sabato 6 ottobre 2012

Lo stoccafisso tra il sacro e il profano

di Lanfranco Caminiti

estratti da un più articolato contributo, titolato “Perché, nella crisi del debito pubblico, avremmo voluto dirci cattolici” *, queste due note -ci sembra- sintetizzino un’analisi che è più di una semplice suggestione. Forse una chiave di lettura? Sicuramente le riflessioni di Caminiti si configurano come risposta a certe interpretazioni della crisi, le quali riconducono il fattore religioso ad elemento giustificativo “correlato” al malessere economico che pervade i “peccatori” stanziali nella periferia dell’impero del capitale, quella stessa periferia a cui la forma imperiale del dominio deve i natali e la sua consacrazione divina nell’incontro col cristianesimo  

Lo stoccafisso unisce il Mediterraneo ai mari del Nord, tutto il resto ci divide
I paesi europei con un debito pubblico eccessivo, e i cui titoli sovrani faticano a trovare acquirenti, se non pagando interessi spropositati, in un momento in cui chi già li possiede in quantità tende a disfarsene per il timore di un continuo deprezzamento e di un’insolvenza incombente, sono mediterranei e cattolici – Italia, Spagna, Portogallo – o ortodossi – Grecia e Cipro. I paesi europei che hanno un debito pubblico non allarmante e un rapporto d’esso con il Pil in linea con i parametri di Maastricht, e i cui titoli sovrani trovano facilmente acquirenti anche se gli interessi sono addirittura negativi, sono nordici e protestanti – Germania, Olanda, Finlandia. Se al gruppo dei paesi indebitati fino al collo, che sono tutti mediterranei, aggiungiamo l’Irlanda, che mediterranea non è, sappiamo però che cattolica lo è di sicuro. Il tratto dominante della faglia che sta spaccando l’Europa è quindi solo cartograficamente una spaccatura tra il nord e il sud. Invece, più profondamente è una separazione religiosa. Tra protestanti e cattolici. Quelli dell’orribile acronimo Piigs, sono cattolici, i virtuosi che chiedono più rigore e manifestano perplessità a operare salvataggi, quelli della tripla AAA sono invece protestanti. L’Europa ha già vissuto nel Seicento questa separazione e questo conflitto nella lunga Guerra dei Trent’anni tra l’Impero spagnolo e l’Olanda [e i principi tedeschi e la Svezia], a cui la pace di Westfalia pose termine adottando la regola cuius regio, eius religio – che ciascun territorio abbia una sua religione – che a noi oggi può sembrare un banale principio di tolleranza, come consentire che ciascuno si circoncida se lo crede, ma che allora significò la risistemazione del potere politico – la Catalogna, il Portogallo, le Fiandre conquistarono l’indipendenza mentre nel Sud Italia scoppiò la rivolta di Masaniello – e soprattutto dell’economia europea. La nuova spaccatura europea ruota intorno la moneta unica di riferimento, che ha sostituito nei nostri cuori e nelle nostre menti la religione unica di riferimento, e dentro una crisi finanziaria che a quella del Seicento somiglia per tanti versi, soprattutto per quel che riguarda l’Impero spagnolo, sempre più in penuria dell’oro e dell’argento delle colonie, con una tecnocrazia dispendiosa e presa tutta dalle sue dinamiche intestine nella capitale unica di riferimento, una casta politica sparsa nelle regioni inzeppata di privilegi, una produzione in rallentamento e quasi allo sfascio, e una tassazione minuta fatta di rendite e gabelle divenuta insopportabile e che non lasciava nulla ai ceti territoriali in ascesa contro l’immobile e parassita baronia. La nuova pace di Westfalia arriverà rompendo la sacralità della moneta unica sancendo il principio cuius regio, eius moneta – si chiama così il nostro equivalente generale di scambio perché la prima zecca romana fu posta sotto la protezione del tempio di Giunone moneta, dal latino monere, cioè ammonire avvertire, il denaro è un ammonimento –, a ogni territorio corrisponda una propria moneta? Non potremmo arrivarci evitandoci il flagello, un massacro – che oggi per fortuna non ha il carattere della morte in battaglia, ma quello della disoccupazione di massa, che ha già raggiunto – non in Germania, certo, gli eventi non si ripetono mai eguali – i livelli dopo la Prima guerra mondiale?

Sacro  e profano
Ora, questa, della frattura religiosa intraeuropea, che qui si rileva può essere solo una suggestione, anche se Stephan Richter in un suo articolo ripreso dal «Corriere della Sera» afferma che «troppo cattolicesimo è un guaio per la salute fiscale delle nazioni» e che ci fosse stato Lutero a Maastricht avrebbe salmodiato: «Read my lips. No unreformed Catholic countries». Figurarsi, una suggestione può valere un’altra: il professor Cassano – illustre mente meridionalista e mediterranea – s’è fatto convinto, come Montesquieu, e vuol convincerci che il clima sia il fattore centrale delle evoluzioni antropologiche – l’economia, le forme del vivere comune, le leggi – e quindi, presumibilmente la frattura produttiva e creditizia oggi sta fra lo scirocco e i gelidi venti del nord. Epperò, c’è una gran parte del pensiero laico europeo e mediterraneo – e italiano in special modo, lo si è letto diffusamente nella ricorrenza dei 150 anni – che crede, forse sulla scorta di Gibbon che considerava il cristianesimo come la causa della fine dell’Impero romano o di Machiavelli che individuava nella religione cattolica quell’indebolimento e infragilimento delle virtù repubblicane romane e pagane che impedivano una risoluta azione verso l’unificazione delle italiche genti, che la nostra palla al piede e nel processo politico che ci ha portato all’Unità del paese e nello sviluppo capitalistico sia stata proprio nella mancata riforma protestante. Il laicismo europeo ha sempre fatto propria l’idea che il capitalismo sia davvero figlio del protestantesimo – e dell’oculatezza del risparmio e dell’iniziativa individuale e del rischio e dell’innovazione che è figlia dell’apertura mentale alla ricerca e alla scoperta scientifica – mentre lo statalismo, assistenziale e paterno e padronale, intanto che siamo ancora convinti che il sole giri intorno la terra, non abbia fatto altro che sostituire una forma di unione sociale eternamente immobile e assoggettata intorno la Chiesa, a un’altra identica, intorno lo Stato. La crisi starebbe spazzando via ogni residua illusione di rendita. Sul «Sole 24 ore», Guiso e Herrera scrivono: «Noi sosteniamo da tempo che le difficoltà nel management della crisi europea, e in particolare l'atteggiamento della Germania, riflettano le profonde differenze nelle norme culturali e nelle convinzioni che regolano i rapporti tra le persone in Germania [e nel Nord Europa] rispetto alla Grecia [e nell'Europa mediterranea]. In Germania prevale una cultura della cooperazione e della punizione sociale che richiede ai cittadini non solo di contribuire direttamente al bene pubblico ma impone loro il dovere di punire chi non vi contribuisce. In Germania l'economia è [ancora] parte della filosofia morale, per cui la crescita non è il portato delle politiche keynesiane di sostegno alla domanda ma il premio a comportamenti virtuosi». Sarà una suggestione, la mia, nient’altro, eppure per esplicitare il senso delle varie “riforme” che il nostro governo tecnico ha varato o ha in animo di varare si fa riferimento a una serie di “valori” – il merito individuale, l’ingiustizia di vivere al di sopra dei propri mezzi, la sobrietà invece della ritualità fastosa, il rovesciamento dei diritti acquisiti in diritti da meritarsi, la vacuità della lamentela per un lavoro che non si trova e che invece sarebbe abbondante basti solo rimboccarsi le maniche, la critica a tutti quei privilegi sociali che non solo non avrebbero più ragion d’essere ma hanno un che di simoniaco e di diabolico, e amenità di questo genere – che nella loro neutralità a volte sono condivisibili ma hanno spesso il tenore di 95 Tesi affisse al portone della chiesa di Wittenberg. La prima delle Tesi di Lutero diceva così: «Il signore e maestro Gesù Cristo volle che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza». Non solo: come si ricorderà, lo scontro era intorno alla questione dell’obolo, se bastasse pagare per ottenere l’indulgenza e l’assoluzione. Per Lutero, non era così: bisognava espiare. La Tesi 94 dice: «Bisogna esortare i cristiani perché si sforzino di seguire il loro capo Cristo attraverso le pene, le mortificazioni e gli inferni». E la Tesi 4: «Rimane cioè l'espiazione sin che rimane l'odio di sé (che è la vera penitenza interiore), cioè regno dei cieli». È a questa “espiazione” – Atonement era il titolo del bel libro di Ian McEwan intorno ai sensi di colpa che durano una vita, senza mai perdono –, a quest’odio di sé – avremmo troppo ballato sull’orlo dell’abisso, avremmo sprecato e dissipato – che suggestivamente sembrano richiamare oggi, a noi mediterranei e cattolici, i protestanti del Nord. Quello che è curioso, storicamente curioso, è che lo scontro di civiltà che avrebbe dovuto politicizzare le società occidentali democratiche contro l’islam in realtà non c’è stato. Invece, lo scontro di civiltà – riecheggiando Benedetto Croce, il Cristianesimo è la più grande rivoluzione occidentale e non se ne può prescindere – sembra posizionarsi all’interno dell’Europa, ma non contro l’Altro, ma tra noi stessi. Come è per lo più nostro costume e storia. Una Controriforma potrebbe allora essere necessaria – un movimento di opinioni e di proposte che sia religioso senza essere fideista – che sappia intrecciare l’attenzione sociale alle povertà provocate da questo regime che considera l’uomo solo in quanto lavoro e il suo merito solo in misura dei suoi successi e la colpa, il peccato, il debito, come dovuti ai suoi insuccessi, con la cura democratica contro l’espropriazione verticista delle decisioni. Una Controriforma che riposizioni il materiale e l’immateriale, il sacro e il profano, i diritti e i doveri, la politica e la religione, in forma non teocratica – rendendo progressivo il più grande sommovimento rivoluzionario che ha traversato il mondo negli ultimi decenni, la sollevazione del mondo islamico dalla comparsa di Khomeini.

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