La
crisi si approfondisce, accelera, blocca l’orizzonte e allo stesso tempo cambia
continuamente i quadri di riferimento. É ormai chiaro a tutti che, nonostante i
disperati tentativi di rassicurazione dei vari attori della governance, vie di
uscita non se ne vedono. La novità della crisi odierna è che perde la sua forma
ciclica e diventa permanente: in questa trasformazione, come abbiamo ripetuto più
volte contro le illusioni di una sinistra incapace di ripensare perfino la
propria funzione riformista, non ci sono soluzioni keynesiane lineari. Crisi
permanente non significa di certo che sia prossimo il “crollo” del capitale:
sono ipotesi che lasciamo volentieri ai teologi della storia. Ciò non toglie,
però, che la crisi mostra una evidente incapacità del capitale di far
funzionare il comune che il lavoro della moltitudine produce
Gli ordinamenti costituzionali
attuali, sia a livello dell’integrazione europea sia a livello di stati
nazionali, non permettono di aggredire con efficacia questo tipo di crisi: la
loro unità si è definitivamente infranta, pensare a una loro restaurazione
oppure alla difesa di singoli brandelli è una mossa semplicemente improduttiva.
Tutto ciò non è avvenuto per una sorta di complotto o tradimento delle
rappresentanze governative, come spesso si sostiene, ma perché sono state le
lotte a rompere la mediazione costituzionale ed è stata la finanziarizzazione a
rispondere imponendo una nuova convenzione. In Europa la BCE assume così un
ruolo politico fondamentale sovradeterminando ogni decisione politica e
distruggendo ogni opposizione, al tempo stesso riproducendo indefinitamente la
crisi. Che i margini della mediazione siano continuamente erosi i padroni lo
dicono in termini chiari. Semmai, è qualche voce, sempre subalterna, delle
sinistre ufficiali che si ferma a rimpiangere il vecchio nesso welfaristico
“classico” cittadinanza-lavoro, senza mai voler prendere atto di come esso sia
stato già battuto in breccia, prima ancora che dai padroni, dalle modificazioni
stesse della produzione e da una cooperazione sociale che non può essere
trattenuta entro quel binomio. Così, se Marchionne, senza paura, usa il
linguaggio della rappresaglia (un operaio licenziato per ognuno che torna in
fabbrica), la Fornero non è stata incauta con la sua esternazione sui giovani
“choosy”, perché i governanti “tecnici”, a differenza dei nostalgici e
impotenti ideologi delle socialdemocrazie e delle sinistre tradizionalmente
“lavoriste”, non hanno bisogno di giri di parole per dire come stanno le cose:
mangiate merda e tacete. Siamo addirittura oltre i lessici mistificatori della
meritocrazia e della libertà di scelta: che abbiate studiato oppure no, titoli
o non titoli, abituatevi a una mobilità sociale che sarà solo verso il basso.
Il potente imprenditore ed economista Warren Buffet lo aveva già detto qualche
tempo fa senza infingimenti: naturalmente la lotta di classe c’è, ed è la mia
classe che l’ha vinta. Poi Occupy Wall Street ha cominciato a fargli capire che
ha ragione solo per metà. Per l’altra parte, non ha fatto i conti con il 99%.
1. Il 14N ci sembra debba essere
letto in questo quadro. Uno dei principali soggetti protagonisti è stata una
generazione che si è socializzata nella crisi, nella precarietà e
nell’impoverimento, e non conosce altro al di fuori di essa. Proprio perché un
futuro non ha mai immaginato di poterlo possedere e dunque non può avere ansia
per la sua perdita, pretende di essere assolutamente “choosy” rispetto al
proprio presente. Per questa generazione, il rimpianto per la vecchia coppia
cittadinanza-lavoro non ha alcun senso: si muove in tutta naturalezza, dopo,
fuori e contro le costituzioni del lavoro, fuori e contro i modi e ritmi delle
mediazioni sindacali. Che i precari di seconda generazione riescano a situarsi
dentro una composizione allargata, come avviene in Spagna, o se riusciranno a
farsi motore di processi di ricomposizione, per nominare la scommessa politica
in Italia, questo è un nodo decisivo. Ci pare comunque che il 14N costituisca
una prima conferma del discorso sulla “leva meridionale” delle lotte,
incarnatosi nei recenti incontri di Agora99 a Madrid e di “orizzonti meridiani”
a Palermo. Non a caso, la settimana di lotta era cominciata, in Italia, proprio
a Napoli, con le contestazioni rivolte al ministro Fornero, ma ancora più
significativamente, a un vertice italo-tedesco dedicato al tema
dell’“apprendistato”: da Sud è arrivato un messaggio molto chiaro di rifiuto di
un workfare che vorrebbe costringere le vite ad una perpetua disponibilità a
qualsiasi condizione, in cambio di un futuribile inserimento lavorativo, e si è
affermata una richiesta di reddito universale e incondizionato, già del resto
radicata in una lunga serie di lotte per la riappropriazione di luoghi e di
servizi. Evidenziamo questo baricentro mediterraneo della geopolitica
contemporanea delle lotte perché, sarà bene ribadirlo ancora una volta,
affermare il carattere pienamente globale della crisi non significa affermarne
un’omogeneità degli effetti e delle sue linee di sviluppo: esistono evidenti
asimmetrie spaziali e temporali, sia dentro l’Europa, sia su scala
intercontinentale. É fin troppo banale, ad esempio, sottolineare come la
situazione in America Latina e le questioni che i movimenti devono affrontare
sono molto differenti e in alcuni casi rovesciate rispetto al Nord America o
all’Europa. E tuttavia, queste differenze compongono e alimentano una
dimensione comune sul piano globale, senza comprendere la quale rischiamo
l’illeggibilità politica dei quadri territoriali. É proprio in questo rapporto
di tensione che lo “sciopero europeo” ci mostra come le lotte dei piigs abbiano
in questa fase la possibilità di divenire motore di ricomposizione, a patto che
non si chiudano nella trappola del particolarismo identitario e sappiano
allargare il processo della lotta di classe verso sud e verso nord, o – per
dirla in termini politici prima ancora che geografici – verso il Mediterraneo e
verso l’Atlantico.
La crisi, dunque, accelera sia sulla sponda nord del Mediterraneo sia sulla sponda sud, trovando nel medio oriente il punto di deflagrazione. Potremmo dire che alle soluzioni “tecniche” che si sono cercate alla crisi a nord corrispondono a sud soluzioni “politiche” che hanno puntato sull’islamismo moderato come elemento di stabilizzazione contro-rivoluzionaria: nessuna delle due coglie evidentemente il carattere strutturale della crisi. Sembra che la crisi economica e quella internazionale si stiano accumulando l’una sull’altra e rischino di sfuggire completamente a ogni controllo. Violenza della crisi e guerra aperta rischiano così di combinarsi in modo catastrofico. Anche di questa violenza abbiamo avuto qualche assaggio nella giornate del 14N, in ciò che l’ha preceduta e che l’ha seguita. Dire questo significa già collocare la questione degli apparati repressivi al di fuori di un’errata idea dell’anomalia italiana, ancora radicata in una parte del movimento: la caccia allo studente a Roma è in continuità con le pallottole di gomma a Barcellona o con il lavoratore portuale ucciso ad Atene, solo per restare agli ultimi avvenimenti. E i numeri identificativi sui caschi delle forze dell’ordine non hanno impedito la completa militarizzazione della mobilitazione di Francoforte lo scorso maggio, né impedisce ai poliziotti francesi o inglesi di agire da truppe di occupazione nelle periferie di Londra e di Parigi. É la violenza della crisi, appunto, che segue linee diverse nella misura in cui diversi sono i suoi effetti. Sia chiaro, qualsiasi lettura che riproponga l’idea di uno stato di polizia ovvero di eccezione è completamente fuorviante: la governance è articolazione di forme differenti, dal controllo soft alla repressione ruvida, dalle politiche di mediazione alla guerra. Non potendo più governare a monte la cooperazione sociale, intervengono a valle per ricomporre il comando.
Quello che invece l’attuale crisi porta in più con sé è un tendenziale scontro tra apparati. Le mail rese pubbliche da Anonymous quando ha bucato i server della PS portano a galla l’insofferenza di molti poliziotti e di alcuni loro sindacati per le condizioni del loro infame lavoro. Questo malcontento salariale assume in questo settore la forma di un discorso corporativo contro la casta dei politici, colpevoli dei tagli e dei rischi per gli agenti. Nell’assenza di welfare e possibilità di mediazione redistributiva, la polizia si trova così a dover gestire una parte della sussidiarietà, con un ulteriore carico di lavoro. E tuttavia la recriminazione non porta verso nessuna solidarietà con i precari e i poveri (come una ormai diffusa retorica vorrebbe), ma al contrario alla rivendicazione della libertà di manganellarli. Gli apparati della governance scaricano dunque uno sull’altro le responsabilità di gestire una situazione sempre più esplosiva con sempre meno mezzi, usando la propria parziale autonomia come arma di contrattazione. Ma l’autonomia cresce decisamente proprio dal lato dei precari e dei poveri: autonomia oramai pienamente conquistata, anche questo dice con chiarezza la giornata del 14N, rispetto ad ogni pretesa rappresentativa che qualsiasi centrale sindacale avesse ancora voglia di nutrire. Del resto, anche le organizzazioni classiche di movimento arretrano, di fronte a una composizione delle lotte evidentemente e radicalmente diversa da quella attorno alla quale si erano strutturate.
La crisi conclamata delle rappresentanze consolidate fa evidentemente perdere il senno agli apparati tradizionali, generando per esempio un titolo, non si sa se più ridicolo o più nostalgico, come quello dell’Unità dedicato ai “violenti contro lo sciopero”. D’altro canto, questo scenario peculiare, da non confondersi con le ricorrenti grida d’allarme su una supposta fascistizzazione, non può essere affrontata con la semplice denuncia – chiaramente necessaria ma non sufficiente – della violenza poliziesca. Né si può pensare di creare ricomposizione attorno alle narrazioni della repressione, che hanno sempre il sapore debole della vittimizzazione. É vero il contrario: è il “non abbiamo paura” che, dal Maghreb alla Spagna, ha allargato i luoghi del conflitto e creato spazio comune. E, tutto sommato, le immagini di Passera e di Barca costretti alla fuga in elicottero perché inseguiti dagli operai del Sulcis ci ricordano che i Marchionne, le Fornero e i Warren Buffet taceranno quando inizieranno a sentire la paura.
Nel Novecento le guerre e le carneficine di massa hanno rappresentato una soluzione alle crisi: laddove questa assume un carattere permanente, non è più così. La proliferazione di guerre a differente scala di intensità e natura possono riempire un orizzonte segnato dalla strutturale incapacità di ricostruire una prospettiva strategica del capitale e un ciclo di accumulazione di lunga durata. A questo livello, parlare di guerra significa identificare un’asimmetria politica, cioè l’evidenza di una strutturale debolezza (l’impossibilità di governare la cooperazione sociale) di fronte alla potenza del comune. In questo senso il semplice sdegno morale è un’arma spuntata, perché le ragioni dell’opposizione alla guerra sono immediatamente incarnate negli interessi materiali della composizione del lavoro vivo. Oggi dire lotta per la pace significa infatti dire lotta per il comune, e viceversa. Partiamo da qui, e proviamo a porre questa ipotesi al centro del programma di movimento.
http://www.uninomade.org
La crisi, dunque, accelera sia sulla sponda nord del Mediterraneo sia sulla sponda sud, trovando nel medio oriente il punto di deflagrazione. Potremmo dire che alle soluzioni “tecniche” che si sono cercate alla crisi a nord corrispondono a sud soluzioni “politiche” che hanno puntato sull’islamismo moderato come elemento di stabilizzazione contro-rivoluzionaria: nessuna delle due coglie evidentemente il carattere strutturale della crisi. Sembra che la crisi economica e quella internazionale si stiano accumulando l’una sull’altra e rischino di sfuggire completamente a ogni controllo. Violenza della crisi e guerra aperta rischiano così di combinarsi in modo catastrofico. Anche di questa violenza abbiamo avuto qualche assaggio nella giornate del 14N, in ciò che l’ha preceduta e che l’ha seguita. Dire questo significa già collocare la questione degli apparati repressivi al di fuori di un’errata idea dell’anomalia italiana, ancora radicata in una parte del movimento: la caccia allo studente a Roma è in continuità con le pallottole di gomma a Barcellona o con il lavoratore portuale ucciso ad Atene, solo per restare agli ultimi avvenimenti. E i numeri identificativi sui caschi delle forze dell’ordine non hanno impedito la completa militarizzazione della mobilitazione di Francoforte lo scorso maggio, né impedisce ai poliziotti francesi o inglesi di agire da truppe di occupazione nelle periferie di Londra e di Parigi. É la violenza della crisi, appunto, che segue linee diverse nella misura in cui diversi sono i suoi effetti. Sia chiaro, qualsiasi lettura che riproponga l’idea di uno stato di polizia ovvero di eccezione è completamente fuorviante: la governance è articolazione di forme differenti, dal controllo soft alla repressione ruvida, dalle politiche di mediazione alla guerra. Non potendo più governare a monte la cooperazione sociale, intervengono a valle per ricomporre il comando.
Quello che invece l’attuale crisi porta in più con sé è un tendenziale scontro tra apparati. Le mail rese pubbliche da Anonymous quando ha bucato i server della PS portano a galla l’insofferenza di molti poliziotti e di alcuni loro sindacati per le condizioni del loro infame lavoro. Questo malcontento salariale assume in questo settore la forma di un discorso corporativo contro la casta dei politici, colpevoli dei tagli e dei rischi per gli agenti. Nell’assenza di welfare e possibilità di mediazione redistributiva, la polizia si trova così a dover gestire una parte della sussidiarietà, con un ulteriore carico di lavoro. E tuttavia la recriminazione non porta verso nessuna solidarietà con i precari e i poveri (come una ormai diffusa retorica vorrebbe), ma al contrario alla rivendicazione della libertà di manganellarli. Gli apparati della governance scaricano dunque uno sull’altro le responsabilità di gestire una situazione sempre più esplosiva con sempre meno mezzi, usando la propria parziale autonomia come arma di contrattazione. Ma l’autonomia cresce decisamente proprio dal lato dei precari e dei poveri: autonomia oramai pienamente conquistata, anche questo dice con chiarezza la giornata del 14N, rispetto ad ogni pretesa rappresentativa che qualsiasi centrale sindacale avesse ancora voglia di nutrire. Del resto, anche le organizzazioni classiche di movimento arretrano, di fronte a una composizione delle lotte evidentemente e radicalmente diversa da quella attorno alla quale si erano strutturate.
La crisi conclamata delle rappresentanze consolidate fa evidentemente perdere il senno agli apparati tradizionali, generando per esempio un titolo, non si sa se più ridicolo o più nostalgico, come quello dell’Unità dedicato ai “violenti contro lo sciopero”. D’altro canto, questo scenario peculiare, da non confondersi con le ricorrenti grida d’allarme su una supposta fascistizzazione, non può essere affrontata con la semplice denuncia – chiaramente necessaria ma non sufficiente – della violenza poliziesca. Né si può pensare di creare ricomposizione attorno alle narrazioni della repressione, che hanno sempre il sapore debole della vittimizzazione. É vero il contrario: è il “non abbiamo paura” che, dal Maghreb alla Spagna, ha allargato i luoghi del conflitto e creato spazio comune. E, tutto sommato, le immagini di Passera e di Barca costretti alla fuga in elicottero perché inseguiti dagli operai del Sulcis ci ricordano che i Marchionne, le Fornero e i Warren Buffet taceranno quando inizieranno a sentire la paura.
2. In queste condizioni è evidente
che i movimenti dentro la crisi devono riprendere in mano la parola d’ordine
della lotta moltitudinaria per la pace, che si presenta oggi come problema
immediato e come condizione fondamentale per costruire una via di uscita che
combatta al tempo stesso la guerra esterna e la violenza interna dello
sfruttamento e degli apparati repressivi. É una parola d’ordine che è stata
imposta con le barricate dalle insorgenze cominciate nel Maghreb e contro cui –
dalla Libia al Medio Oriente – si è scatenata la reazione. L’assenza di questo
tema dal dibattito politico italiano ed europeo impone una forzatura da parte
dei movimenti, per imporre la consapevolezza del fatto che lotta per la pace e
lotta contro la violenza della crisi sono sempre più strettamente legate nella
misura in cui la crisi economico-finanziaria e la crisi internazionale tendono
– in fondo classicamente – a convergere.
L’aggressione israeliana a Gaza, con
la sua brutalità, riconsegna ai movimenti l’urgenza di riattivare le
mobilitazioni per l’indipendenza palestinese, come del resto, in questi giorni,
ed è un altro buon segno, sta avvenendo un po’ dovunque, in significativa
continuità con le manifestazioni del 14N, e, insieme, di tornare a praticare le
lotte contro la guerra. Ma un discorso politico e rivoluzionario sulla pace va
oggi pensato e praticato in forma nuova, al di fuori di un vetusto
anti-imperialismo da un lato e di un impotente discorso morale dall’altro.
Abbiamo prima accennato, ad esempio, alla funzione giocata in questa fase
dall’“islam politico” che, pur nella sua ovvia e profonda eterogeneità interna,
si lega a una prospettiva di stabilizzazione conservatrice contro le “primavere
arabe”. É sbagliato pensarlo come soggetto della tradizione anti-moderna: si
attesta anzi sul tentativo di restaurare quelle coordinate della politica
(Stato, rappresentanza, sovranità) entrate definitivamente in crisi. Chi ritiene
i regimi dei Fratelli Musulmani o quello iraniano – e lo stesso discorso, al di
là dell’islam, vale per la Siria – come alleati anche solo tattici in chiave
anti-americana è preda di un pericoloso delirio, indipendentemente dalle
ambivalenze e dalle opacità che attraversano le opposizioni a quei regimi. Del
resto, i venti di guerra che soffiano forte sul Mediterraneo e verso il medio
oriente non sono il prodotto dell’egemonia americana bensì la reazione alla sua
fine, a dimostrazione che la crisi non conduce deterministicamente a uno
sviluppo lineare e progressivo. Mobilitarsi contro le basi militari americane
in giro per il mondo significa perciò lottare contro l’impazzimento di un
sistema geopolitico che non riesce a uscire dalle proprie convulsioni. E deve
essere chiaro che si può vincere solo uscendo da un piano meramente locale: il
futuro del No Dal Molin, ad esempio, si gioca sulla capacità di costruzione di
un movimento comune con Occupy e con le insorgenze nel Nord Africa.Nel Novecento le guerre e le carneficine di massa hanno rappresentato una soluzione alle crisi: laddove questa assume un carattere permanente, non è più così. La proliferazione di guerre a differente scala di intensità e natura possono riempire un orizzonte segnato dalla strutturale incapacità di ricostruire una prospettiva strategica del capitale e un ciclo di accumulazione di lunga durata. A questo livello, parlare di guerra significa identificare un’asimmetria politica, cioè l’evidenza di una strutturale debolezza (l’impossibilità di governare la cooperazione sociale) di fronte alla potenza del comune. In questo senso il semplice sdegno morale è un’arma spuntata, perché le ragioni dell’opposizione alla guerra sono immediatamente incarnate negli interessi materiali della composizione del lavoro vivo. Oggi dire lotta per la pace significa infatti dire lotta per il comune, e viceversa. Partiamo da qui, e proviamo a porre questa ipotesi al centro del programma di movimento.
http://www.uninomade.org