisionali e gli automatismi di governo degli apparati europei possano gestire i singoli stati membri anche in assenza del loro governo nazionale. Dopo le elezioni del giugno 2010 il Belgio è stato senza un governo per ben per 535 giorni perché non i partiti non riuscivano a formare una maggioranza, si è trattato di un record.
Sotto un governo senza maggioranza, rimasto in carica per gli affari correnti, il Belgio ha approvato la legge finanziaria, ha nazionalizzato la Dexia (la principale banca del paese che stava fallendo) ha guidato il semestre di presidenza della Unione Europea ed ha addirittura partecipato alle operazioni militari in Libia. Il Belgio ha un debito pubblico elevato quasi come quello italiano. Non solo. In Belgio agiscono forze secessioniste che mettono sotto tiro la distribuzione della ricchezza e la conseguente riforma fiscale. I secessionisti fiamminghi vogliono un sistema di tasse che premi soprattutto l’economia del nord del Paese, più ricca e produttiva, rispetto alla Vallonia che oggi  che fino agli Anni ’60, all'epoca delle miniere e dello sviluppo agricolo, era il vero motore della nazione ma che oggi è più debole economicamente pur ospitando le istituzioni nazionali ed europee. I più critici evocano per il Belgio una secessione simile a quella, indolore, che ha diviso la Repubblica Cecoslovacca in Repubblica Ceca e Slovacchia. Ma in tutti i sondaggi i belgi pensano che con una secessione ci sarebbe più da perdere che da guadagnare.

Per chi suona l'emergenza

di Claudio Gnesutta

Il voto consegna uno scenario mutato e una governabilità difficile. Eppure una svolta è necessaria, in uno scenario profondamente mutato. Ma che ancor più di prima chiede all'Italia terapie d'urgenza per cambiare rotta, e all'Europa di creare spazio per un intervento anticongiunturale non effimero. Solo allentando i vincoli dell'austerità l'Ue può aiutare l'Italia e se stessa

Lo scenario post elettorale è profondamente diverso da quello immaginato solo qualche giorno fa. Nella proposta su “La rotta d’Italia” e nei tanti interventi che ne sono seguiti, l’ipotesi delineata era quella di una politica economica e sociale di medio periodo, in grado di dare una prospettiva socialmente sostenibile al nostro apparato produttivo attraverso interventi a difesa dei livelli occupazionali, a sostegno di un new deal verde, per affrontare le necessarie trasformazioni infrastrutturali (burocrazia, corruzione, criminalità, ricerca e istruzione). In un contesto economico rimasto immutato nei suoi dati strutturali – grave recessione, appesantita dalle condizioni europee di austerità -, semmai aggravato dalle tensioni sui mercati finanziari di cui tra breve diremo, lo scenario si è modificato a livello politico: in un quadro di maggiore incertezza programmatica, si allungano inevitabilmente i tempi per l’avvio di una politica alternativa, ritenuta possibile fino a qualche giorno fa.
Nello scenario precedente, risultava evidente che per superare i vincoli a una politica alternativa era richiesta una forte presenza a livello europeo su almeno due ambiti: 1) arginare e contrastare le pressioni destabilizzanti della finanza, con la costruzione di nuovi strumenti istituzionali e il rafforzamento delle istituzioni e delle politiche introdotte faticosamente nell’ultimo anno per mettere le finanze pubbliche e le banche al riparo da possibili futuri shock esterni; 2) lavorare a una svolta consensuale nelle politiche europee, con l’obiettivo di allentare la stretta recessiva che le politiche di austerità stanno esercitando sull’intera economia europea. Dopo quel che è successo in Italia col voto del 24 e 25 febbraio, questo rapporto con l’Europa risulta ancor più determinante; nel nuovo scenario, infatti, l’incertezza politica facilmente e rapidamente si può tradurre in ancor maggiore incertezza di una prospettiva economica stabile con un aggravio delle condizioni finanziarie pubbliche e private che, se non contenute, possono rendere ancor più onerose le future politiche di risanamento economico e di sostenibilità sociale. È più urgente ed essenziale che prima, dunque, riproporre ai partner europei interventi in grado di stabilizzare le condizioni finanziarie e di creare spazio per un intervento anticongiunturale non effimero.
Un confronto tutt’altro che facile, se si tiene conto che si tratta di una richiesta che va finalizzata a una politica economica interna su linee profondamente diverse da quella di una cieca austerità che ha caratterizzato la politica economica di quest’ultimo anno e sponsorizzata dalla dirigenza europea. Austerità che però, come hanno riconosciuto diversi osservatori internazionali (si veda l'analisi di Krugman, Austerity, italian style, in realtà antecedente al voto; l'editoriale di The Guardian, Italian election: austerity challenged, e I'analisi dell'Independent, Italy shows how the tide has turned against elites), è stata severamente bocciata dalle urne italiane. E’ chiaro che un’inversione completa di rotta, con una politica che ponga obiettivi di rilancio produttivo, e quindi occupazionale, che sia compatibile con l’equilibrio sociale, richiede tempi lunghi, di un’intera legislatura – ottica poco proponibile in un quadro come quello attuale. Così, non è in un momento di grande incertezza sulla durata di questa legislatura che appaia plausibile formulare un credibile programma dei necessari interventi sull’offerta, sulle condizioni infrastrutturali, e su quelle di contorno di formazione delle capacità tecniche e professionali che permettano un consolidamento e rilancio dell’attività produttiva necessari a migliorare la competitività in un contesto compatibile con la sostenibilità ambientale (green economy, risparmio energetico ecc). Tuttavia, una tale prospettiva va testardamente prospettata e comunque avviata con segnali significativi di un’attenzione concreta per il miglioramento del lavoro precario e per un più adeguato sostegno di coloro che hanno perso la propria fonte di reddito. Un segnale che testimoni che sia possibile un rovesciamento degli obiettivi di politica economica che evidenzi come, in antitesi con l’accento centrato, anche in campagna elettorale, sulla questione delle tasse, sia possibile perseguire un obiettivo centrato sul lavoro e sul sostegno dei redditi minori. E la questione del fisco va subordinata a questi obiettivi.

Finiremo come il Belgio senza governo per 540 giorni? Non è poi così male

di Lanfranco Caminiti

Intanto, un referendum sull’euro e l’Europa: una maggioranza politica, in percentuale dei votanti — tra Berlusconi, Tremonti, Maroni, e il 5 stelle — e aggiungendo l’astensione che certo non può essere calcolata come appartenesse al senso di responsabilità verso l’Europa e i mercati, già c’è e è contro l’euro

Prima del voto, avevo scritto così: «Bersani ha conquistato il partito, che sarà il primo per numero di voti, ma non avrà una maggioranza tra Camera e Senato autosufficiente per governare; Berlusconi non vincerà ma proverà a far pesare tutto quanto rastrellerà per uno sgoverno o un suo ruolo; Grillo prenderà una buona fetta di elettorato; Monti se vuole avere un ruolo lo potrà avere solo subalterno al Pd, o sperare nella immoral suasion dell’Europa di Bruxelles. Qui stiamo. Non tutto è definito, ma i risultati saranno questi». Carta canta, si può confrontare qui: http://lanfrancocaminiti.wordpress.com/2013/02/23/il-mio-endorsement-per-il-voto/
Non ho azzeccato per nulla le percentuali, in un gioco tra amici, ma la lettura del quadro politico invece sì, in pieno. E per sovramercato, potete anche leggere quanto scrissi nel settembre 2012, sei mesi fa, prima delle primarie di Renzi, di Monti in campo, della rivoluzione civile di Ingroia, in un pezzullo dal titolo: Dopo il voto si voterà di nuovo, proprio qui: http://www.glialtrionline.it/2012/09/04/dopo-il-voto-si-votera-di-nuovo-come-in-grecia-ecco-i-risultati-di-un-nostro-sondaggio/
Anche perché il “peso” della protesta e della richiesta raccolta da Grillo somiglia tanto a quella raccolta da Syriza.
Non è per fare lo sborone — diciamo che ho avuto culo —, anzi qui voglio dire proprio il contrario: non ho la più pallida idea di quel che potrà accadere e non sono né tra quelli che si strappano i capelli perché saremo sbranati dai mercati né tra quelli che giudicano la situazione eccellente perché grande è il disordine sotto il cielo [anche se trovo estremamente reazionario questo criterio della ingovernabilità, come se fosse colpa degli elettori, rammentando Mussolini: «Governare gli italiani non è impossibile, è inutile»]. Credo che sarebbe legittimo che Bersani provi a fare un governo, forte dei numeri alla Camera, per una legge mostruosa ma tant’è, e si cerchi i voti in Senato, trattando di volta in volta provvedimenti e testi e soluzioni. Una cosa che potrebbe anche essere normale, se si puntasse peraltro a provvedimenti chiari e netti e comprensibili, e si imputasse chiaramente quali interessi e ostilità li bloccano: per dire, un modo con cui Obama ha battagliato in Congresso contro i repubblicani, a esempio sul Medicare e sulla liquidità monetaria da immettere, andandoci poi a vincere clamorosamente le elezioni. Credo pure che sia difficile che questo accada, si tenderà al ribasso e al compromesso antistorico, e che il quadro più probabile sia un periodo di stallo — complice il semestre bianco —, con una semiparalisi generalizzata, finché forse una qualche maggioranza salterà fuori senza che si debba obbligatoriamente passare per nuove elezioni. Insomma, quel che è successo in Belgio — dove la divisione territoriale era fortissima, e al momento in cui scrivo non si sa se l’ipotesi della macroregione padana abbia una qualche credibilità, il che complicherebbe il quadro —, dove alla fine non se la sono cavata poi così male.
Il punto politico però è un altro, e di questo vorrei parlare: una maggioranza politica, in percentuale dei votanti — tra Berlusconi, Tremonti, Maroni, e il 5 stelle — e aggiungendo l’astensione che certo non può essere calcolata come appartenesse al senso di responsabilità verso l’Europa e i mercati, già c’è e è contro l’euro. Questo è il dato politico più importante di queste elezioni, non le promesse fasulle o gli scandali o il rancore sociale contro il sistema dei partiti — questa lettura, che è pure reale, sta ancora dentro il politicismo.
Il dato sociale dietro il voto è il malessere, le aziende che chiudono, la disoccupazione che sale, i giovani e le donne che non entrano nel mercato del lavoro, i consumi che si assottigliano, i risparmi che si erodono, l’incertezza paurosa non del domani, ma di quello che succede oggi pomeriggio, stasera, quando si fanno i conti per vedere cosa è prioritario pagare domattina, quale scadenza, quale mutuo, quale bolletta, e posticipare l’asilo, la palestra, il parrucchiere, quel mobile o quel vestito con lo sconto.
E però, comunque la si voglia mettere, questo voto non è stato dettato dalla paura, ma dalla speranza, cosa che a me sembra un elemento straordinario di maturità e di tenuta democratica del popolo italiano. Da una richiesta di ricette, di iniziative, per risollevarsi dalla crisi. Forse lo si capisce di più specularmente, perché l’altro dato politico rilevante è la sconfitta di Monti, nonostante i Montezemolo, gli Scalfari, i peluche per il nipote e il cagnolino della Bignardi: dicono, quelli del partito di Repubblica, che è normale che ce la si prenda col medico che ha dato una ricetta tosta per salvarsi dalla malattia, ma la realtà è che Monti si è rivelato un veterinario a cui ci si è rivolti per salvare le nostre vacche dalla moria ma con la sua cura ci ritroviamo con più vacche morte, e quelle che si sono salvate appartengono agli allevamenti più ricchi, e questo non è certo apprezzato da chi si ritrova sul lastrico o indice di scienza tecnica, tanto valeva lasciare fare alla natura, che è più equa. Punto, anzi punto e virgola.

venerdì 22 febbraio 2013

newsletter n.7 - rassegna settimanale

SELEZIONE
a cura della Redazione





di Andrea Fumagalli

«Il processo di finanziarizzazione ha sì consentito una poderosa “accumulazione originaria”, ma non è stato in grado di tradursi in valorizzazione diretta e reale. È questa la contraddizione centrale che sta alla base della crisi attuale»




di Girolamo De Michele

Questo volume (Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, a cura di Sandro Chignola), che raccoglie parte dei materiali prodotti in occasione di una giornata di studi nel marzo 2011, ha la sua ragion d'essere in almeno due temi: la crisi del diritto e della sovranità, e la pratica necessità di processi costituenti messi all'opera dai movimenti globali



di Giorgio Mascitelli

«oggi in Italia – il discorso sulla meritocrazia- è rivolto particolarmente alla scuola perché oltre alla sua funzione ideologica esso ha molto più prosaicamente una funzione pratica di giustificazione dell’abbassamento degli stipendi degli insegnanti o del loro licenziamento»




di Lia Fubini

La rotta d’Italia. La caduta dei salari aggrava la recessione e produce povertà. È il momento di introdurre un salario minimo per legge e correggere le leggi su lavoro e sindacato. E di sostenere le imprese che vogliono investire




Lo stato di crisi permanente

di Andrea Fumagalli

«Il processo di finanziarizzazione ha sì consentito una poderosa “accumulazione originaria”, ma non è stato in grado di tradursi in valorizzazione diretta e reale. È questa la contraddizione centrale che sta alla base della crisi attuale»
 
Se Atene piange, Sparta non ride. I paesi europei dell’area mediterranea hanno già versato lacrime amare. Nel 2012 l’imposizione forzosa (o meglio, golpista, nel caso dell’Italia) di politiche di austerity ha prodotto un impoverimento che non ha precedenti nella storia dal dopoguerra a oggi. Ma neanche Sparta, ovvero la Germania, se la passa bene. Ciò che sta avvenendo è l’avvio di un circolo vizioso in cui anche i paesi economicamente più forti rischiano di essere avviluppati in una spirale recessiva che continuamente si autoalimenta. Dopo aver resistito per due anni alla crisi del debito europeo, traendo vantaggio dall’indebolimento dell’euro che ha permesso esportazioni più competitive al di fuori dell’eurozona, anche la Germania ora inizia a mostrare i primi segni di una possibile crisi. Il governo tedesco ha infatti rivisto al ribasso le stime di crescita previste per il 2012 e 2013, avvicinandosi a livelli di stagnazione, e per la prima volta le vendite al dettaglio sono crollate.
Con il 2013 entriamo nel sesto anno di crisi. Neanche la grande crisi del 1929-30 era durata così a lungo. A partire dal 1933 (dopo quattro anni) l’economia Usa aveva ricominciato a risalire la china. All’epoca l’uscita dalla crisi era stata favorita dalla definizione di una nuova governance sociale e politica che prendeva atto, seppure parzialmente e spesso in modo contraddittorio, dei nuovi meccanismi di accumulazione e valorizzazione che l’avvento del paradigma taylorista aveva prodotto.
Oggi non si intravede nulla di tutto ciò. È ormai assodato che la governance capitalistica imposta dai mercati finanziari si è rivelata fallace, seppure dopo aver ottenuto potenti risultati nel plasmare e definire le nuove modalità di valorizzazione e le nuove forme di comando e gerarchia attuali. Tale governance si basava sulle nuove funzioni economiche assunte dai mercati finanziari, con il passaggio da un’economia monetaria di produzione (quella del paradigma taylorista-fordista) a un’economia finanziaria di produzione (quella del biocapitalismo cognitivo): ridefinizione continua dell’unità di misura del valore (una volta venuta meno la parità aurea con il crollo di Bretton Woods) e quindi finanziamento dell’attività privata d’investimento; assicuratore sociale della vita come esito della finanziarizzazione, e conseguente privatizzazione, dei sistemi di welfare; strumento di crescita dell’economia e regolatore della distribuzione del reddito grazie ai processi di espropriazione della cooperazione sociale e al suo indebitamento, e moltiplicatore finanziario della domanda finale.
Condizione perché tale governance potesse garantire stabilità era una continua, illimitata espansione degli stessi mercati finanziari, in grado di produrre (plus)valore in misura costantemente superiore agli effetti distorsivi e negativi sulla domanda causati dalla crescente concentrazione dei redditi e dall’espropriazione della ricchezza sociale prodotta dal «comune». Poiché questa condizione non può persistere illimitatamente, l’instabilità strutturale che ne deriva può essere politicamente e socialmente governata solo facendo ricorso a shock esogeni, dettati dall’emergenza di turno. In altre parole, la governance era data dall’emergenza. Negli anni Duemila l’emergenza era la guerra al terrorismo. Oggi l’emergenza è data dalla stessa crisi dei mercati finanziari e degli Stati europei. Diremo di più: la crisi diventa strumento di governance e quindi è crisi perenne. Ciò significa che l’emergenza è finita: la crisi diventa «norma».

Il diritto del comune*

di Girolamo De Michele

Questo volume (Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, a cura di Sandro Chignola), che raccoglie parte dei materiali prodotti in occasione di una giornata di studi nel marzo 2011, ha la sua ragion d'essere in almeno due temi: la crisi del diritto e della sovranità, e la pratica necessità di processi costituenti messi all'opera dai movimenti globali

Che in un'epoca di crisi dell'economia globale siano entrate in crisi tanto gli istituti della rappresentanza politica "democratico-costituzionale", quanto il diritto in quanto tale; che si debba parlare di una crisi delle costituzioni sia dal lato teorico (fondamenti formali dell'architettura giuridica che regolamenta la produzione di leggi e la loro applicazione), sia dal lato materiale (garanzia dell'inviolabilità dei diritti fondamentali iscritti nelle carte costituzionali e tutela sostanziale del cittadino), non è una novità per gli studiosi di questi argomenti.
Meno comune è la comprensione di questa crisi da parte della (cosiddetta) opinione pubblica, e le sue conseguenze nella precaria quotidianità di questo lungo fine secolo.
Partiamo da alcuni concreti casi esemplari di violazione dei diritti umani da parte di società multinazionali: «l'inquinamento ambientale e il trattamento disumano di gruppi di popolazione locale, come nel caso della Shell in Nigeria; la catastrofe chimica di Bophal;
le vergognose condizioni di lavoro in cui versa la manodopera nelle aziende cosiddette "sfruttatrici" presenti sia in Asia sia in America Latina; lo sfruttamento del lavoro minorile da parte dei gruppi Ikea e Nike; l'accusa mossa al produttore di articoli sportivi Adidas di aver realizzato palloni grazie al lavoro forzato in Cina; l'uso di velenosissimi pesticidi nelle piantagioni di banane; la "scomparsa di lavoratori sindacalizzati; i danni all'ambiente causati dalla realizzazione di grandi opere strutturali» (Teubner, p. 16). In tutti questi casi entra in gioco la questione giuridica degli effetti "orizzontali" dei diritti fondamentali: possono i diritti fondamentali vincolare, oltre i sistemi statali, anche le organizzazioni private, imponendo vincoli agli attori privati? Il problema sorge nel momento in cui gli apparati pubblici vengono privatizzati, con la conseguente estensione della libertà dalle obbligazioni giuridiche di soggetti privati che però svolgono funzioni di rilievo "pubblico". E quando questi attori privati sono transnazionali (ad es. società multinazionali), il ruolo regolativo degli Stati nazionali è quasi assente; per contro, accade che queste multinazionali o corporations o gruppi transnazionali impongano regole e comportamenti "privati", con autonomi regimi di governance, agli ambiti di esistenza in cui agiscono: ambiente, condizioni lavorative, produzione e diffusione di sostanze nocive diventano così una sorta di far west in cui, in assenza del diritto e dello Stato, vige la legge del più forte1.
Un secondo esempio è la "governance commissaria di mercato" (sottotitolo del contributo di Alessandro Arienzo): il concatenarsi di crisi economica (il tracollo politico dell'impresa europea, evidenziato «dall'incapacità dell'Unione Europea di delineare una uscita politica dalla propria crisi», e il contemporaneo svuotamento delle sovranità nazionali attribuiscono allo Stato - l'esempio più evidente è il caso greco - un ruolo decisivo nella distribuzione globale dei poteri: «la dissoluzione dell'architettura sovrana sotto i colpi della speculazione finanziaria si accompagna all'irrigidimento di una dimensione esecutiva che mostra il suo volto automutilativo nei licenziamenti nel pubblico impiego, e la violenza dei tagli allo stato sociale e della repressione» (Arienzo, pp. 207-208). Questo mutamento degli apparati di governo coincide con quei processi economici che hanno sottomesso «la produzione di merci e servizi alla logica finanziaria» e spostato la valorizzazione dal profitto alla rendita parassitaria(Blechner, p. 101).
Allargando l'orizzonte visuale, Pasquale Femia accende le luci sul modo in cui è mutata la forma del potere dittatoriale. «Il potere dittatoriale è quasi inevitabilmente disperso nel moderno stato amministrativo»: in questa distributed dictatorship «la compressione, fino alla distruzione, della democrazia si manifesta in una miriade di azioni di governo [,] non nella mera biologia dominante di un sovrano decisore». Citando il caso americano e la relativa riflessione politico-giuridica, Femia sintetizza la deriva "imperiale" argomentando che «non c'è il Grande Decisore, ma una miriade di decisioni decostituenti; non c'è il Decisore, ma una rete di soggetti incardinati in mille punti dei sistemi sociali, ciascuno dei quali lavora all'interno per corrompere i sistemi stessi». Nell'era globale «la dittatura sarà sempre una dittatura diffusa e costituzionale. La dittatura è quindi una perversione della complessità, non un'epifania dell'ordine violento che precede e domina l'ordine giuridico»(Femia, pp. 160-163)2.
Ancor più in generale, nella sua introduzione Chignola sottolinea come lo Stato venga non accantonato e superato, «ma valorizzato come agenzia, pubblica o locale, per un ordine economico che lo trascende e che sfrutta il monopolio dei poteri normativi e sanzionatori che lo Stato ancora detiene ai fini dell'implementazione dei propri codici e dei propri principi» (p. 13). È un processo di lunga durata, che può essere fatto risalire al famoso, o famigerato - o famoso e famigerato – rapporto alla Trilateral sulla crisi di governabilità delle democrazie di Huntington, Croizier e Watanuki3: all'«eccesso di claims che investe gli istituti della rappresentanza politica», alle pretese di diritti scaturite dalle lotte degli anni Sessanta, la risposta è: «flessibilizzare il comando, svuotare della loro centralità gli spazi della rappresentanza e i luoghi della democrazia formale, decentrare la produzione del diritto, cooptare in nuove forme di partecipazione settori organizzati della società civile, è quanto appare allora utile per aggirare la crisi dello Stato e innestare profondamente all'interno dei processi sociali dispositivi di regolazione in grado di adeguarsi ai mutamenti che investono la produzione della soggettività e i nessi materiali che ne organizzano la composizione»(p.10). E dunque, svuotare dei contenuti materiali le costituzioni formali, aggirare la gerarchia delle norme con atti amministrativi aventi forza di legge fondati su criteri di efficienza, o di miglior rapporto costi-benefici, o di garanzia di sicurezza sociale; cessione di ampi spazi pubblici ai soggetti privati, ovvero gestione privatistica degli spazi pubblici, in una voluta confusione tra "pubblico" e "privato" nella quale il "pubblico" finisce per essere un diverso – spesso farraginoso, elefantiaco, burocratico – modo privato di porre in atto processi di governance.
In conclusione, si deve riconoscere il carattere postdemocratico della governance globale «nel senso che essa non si appoggi più all'impianto del sistema rappresentativo che ha sostenuto e garantito la legittimità dello Stato; che gli organi, le tecniche e le pratiche di governance possiedano la flessibilità e la fluidità necessaria per adattarsi in maniera costante ai mutamenti delle situazioni; e che la sua esecutività sia da imputarsi a una pluralità di forme di regolazione controllate, spesso in modo indiretto, dalle oligarchie, in particolare da quelle economiche»(Negri, p. 34).






Il discorso sulla meritocrazia

di Giorgio Mascitelli

«oggi in Italia – il discorso sulla meritocrazia- è rivolto particolarmente alla scuola perché oltre alla sua funzione ideologica esso ha molto più prosaicamente una funzione pratica di giustificazione dell’abbassamento degli stipendi degli insegnanti o del loro licenziamento»

Il discorso sulla meritocrazia, ossia sul premiare i migliori, appartiene a quella serie di truismi che al pari di punire i disonesti, difendere gli infanti e lottare contro il male si presta a ogni tipo di uso sociale. Premiare i migliori nel concreto di una società come quella attuale, nella quale il possesso di denaro è l’unica misura di successo riconosciuta universalmente, significa attribuire un riconoscimento economico. Il che contrasta largamente con l’esperienza quotidiana nella quale il modo, tra quelli leciti, largamente più diffuso per ottenere la quantità di denaro necessaria al raggiungimento della stima sociale è ereditarla (e questo vale anche per quello che Bourdieu chiamava il capitale culturale ossia denaro potenziale sotto forma di informazioni e know how).
Se ci si pensa bene, gli unici campi in cui il discorso meritocratico corrisponde a una realtà diffusa sono lo sport professionistico e, parzialmente, il mondo dello spettacolo e la ricerca applicata, quest’ultima però solo nel caso ci sia un sistema scolastico pubblico efficiente, ossia un sistema che per la sua inclusività cozza con i principi meritocratici. Proprio l’esiguità degli ambiti in cui la meritocrazia ha un effettivo riscontro, rivela il carattere ideologico del discorso che la sostiene, volto infondo a veicolare il messaggio che la gerarchia sia un ordine naturale e giusto.
Il discorso sulla meritocrazia oggi in Italia è rivolto particolarmente alla scuola perché oltre alla sua funzione ideologica esso ha molto più prosaicamente una funzione pratica di giustificazione dell’abbassamento degli stipendi degli insegnanti o del loro licenziamento, come già avvenuto in Grecia o in Spagna. Si può capire che, presentando l’operazione come la premiazione dei migliori anziché come la penalizzazione dei molti, l’opinione pubblica sarà meno incline a prendere in considerazione il fatto che il sistema scolastico nel suo complesso ridurrà drasticamente le proprie prestazioni.

Un salario minimo per legge a tutela del lavoro

di Lia Fubini

La rotta d’Italia. La caduta dei salari aggrava la recessione e produce povertà. È il momento di introdurre un salario minimo per legge e correggere le leggi su lavoro e sindacato. E di sostenere le imprese che vogliono investire
 
Nel discorso sulla stato dell’Unione del 12 febbraio, Barack Obama ha esortato il Congresso a portare avanti riforme che presuppongono la presenza di uno stato fortemente interventista in economia. Ha lanciato una serie di proposte, fra cui l’aumento del salario minimo, investimenti per la ricerca e per l’innovazione nel settore industriale, incremento delle spese per l’istruzione, opere pubbliche, incentivi alla produzione di energia eolica e solare. Il discorso di Obama dovrebbe offrire elementi di riflessione in questa campagna elettorale in cui i temi della disoccupazione, della crisi, dell’impoverimento crescente dei lavoratori dovrebbero essere i temi centrali, ma purtroppo sono spesso tenuti in disparte. Sia chiaro che questi temi non sono disgiunti, ma sono indissolubilmente collegati. La tanto sbandierata austerità, che sarebbe necessaria per rientrare dal debito pubblico, non ha migliorato i conti pubblici, ma ha creato disoccupazione e povertà e sta distruggendo il sistema produttivo, i servizi pubblici, il welfare.
Vent’anni fa, col Protocollo siglato da governo e parti sociali del 1993, la moderazione salariale è stata invocata come un’esigenza per far ripartire l’economia. La stagnazione dei salari si è accompagnata dalla fine degli anni ’90 a interventi in direzione di una maggiore flessibilità, che hanno subìto un’accelerazione con l’inizio di questo secolo. Gli effetti congiunti di moderazione salariale e precarietà del lavoro sono stati un freno alla domanda interna, hanno limitato il processo di crescita e frenato quegli stimoli all’innovazione e alla ricerca di soluzioni tecniche volte ad aumentare produttività e competitività. Negli anni ’90 i profitti sono cresciuti, ma non gli investimenti: molti imprenditori hanno approfittato della situazione favorevole per portare capitali all’estero e fare investimenti finanziari. La legge Biagi ha fatto ulteriori regali alle imprese che hanno potuto beneficiare di un basso costo del lavoro e conservare i margini di profitto senza innovare per migliorare la produttività.
Si è arrivati così agli anni della crisi, in cui assistiamo a un crescente impoverimento dei lavoratori e a un aumento della disoccupazione e della precarietà. Anche le imprese che per anni hanno goduto di profitti crescenti ora sono in difficoltà, molte hanno chiuso, altre sono vicine alla chiusura e reclamano a gran voce sgravi fiscali.
È giunto il momento di cambiare rotta. La questione salariale è un problema centrale che, come si è visto, è stato accantonato da troppo tempo e ha ampiamente contribuito al declino dell’Italia. La strada per risolvere la questione salariale è irta di difficoltà. Molte imprese sono in crisi e non sembrano in grado di pagare salari più elevati. I sindacati sono deboli e divisi e raramente, al momento dei rinnovi contrattuali, riescono a ottenere aumenti salariali in grado di coprire l’incremento del costo della vita. Di conseguenza i salari reali continuano a calare e l’economia si avvita in un circolo vizioso.
Si impone quindi la necessità di un minimo salariale imposto per legge. Si dovrebbe prevedere inizialmente un minimo salariale tale da permettere anche ai lavoratori meno qualificati standard di vita dignitosi. Si dovrebbe poi procedere a graduali incrementi fino a raggiungere nel giro di alcuni anni il livello di quello francese, che attualmente è pari a 9,43 € lordi all’ora, 1.430 € al mese. Un salario minimo dignitoso è importante non solo per evitare il fenomeno ormai sempre più diffuso dei working poors, ma anche per rivitalizzare la domanda e stimolare l’innovazione. Tale misura dovrebbe essere affiancata da una nuova legge sul lavoro che riduca il numero dei contratti atipici, li renda più costosi e, soprattutto, ne limiti l’utilizzo ai casi di provata necessità.

domenica 17 febbraio 2013

newsletter n.6 - rassegna settimanale

SELEZIONE
a cura della Redazione
NoteBlock




di Toni Negri

Più di vent’anni fa uscì l’enciclica Centesimus Annus, del Papa polacco, in occasione del centenario della Rerum Novarum – era il manifesto riformista, fortemente innovatore, di una Chiesa che si voleva ormai sola rappresentante dei poveri dopo la caduta dell’impero sovietico

di Sergio Bologna

«la forma della rappresentanza non può essere quella dell’associazione professionale ma quella del sindacato che unisce tutte le professioni, anzi tutti i lavoratori indipendenti, tutti i freelance ed agisce per creare solidarietà, per costruire forme di mutuo soccorso. Ed è proprio qui, nella concezione di base del modello organizzativo e di rappresentanza, che si possono trovare forti affinità con la grande tradizione del movimento operaio e sindacale italiano»

di Alessandro Rizzi

Quattro milioni di senza lavoro, decine di miliardi di reddito perduto, la crisi che non finisce mai, disoccupazione che crea disoccupazione. Ma altre politiche sono possibili, per il lavoro, la spesa pubblica, il welfare. La rotta d’Italia secondo Luciano Gallino


di Stanio Loria

“Quello che manca al nostro Paese è la cultura del rispetto delle regole, una piaga sociale che diventa un flagello quando si esprime attraverso l’evasione dell’obbligo di tutelare la salute dei lavoratori. E finché lo spettro delle sanzioni sarà prevalente sullo spettro della propria coscienza, ogni piccolo progresso costerà una fatica immane ed ogni avanzamento sarà minimo”

L’abdicazione del Papa tedesco

di Toni Negri

Più di vent’anni fa uscì l’enciclica Centesimus Annus, del Papa polacco, in occasione del centenario della Rerum Novarum – era il manifesto riformista, fortemente innovatore, di una Chiesa che si voleva ormai sola rappresentante dei poveri dopo la caduta dell’impero sovietico. A quel documento, i miei compagni parigini di Futur Antérieur ed io dedicammo un commento che era insieme un riconoscimento ed una sfida: lo intitolammo “La V Internazionale di Giovanni Paolo II” http://www.uninomade.org/la-quinta-internazionale-di-giovanni-paolo-ii/

Ventidue anni dopo il Papa tedesco abdica. Si dichiara non solo affaticato nel corpo ed incapace di opporsi agli imbrogli ed alla corruzione della Curia romana, ma anche impotente nell’animo per affrontare il mondo. Quest’abdicazione tuttavia può stupire solo i curiali – tutti quelli che hanno attenzione alle cose della Chiesa romana sanno che un’altra abdicazione, ben più profonda, era già avvenuta, da un pezzo, già sotto Giovanni Paolo II, quando, con il fervente appoggio di Ratzinger, l’apertura ai poveri e l’impegno ad una Chiesa rinnovata per la liberazione degli uomini dalla violenza capitalista e dalla miseria, erano terminati. Era stata pura mistificazione quell’enciclica del 1991? Oggi dobbiamo riconoscere che è probabile. Di fatto, in America Latina la Chiesa cattolica distrusse ogni focolaio della teologia della liberazione, in Europa tornò a rivendicare l’ordo-liberalismus, in Russia e in Asia si trovò presto incapace di sviluppare quel proselitismo che il nuovo ordine mondiale le permetteva, e nei paesi arabi e iranici vide i musulmani, nelle loro diverse sette e frazioni, prendere il posto del socialismo arabo (e spesso cristiano) e del comunismo sciita nella difesa dei poveri e nello sviluppo delle lotte di liberazione. Lo stesso ravvicinamento ad Israele fu fatto non in nome dell’antifascismo e della denuncia dei crimini nazisti ma in nome della difesa dell’Occidente. Il paradosso più significativo fu rivelato dal fatto che la grande spinta missionaria (che si era autonomamente sviluppata dopo il Concilio Vaticano II) fu fatta rifluire verso ONG, rigidamente specializzate ed epurate da ogni caratteristica genericamente “francescana”. Queste ONG finirono per essere dedite alla pratica di quei “diritti dell’uomo” che la Chiesa (e i due Papi, quello polacco e quello tedesco) rifiutava di riconoscere nei paesi europei o del Nord America, dove ancora quei diritti esprimevano, con risonanza anticlericale e repubblicana, le istanze (residuali, comunque efficaci) della laicità umanista ed illuminista. Invece di essere a sinistra della socialdemocrazia, come la Centesimus Annus proponeva, il papato si trovò così piegato sulla destra del panorama sociale e su una destra politica spesso ammiccante ai Tea Parties (anche europei).
Ora il Papa tedesco abdica. È quasi divertente sentir parlare la stampa di tutto quel mondo che ha ancora interesse all’evento (molto limitato, tuttavia se considerato nello spazio globale). Essa chiede al nuovo Papa di riconoscere il ministero ecclesiastico delle donne, di rendere borghesemente collegiale l’amministrazione della Chiesa, di garantirle una posizione di indipendenza dalla politica… Banali richieste. Ma toccano l’essenziale? Sicuramente no: è la povertà quello che manca alla Chiesa. E sarebbe infine il momento di comprendere che il Papa non è un Re ma deve essere povero, non può che essere povero. Cercheranno di mascherare il problema promuovendo un africano o un filippino al papato? Di quale orribile gesto razzista si tratterebbe se il Vaticano e i suoi ori e le sue banche e la sua dogmatica politica a favore della proprietà privata e del capitalismo, rimanessero bianchi ed occidentali! Chiedono di concedere alle donne il sacerdozio: non è pura ipocrisia quando non gli passa neppure per l’anticamera del cervello che Dio possa essere declinato al femminile? Vogliono collegialità nella gestione della Chiesa: ma già Francesco insegnò che la collegialità poteva darsi solo nella carità. Etc., etc.
La Chiesa del Papa polacco e di quello tedesco ha concluso il processo di annientamento del Concilio Vaticano II, e questa liquidazione purtroppo non ha mai rappresentato una “guerra civile” all’interno della Chiesa di Roma ma solo una gara di fioretto tra prelati – anche sanguinosa, come nel caso della neutralizzazione del cardinal Martini, ma sempre di scherma si trattò. Così, mettendo una pietra sopra a quel Concilio, questi due ultimi Papi hanno bloccato un impetuoso movimento di rinnovamento religioso. Soprattutto hanno confuso la Chiesa e l’Occidente, il cristianesimo e il capitalismo: era quello che la Centesimus Annus prometteva di non far più, una volta usciti dall’isteria antisovietica.

Il lavoro autonomo e il sindacato: una svolta ?

di Sergio Bologna

« la forma della rappresentanza non può essere quella dell’associazione professionale ma quella del sindacato che unisce tutte le professioni, anzi tutti i lavoratori indipendenti, tutti i freelance ed agisce per creare solidarietà, per costruire forme di mutuo soccorso. Ed è proprio qui, nella concezione di base del modello organizzativo e di rappresentanza, che si possono trovare forti affinità con la grande tradizione del movimento operaio e sindacale italiano»

È appena stata pubblicata una “Guida”della Cgil su cui è importante riflettere, si tratta di: In-flessibili. Guida pratica della CGIL per la contrattazione collettiva inclusiva e per la tutela individuale del lavoro (prefazione di Elena Lattuada e Fabrizio Solari, con testi di Davide Imola, Cristian Perniciano, Rosangela Lapadula, Marilisa Monaco, Ediesse, Roma 2013, pp. 195, € 13,00).
Ad esempio i candidati del PD, di SEL, di Rivoluzione civile, per limitarsi a coloro che stanno presentadosi alle elezioni proponendosi come rappresentanza politica dei lavoratori, hanno letto questo libretto? Se non lo hanno ancora fatto, lo facciano. Diranno, sul problema drammatico dell’occupazione e dei diritti di chi lavora, qualcosa di meno generico di quanto i più volonterosi tra di loro vanno dicendo in queste settimane pre-elettorali.
Ma dovrebbero leggerlo anche i lavoratori con contratti “atipici” e i lavoratori autonomi con partita Iva, perché il testo lascia intravedere, a mio avviso, la possibilità di una svolta molto importante nella storia della CGIL o, meglio, la esplicita, perché il cambiamento in questi anni c’è stato ma era sotterraneo, non ancora legittimato dai vertici, e dunque non effettivo. Ora, che questo libretto, concepito come manuale per la “contrattazione inclusiva”ad uso dei quadri intermedi del sindacato, delle RSU e dei delegati, sia presentato da due segretari nazionali, dimostra che ci troviamo di fronte a una possibile inversione di rotta di cui la Direzione CGIL è ben consapevole. Ma di quale svolta si tratta?
Finora la CGIL aveva difeso – bene o male è un altro discorso – i diritti dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, secondo i principi dello Statuto dei Lavoratori. Questo era il suo mestiere, nato e consolidato in epoca fordista. I lavoratori autonomi non ricadevano nella sua titolarità contrattuale, anzi, spesso non venivano nemmeno fatti rientrare nella fattispecie “lavoro” perché erano considerati imprese, individuali ma imprese.
Nemmeno le profonde trasformazioni interne al lavoro autonomo, che ci avevano fatto parlare di una “seconda generazione”, dedita ai lavori di conoscenza, ai lavori professionali più che a quelli di tipo artigianale, aveva fatto cambiare idea al sindacato. Memore di quanta fatica aveva fatto nel rappresentare gli impiegati di concetto assunti a tempo indeterminato, probabilmente non aveva voglia di avventurarsi nel mondo dei knowledge worker indipendenti, dei professionisti arroccati nei loro Ordini, nelle loro associazioni professionali. Tanto più che i grattacapi allora venivano proprio dal lavoro subordinato. Infatti, mano a mano che in epoca postfordista si andava formando un esercito sempre più numeroso di “precari”, cioè di persone assunte con contratti “flessibili”, fatti apposta per sottrarre il datore di lavoro ai vincoli imposti dallo Statuto, il sindacato si trovava di fronte una fattispecie di figura lavorativa che non poteva essere tutelata con i medesimi strumenti normativi e con le medesime tecniche negoziali (es. lo sciopero) del lavoratore subordinato.
Non solo, il sindacato, e qui parlo anche di CISL e di UIL, pur con accenti differenti, aveva in sostanza preso per buona la tesi che la flessibilità in ingresso avrebbe favorito l’occupazione e reso più agevole l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Secondo questa tesi, il “precariato” è un fenomeno transitorio destinato a risolversi da solo con una più o meno rapida stabilizzazione. Quando si vide che le cose non stavano proprio così e che l’esistenza dei “precari” diventava un fatto strutturale e accompagnato da una condizione di vivo disagio, il sindacato si decise a far qualcosa ed aprì dei“centri di servizio”, ben lontano dal costituire quello che sarebbe stato necessario, difficile ma innovativo, un sindacato di categoria di lavoratori precari di tutte le categorie. Ma anche questi “centri di servizio” furono considerati superflui o non consoni al ruolo di un’organizzazione che deve difendere solo il lavoro dipendente.
In CGIL questo centro di servizi si chiama Nidil ed aveva cominciato a fare cose egregie, ma fu smantellato subito, all’epoca della segreteria Cofferati ed oggi conta ben poco. La condizione del “precariato”, già difficile, cominciò a peggiorare, le tipologie contrattuali “atipiche” a moltiplicarsi, la durata del periodo cosiddetto “transitorio”, prima di un stabilizzazione, ad allungarsi, la platea a riempirsi sempre più di laureate e laureati, le retribuzioni a toccare livelli indegni di un paese che pretende di essere annoverato tra quelli “avanzati”, mentre si diffondeva a macchia d’olio il lavoro gratuito degli stagisti.
“Riconosco che abbiamo sbagliato a non usare la forza collettiva dei più garantiti per difendere anche le persone senza contratto o con un contratto atipico”, ha detto in qualche circostanza Susanna Camusso, come ci ricorda la quarta di copertina.
Ora questa Guida, questo manuale ad uso dei funzionari e dei rappresentanti sindacali, dice chiaramente che lavoratori con contratti “atipici” e lavoratori autonomi rientrano a pieno titolo nel perimetro della titolarità contrattuale della CGIL, alla stessa stregua dei lavoratori dipendenti. Ma non sta qui la svolta, a mio avviso, la svolta sta nel modo in cui la questione viene posta con chiarezza intellettuale nelle premesse. Si parte infatti da un assunto fondamentale, che esistono due fattispecie lavorative, quella del lavoro subordinato o dipendente e quella del lavoro autonomo. Perché questo assunto è importante (tenuto conto delle posizioni precedenti del sindacato)?
Perché consente di definire in maniera corretta la terza fattispecie, quella figura anomala che sta diventando la normalità: il soggetto precario. Finché nell’orizzonte culturale del sindacato esisteva solo il lavoro dipendente, il“precario” era quello che stava per entrare (o sperava di entrare) nel rapporto di subordinazione con contratto regolare. Era un dipendente acerbo. Questo ha fatto sì che per anni sindacalisti e politici abbiano potuto cavarsela con le stesse frasette che li sentiamo ripetere in questa campagna elettorale: “no al precariato”, “superamento del precariato”, “lotta alla precarietà”, che non sono frasi generiche ma frasi senza senso.

La disoccupazione crea disoccupazione. Intervista a Luciano Gallino

di Alessandro Rizzi

Quattro milioni di senza lavoro, decine di miliardi di reddito perduto, la crisi che non finisce mai, disoccupazione che crea disoccupazione. Ma altre politiche sono possibili, per il lavoro, la spesa pubblica, il welfare. La rotta d’Italia secondo Luciano Gallino

Appese alle pareti della casa di Luciano Gallino, le foto della moglie Tilde mescolano molteplici piani attraverso giochi di specchi, spingendosi oltre la percezione di un istante e cogliendo la sfuggente complessità d’insieme. È uno sforzo, questo, che si ritrova poco più in là, negli scaffali ricolmi di libri del professore, perché afferrare la complessità, arrivare al cuore delle cose, necessita di uno studio meticoloso e incessante. E spiegarla, poi, richiede un impegno altrettanto esigente, senza sosta, né risparmio: un impegno generoso, che passa per conferenze in Italia e all’estero, interviste e un nuovo libro per raccontare cos’è accaduto e come mai la gente continua a farlo accadere. Nel contesto odierno, dominato da semplificazioni populistiche e una visione neoliberista talmente radicata e potente da riuscire nel paradosso di gestire l’incendio dopo aver appiccato il fuoco, la voce di Luciano Gallino è un punto di riferimento prezioso per tracciare la rotta da seguire.

Una rotta che nasce dalla necessità del lavoro.

“In Italia, ci sono circa quattro milioni di persone fra disoccupati e non occupati. Di conseguenza, una ricchezza pari a decine di miliardi l’anno non viene prodotta e non diventa domanda, commesse per le imprese, consumi. Il risultato è che la disoccupazione crea disoccupazione”.

Per creare occupazione bisogna seguire l’esempio di Roosevelt.

“Con il New Deal, lo Stato si è impegnato a creare direttamente occupazione e in alcuni mesi furono assunti milioni di persone”.

Un New Deal italiano permetterebbe non solo di creare ricchezza, ma anche di risolvere annosi problemi. A cominciare dal suolo.

“Il dissesto idrogeologico riguarda più di un terzo del Paese. È un campo in cui i soldi si trovano sempre a posteriori, quando sono stati distrutti o allagati interi quartieri o quando ci sono frane, morti. Allora sì che si trovano i miliardi per riparare i danni. Sarebbe meglio spenderli prima, oculatamente, in opere da individuare”.

Prioritaria è anche la terribile situazione delle scuole.

“Il 48% delle scuole italiane non ha un certificato che assicuri che l’edificio è a norma dal punto di vista della sicurezza statica. È possibile che i ragazzi italiani vadano in scuole metà delle quali non è a norma dal punto di vista della sicurezza? Non si tratta di pavimenti sconnessi o rubinetti che perdono, o servizi inadeguati, ma di muri, tetti, fondamenta, che bisognerebbe rivedere e rimettere a norma”.

La miopia riguarda anche il potenziale punto di forza dell’Italia.

“Il degrado del nostro immenso patrimonio culturale è per molti aspetti sotto gli occhi di tutti. Negli anni si è puntato a migliorare i punti di ristoro nei musei, insistendo sulla fruibilità da parte di pubblici sempre più vasti, invece di intervenire sulla catalogazione digitale, sulla tutela effettiva, sulla custodia. Un’azione mirata può creare centinaia di migliaia di posti di lavoro”.

C’è poi il problema della riconversione del modello produttivo.
 
“Il modello produttivo attuale è finito nell’estate del 2007. È impensabile che i posti di lavoro che si sono persi in questi anni siano ricostituiti, ripercorrendo lo stesso modello produttivo. Processi come l’automazione e la razionalizzazione hanno soppresso quote impressionanti di posti di lavoro e molte imprese si dirigono sempre di più verso Paesi in cui i salari, le condizioni ambientali o fiscali sono più favorevoli. Occorrerebbe pensare a forme di ecoindustria, cercando di evitare errori e compromessi che hanno, in alcuni casi, caratterizzato lo sviluppo di nuovi settori, come ad esempio si è visto con la creazione di parchi eolici”.

Una riconversione che riguarda anche l’agricoltura.

“Anche qui, l’epoca in cui la lattuga del Cile o i pomodori di un altro Paese facevano 10 o 20 mila km prima di arrivare sulla tavola di qualcuno probabilmente è finita. Il costo dei carburanti, degli aerei e della logistica stanno in qualche modo imponendo forme di consumi agricoli, consumi alimentari che non saranno a km zero, ma certamente non a km 10 mila o 20 mila, come è stato invece per molti anni. Il ministero dell’agricoltura dovrebbe occuparsi della riduzione dei km che pomodori, lattuga e formaggi e altro percorrono prima di arrivare sulle nostre tavole”.

Per creare occupazione, l’ideale sarebbe un’agenzia centrale.

“So che a molti sale la temperatura quando sentono parlare di Stato che occupa le persone. Bisognerebbe creare un’agenzia centrale che determina i limiti e che incassa i soldi da varie fonti, magari appunto dallo Stato stesso o da una rivisitazione degli ammortizzatori sociali. L’assunzione diretta può essere affidata ai cosiddetti territori, al non profit, al volontariato, ai servizi per l’impiego, alla miriade di entità locali, comprese piccole e medie imprese”.

Tutela della salute dei lavoratori tra semplificazione e deregolamentazione

di Stanio Loria

“Quello che manca al nostro Paese è la cultura del rispetto delle regole, una piaga sociale che diventa un flagello quando si esprime attraverso l’evasione dell’obbligo di tutelare la salute dei lavoratori. E finché lo spettro delle sanzioni sarà prevalente sullo spettro della propria coscienza, ogni piccolo progresso costerà una fatica immane ed ogni avanzamento sarà minimo” Carlo Smuraglia (Convegno “150 anni di prevenzione” presso il Senato della Repubblica il 20/10/11)

Il controllo pubblico sull’applicazione delle norme è un elemento fondamentale dell’impianto giuridico, sia come garanzia per la tutela della salute dei lavoratori e dell’ambiente che come strumento di indirizzo dell’attività economica a fini sociali, per il recupero della qualità e della dimensione sociale del lavoro.
Mentre la strategia dei Governi che si stanno succedendo in questi anni alla guida del Paese, siano essi politici che tecnici, è tutta incentrata sulla semplificazione delle procedure come necessità fondamentale del sistema produttivo per liberarsi dai vincoli e dalla zavorra di una burocrazia asfissiante per la crescita.
In realtà, quando poi si passa all’esame dei provvedimenti legislativi adottati dai Governi, si scopre che la invocata semplificazione delle procedure troppo spesso riguarda solo le norme di tutela della salute dei lavoratori e la salvaguardia ambientale.
E tra le procedure che s’intende semplificare ci sono invariabilmente i controlli sull’applicazione delle norme, di cui si chiede l’alleggerimento o, addirittura, l’eliminazione.
E così la invocata semplificazione amministrativa si traduce in deregolamentazione, che è poi il vero obiettivo del liberismo.
Attualmente il D.Lgs 81/08 impone al datore di lavoro l’adozione delle misure di prevenzione.
Tra queste ci sono, tra le altre, la valutazione di tutti i rischi, l’informazione e la formazione dei lavoratori, la sorveglianza sanitaria.
Tali adempimenti sono sostanziali e si concludono con la stesura di un atto documentale formale, probatorio dell’avvenuto adempimento.
È qui che nasce il grave equivoco che consente di confondere la semplificazione della forma con la deregolamentazione della sostanza: l’atto documentale formale rappresenta la certificazione degli adempimenti sostanziali ed è la prova per il datore di lavoro del rispetto degli adempimenti normativi di fronte ai controlli dell’Organo di Vigilanza.
In questo senso, l’atto documentale formale è diventato l’unico vero interesse del datore di lavoro!

In questo si inseriscono i mercati che, è risaputo, si sviluppano seguendo elementari regole economiche, per cui sono molto sensibili agli interessi dei datori di lavoro e, abbastanza meno, alle esigenze di salute di lavoratori e alla salvaguardia dell’ambiente.
Per cui, la stesura di atti documentali formali, probatori di adempimenti sostanziali mai svolti, è diventato un nuovo mercato che, tra l’altro, oltre a numerosi consulenti, in possesso dei requisiti rilasciati prevalentemente senza controlli pubblici, ha generato un fiorente commercio di specifici software, reperibili anche su internet, e di corsi fantasma tenuti da aziende di formazione e di consulenza con nomi altisonanti e sedi inesistenti.

Detta così, il dover conseguire questi atti documentali, formali e non sostanziali, rappresenta sicuramente un costo inutile per le aziende!
E non c’è dubbio, come dimostrano tutte le indagini conoscitive condotte in merito, che le aziende italiane hanno fatto investimenti sulla tutela della salute dei lavoratori.
Quindi gli investimenti in salute e sicurezza sul lavoro ci sono; il problema di oggi è indirizzarli verso iniziative veramente utili e sostanziali di prevenzione.
La strategia non può essere che quella di incrementare e valorizzare i controlli pubblici.
Non solo per verificare che gli atti documentali formali siano redatti al termine di azioni e processi sostanziali, ma anche per correggere le anomalie del mercato della sicurezza, dove i professionisti seri e preparati troppo spesso soccombono alla concorrenza sleale di avventurieri che, attraverso l’abbattimento dei prezzi, vendono documenti formali eludendo la sostanza degli adempimenti.

È per questo che i controlli pubblici adeguati diventano importanti per validare i costi che le aziende hanno dimostrato di voler sostenere e per farli diventare, così come è previsto dalla norma, investimenti sostanziali per la salute dei lavoratori e delle popolazioni.
Per assumere questa valenza, i controlli non devono solo riguardare le aziende, ma anche i soggetti accreditati alla consulenza e alla formazione per le aziende!

domenica 10 febbraio 2013

NEWSLETTER 1\13

le selezioni di gennaio (a cura della Redazione)
newsletter n.1 sabato 5 gennaio 2013
Questo non è un manifesto di Nicolas Martino
Una recensione su David Harvey di Redazione Connessioni
Insistiamo: la critica della costituzione è necessaria di Collettivo Uninomade
Acciaio, servizi locali, finanza: il degrado del sistema Italia di Vincenzo Comito



newsletter n.2 - sabato 12 gennaio 2013
http://noteblockrivista.blogspot.it/2013/01/newsletter-n2-rassegna-settimanale.html

Il baratro fiscale dell’Agenda Monti di Luciano Gallino
Giovanni Arrighi e l’eterno ritorno del Capitale di Fabio Milazzo
Debito statale, debito sovrano, debito pubblico, debito dei cittadini Ugo Marani e Nicola Ostuni
Il baratro dell’economia liquida – Intervista a Christian Marazzi di RADIO UNINOMADE


newsletter nd.3/4 - martedì 29 gennaio 2013
http://noteblockrivista.blogspot.it/2013/01/newsletter-n34-rassegna-bisettimanale.html
Temariando di Accì
C'è un futuro per il sindacato? di Fondazione “Claudio Sabattini”
Aporie della giustizia: Marx a lezione da Rawls di Ernesto Screpanti
Marx e la giustizia, risposta a Ernesto Screpanti di Stefano Petrucciani
Movimenti e realpolitik di Benedetto Vecchi
A sarà düra! Storie di vita e di militanza no tav di Centro sociale Askatasuna
L’euro, moneta tedesca di Maurizio Lazzarato
Chi paga la crisi e chi ci guadagna di Luigi Pandolfi