mercoledì 7 novembre 2012

da “I beni comuni non sono il bene comune”

di Guido Viale

della categoria “bene comune” si è fatto un abuso smisurato, utilizzata a sproposito soprattutto nel linguaggio politico e mediatico, sovente si confonde la ratio socialmente costituente con quella giuridico-economica che si sostanzia nella proprietà pubblica. Bisogna precisare che quando il pensiero critico in alternativa alla proprietà privata prova a sviluppare un’idea del “Comune” essa non si riferisce alla “Cosa Pubblica” né tanto meno al concetto patrimoniale della proprietà statuale la cui disponibilità o indisponibilità è regolata dal potere esecutivo. “Il che inevitabilmente succede se si ritiene che il rapporto degli umani con un bene non possa assumere altra forma che quella del diritto di proprietà. Ma questa concezione non ha alcun fondamento storico; risponde a un approccio giuridico tradizionale e sbarra la strada a qualsiasi percorso alternativo allo stato di cose presente. Per questo è necessario andare più a fondo nella concettualizzazione del termine”. Il nostro estratto dell’articolo di Viale, crediamo, offra non pochi spunti di chiarezza al dibattito che attraversa i movimenti resistenti, sorti in questi anni contro le politiche espropriative praticate in nome delle logiche sviluppiste del sistema economico dominante

Recenti studi, a partire da quello pionieristico de premio Nobel Elinor Ostrom, passando, in Italia, per i nomi di Stefano Rodotà, Ugo Mattei e Alberto Lucarelli, hanno cercato di dare fondamento e consistenza giuridica a questa forma di gestione che esclude – o mette in secondo piano – la proprietà; ma l’indagine storica, valgano per tutte quelle della Ostrom, “mirate” sul tema, dimostra che la gestione condivisa di un bene comune è una pratica antica e ben nota in una pluralità di comunità etniche e storiche e che essa, per l’appunto, varia nei modi e nelle regole, a seconda del contesto storico sociale e del bene in questione. Se accettiamo questo approccio, è chiaro che la categoria dei beni comuni non esclude a priori nessuna delle risorse materiali o spirituali che occupano il panorama della vita moderna; ma anche che l’inclusione di una risorsa nella categoria dei beni comuni dipende strettamente dal grado in cui si è affermata la pratica o la rivendicazione, di una sua gestione comune e condivisa; o, per lo meno, una diffusa convinzione che così deve essere. Ed è altresì chiaro che questa questione è il nocciolo duro di uno scontro in corso a livello planetario, che assume le forme più diverse nei diversi contesti; ma che vede ovunque contrapporsi, da un lato, l’approccio liberista, che vede nella privatizzazione del controllo e della gestione delle risorse le condizioni irrinunciabili di un loro uso efficiente e produttivo; e, dall’altro, le varie forme di resistenza a questo “pensiero unico”.
Queste ultime scartano come non decisiva la contrapposizione tra pubblico e privato, e tra Stato e mercato – anche sulla base delle esperienze negative che la mera “nazionalizzazione” o statalizzazione delle risorse e delle attività produttive ha dato di sé: sia nei paesi del blocco comunista a economia pianificata, che in molte esperienza realizzate nel corso del secolo scorso in Occidente – e vedono invece nella riappropriazione condivisa di una serie di risorse e di attività le condizioni essenziali di una gestione democratica tanto del potere che delle attività economiche fondamentali.

La lotta contro l’appropriazione

Seguendo questo approccio, ci soffermeremo su alcuni nodi fondamentali che interessano tanto i processi di realizzazione quanto la rivendicazione di una gestione condivisa dei beni comuni:
1. La prima osservazione è questa: l’idea di una gestione condivisa dei beni comuni ha nel mondo contemporaneo una matrice libertaria, “di sinistra”, o addirittura di estrema sinistra. Ma la realizzazione della gestione condivisa non è né di destra né di sinistra: ad essa può partecipare chiunque, indipendentemente dai suoi orientamenti, e la gestione condivisa è per l’appunto un’arena dove le diverse ipotesi o soluzioni proposte si confrontano. Chi l’ha proposta e ha lottato per la sua affermazione può poi ritrovarsi in minoranza tra i soggetti che partecipano poi alla sua realizzazione;
2. A confronto avremo sempre e comunque una concezione processuale e una concezione statutaria del bene comune. La concezione statutaria punta a definire fin dall’inizio le regole della gestione e a promuovere sulla loro base la partecipazione; la concezione processuale punta invece innanzitutto al coinvolgimento di una platea quanto più ampia possibile dei soggetti potenzialmente interessati alla gestione del bene, con una particolare attenzione a dare voce ai soggetti esclusi o marginali, contando che le regole di funzionamento si possano definire – e correggere – in corso d’opera. Nessuno di questi due approcci è valido a priori; vanno commisurati al contesto operativo e combinati sulla base degli esiti del processo, facendo comunque attenzione a che la rigidità delle regole non soffochi il processo di coinvolgimento, che non avviene mai secondo moduli prestabiliti;
3. Possiamo scandire il processo del coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati alla gestione condivisa di un bene comune in tre stadi. L’ultimo, il più definito, è quello della democrazia deliberativa. Si decide secondo regole certe gli indirizzi da dare alla gestione del bene e questi, se il bene è formalmente di proprietà pubblica, devono essere fatti propri dall’autorità o dall’amministrazione competente, sotto il controllo dei soggetti che hanno preso parte alla deliberazione, e di altri che si possono aggiungere in seguito. Lo stadio intermedio è quello del confronto tra le diverse ipotesi e soluzioni proposte. La difficoltà è che non siamo abituali a farlo: secoli di espropriazione del potere deliberativo ci hanno resi intolleranti e incapaci di ricorrere all’arma della persuasione (la verifica più grottesca di questo dato sono, per chi ne ha esperienza, le assemblee condominiali). Da questo punto di vista la partecipazione a un processo di gestione condivisa di un bene – o anche solo della sua rivendicazione – è per tutti una scuola di democrazia e di tolleranza. Ma la prima fase è forse la più difficile: molti soggetti, improvvisamente coinvolti in un processo di partecipazione, e abituati a considerare la propria esclusione una condizione “naturale”, non riescono per un tempo più o meno lungo ad attenersi al tema: hanno bisogno di sfogarsi, di “vomitare” in pubblico le proprie frustrazioni, di sentirsi accolti e rispettati. Guai a considerare questa fase una perdita di tempo: è un prerequisito fondamentale della democrazia partecipativa;
4. La partecipazione di chi rivendica o cerca di attuare una gestione condivisa di un bene è, e nella società contemporanea resterà per lungo tempo, un processo conflittuale: uno scontro quotidiano e serrato contro chi aspira all’appropriazione privata o una gestione pubblica puramente amministrativa del bene, o la ha già realizzata, o la sostiene. I processi partecipativi sono per l’appunto il terreno dove si costruisce e si consolida la forza e l’organizzazione per opporsi a una gestione privata o escludente;
5. Nei processi partecipativi, e fino a che non è stato formalizzato e accettato un sistema di regole, non si vota: a partecipare non è mai la totalità dei soggetti interessati e chi partecipa non può pretendere di rappresentarli. Partecipa perché ha un’idea, un’esperienza, una competenza, un saper fare, da far valere e da mettere a disposizione degli altri. Se non si raggiunge il consenso di una larghissima maggioranza si dovrà riproporre il confronto a partire da una base più ampia: di carattere territoriale (coinvolgendo altri soggetti) o settoriale (introducendo nuove tematiche) in modo da scompaginare gli schieramenti precostituiti. Se l’accordo non viene comunque raggiunto si apre il conflitto: le diverse tesi in campo cercheranno di far valere le loro ragioni al di fuori del contesto partecipativo, fino a che la modificazione dei rapporti di forza non permetteranno di riaprire il confronto su basi diverse;
6. La democrazia partecipativa e la gestione condivisa dei beni comuni si costruiscono sui saperi (tecnici e sociali) diffusi tra la popolazione; ma sono al tempo stesso una scuola straordinaria per approfondire, promuovere e diffondere questi saperi;
7. La riappropriazione condivisa di un bene comune, anche del più generale e diffuso, come l’atmosfera – per preservarla dal sovraccarico di gas di serra – o la cultura – per renderla accessibile a tutti – è un processo che richiede e al tempo stesso promuove la “territorializzazione” dei processi; il riavvicinamento tra produzione e consumo, tra utenza e gestione. Certo questo processo non riguarda la mera informazione – i bit, che circolano liberamente su tutto il globo – ma riguarda gli atomi: la gestione concreta di risorse, impianti, strutture, istituzioni, spettacoli, ecc. La condivisione è tanto più forte quanto più è basata su rapporti diretti e relazioni di prossimità;
8. Al di là dell’acqua bene comune, oggi il terreno fondamentale dello scontro tra privatizzazione e gestione condivisa è costituita dai servizi pubblici locali. Costituire a livello territoriale (quartiere, circoscrizione, città, area vasta; ma anche condominio o compound) delle sedi dove gli indirizzi dei servizi pubblici locali vengano affrontati e discussi in una prospettiva di gestione condivisa è un’attività in cui tutti possono impegnarsi.


Il rapporto con il territorio

Certamente, molte volte, l’istanza della difesa dei beni comuni sconfina e sembra confondersi con una difesa particolaristica del proprio “cortile” con quello a cui politici e commentatori affibbiano sprezzantemente l’etichetta “nimby”. Ma quel “cortile” si fa in realtà sempre più grande; a volte, come nel caso dell’acqua o dell’atmosfera, di dimensioni planetarie; e le ragioni di chi lo difende si dimostrano ogni giorno – valgano per tutti, in Italia, casi come quelli delle lotte contro il TAV Torino-Lione, il Mose di Venezia, il Ponte sullo stretto di Messina, o la base Usa di Vicenza – più serie, documentate, approfondite di quelle dei loro avversari, che sono contraddittorie, autolesioniste e soprattutto superficiali: “primato del mercato”; “modernizzazione”; “difesa dell’Occidente”; “rapporto con l’Europa”, ecc. E che servono soprattutto per mascherare interessi e accordi speculativi eincinfessabili.
La democrazia dal basso e lo spazio pubblico che si sono sviluppati in contesti come questi sono invece basati su, e corroborati da, una conoscenza dei problemi, dei costi e dei benefici delle soluzioni proposte, da una fiducia reciproca nelle proprie forze e nel proprio impegno che hanno le loro basi in una varietà d saperi tecnici e gestionali diffusi nel territorio e disseminati tra la popolazione. Le nuove forme di partecipazione – o le nuove rivendicazioni di partecipare – ai processi decisionali sono indisgiungibili dal “bene comune” conoscenza.
La difesa dei beni comuni allude così, e conduce, a un rapporto con le cose, con il mondo degli oggetti, con l’ambiente fisico in cui viviamo, meno strumentale, meno cinico, meno finalizzato a un mero funzionalismo (quello per cui una cosa, qualsiasi cosa, vale solo finché e in quanto ci serve, e poi va gettata via), per includere una dimensione affettiva, emotiva, estetica: dalla difesa del paesaggio alla lotta contro gli OGM e i cibi adulterati, dalla salvaguardia dei prodotti, dell’alimentazione, dei saperi e del saper fare tipici o tradizionali ai gruppi di acquisto solidali, dal recupero dell’usato alla promozione del riciclaggio. E’ questa una dimensione che le regole del mercato e del profitto hanno largamente espunto dal mondo e che costituisce invece una componente essenziale della salvaguardia della salute, nostra e altrui, di questa come delle future generazioni.

Beni comuni e “spazio pubblico”

Queste dimensioni sono tanto più presenti e consapevoli quanto più le iniziative hanno o partono da una dimensione locale, che si basa su una conoscenza articolata del territorio e su una rete consolidata di relazioni sociali – una “risorsa cognitiva” che i grandi progetti ignorano per vocazione, ma che costituisce una componente irrinunciabile di una progettualità sostenibile: “Pensare globalmente e agire localmente”.
A loro volta, le iniziative che si sviluppano a partire da una dimensione locale sono la fonte principale di creazione e di consolidamento di nuovi e più forti legami sociali: di comunità costruite e legittimate non dalla consuetudine o dalla tradizione, ma dalla condivisione di obiettivi e prospettive comuni. La lotta lunghissima degli abitanti della Val di Susa è l’esempio migliore di questa dimensione comunitaria costruita attraverso la prassi. Legame sociale significa spazio pubblico – anche fisico, cioè strade, viali, piazze, giardini sottratti all’invasione delle automobili – a disposizione per l’incontro, per il confronto, e anche per il conflitto tra soggetti diversi per genere, età, cultura, tradizioni, abitudini, ricchezza, ruoli professionali e sociali, idee: la base indispensabile del rispetto reciproco, che è la sostanza dei diritti umani e il presupposto irrinunciabile di una democrazia che non sia solo parvenza; La democrazia rappresentativa e i suoi istituti non sono più sufficienti a offrire soluzioni ai problemi della società perché le rappresentanze istituzionali non rappresentano più nessuno e si sono sclerotizzate in apparati che ricordano da presso la cosiddetta “nomenclatura” dei paesi del fu impero sovietico.
Se le prospettive di un’autogestione dei produttori sono tramontate per sempre, perché coinvolgono programmaticamente una parte sempre più ristretta della società, ma soprattutto perché rischiano continuamente di riprodurre nei rapporti reciproci tra le diverse entità autogestite i rapporti di competizione tipici del mercato, un’integrazione e un arricchimento dei meccanismi propri della democrazia formale non possono realizzarsi che attraverso processi negoziali – che non escludono e, anzi, presuppongono il conflitto, ma anche la sua temporanea conciliazione e una sua sempre rinnovata riproposizione – in cui le singole componenti, i cosiddetti stakeholder, possano valorizzare e far valere il patrimonio di esperienza e di competenze di cui sono portatori. E’ un percorso in divenire che non ha un punto di approdo perché la democrazia vive attraverso la sua pratica.

Il contributo di Guido Viale è integralmente leggibile cliccando su
http://www.inchiestaonline.it/economia/guido-viale-i-beni-comuni-non-sono-il-bene-comune/