giovedì 4 ottobre 2012

Contro il merito. Meritocrazia non fa rima con democrazia

di Giuseppe Caliceti

L’ideologia sulla meritocrazia è divenuta in questi ultimi anni  fondamento del pensiero unico dominante, trasversalmente contenuta nel quadro programmatico del ceto politico istituzionale, assolutamente indifferente al posizionamento classico dentro l’emiciclo della rappresentanza. Anzi, la disputa sulla “vera meritocrazia” costituisce terreno di scontro elettorale per la conquista del consenso. Dall’orizzonte ideale della sinistra parlamentare – non a caso- è pressoché scomparso il principio di “uguaglianza” surrogato da quello di “equità”. La base propagandistica su cui si regge quest’ultimo principio è la rivendicazione delle “pari opportunità”  dove si esalterebbe la virtuosità del sistema meritocratico. Orbene non sfuggirà ai nostri lettori che l’intervento di Caliceti (si tratta di due articoli correlati -da noi temporalmente invertiti- pubblicati rispettivamente  su «Alfabeta2» il 22 settembre 2012 e su «il manifesto» il 29 settembre 2012), smaschera l’impianto meritocratico, mettendo in evidenza il nesso che lega la “teologia del merito”  alla reazionaria “ideologia dell’esclusione”   
Meritocrazia non fa rima con democrazia
Avendo ricevuto numerose critiche per il mio articolo Contro il merito, vorrei provare ad approfondire. Nel suo saggio Contro il merito: una provocazione, Francesca Rigotti ricorda come l’attuale mitizzazione del merito risenta “della crescente svalutazione del concetto di eguaglianza in atto negli ultimi decenni”. La sua reale funzione? Giustificare i privilegi di alcuni. La storia dell’umanità può essere letta come eterna contrapposizione tra uguaglianza e disuguaglianza. Oggi l’idea di merito non è altro che una nuova pericolosa forma di giustificazione razziale di una presunta differenzazione tra esseri superiori e inferiori. Per nascita. Il bluff della meritocrazia è infatti evidente analizzando un altro aspetto: tra i meritevoli vi è una spiccata tendenza a promuovere l’ereditarietà delle cariche. Insomma, c’è una palese contraddizione tra il dire e il fare.
Roger Abravanel, nel suo libro Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto (Garzanti 2008), sostiene che la classe dirigente è l’unica depositaria del merito. E ha diritto a un premio: i vantaggi di una crescita economica senza fine. Come è organizzata la società meritocratica? In classi sociali. Peggio: in caste. Da una parte stanno intelligenti, arroganti, competitivi; dall’altra stupidi, demoralizzati, umiliati. I valori che la reggono? Competitività e aggressività. A svantaggio di gentilezza, coraggio, creatività, sensibilità, simpatia, tolleranza, solidarietà. La posizione meritocratica condurrebbe addirittura a matrimoni intelligenici  fra persone con un alto Q.I.
Insomma, l’antica aristocrazia di nascita sarebbe sostituita da una “aristocrazia dell’ingegno”. I bambini, fin da piccoli, sarebbero indirizzati verso scuole differenti a seconda delle presunte capacità individuali. “Sessant’anni di ricerche psicosometriche e sociologiche hanno portato a ritenere che (le) capacità intellettive e caratteriali siano prevedibili, senza che sia necessario attendere la selezione naturale della società” (p.65). E ancora “(…) ricerche approfondite evidenziano come la performance di un bambino di sette anni in lettura/scrittura offra un’ottima previsione del suo reddito a trentasette anni” (p.83).
Quali ricerche? Nel libro di Abravanel le teorie pseudoscientifiche sono sempre riassunte con approssimazione e senza citare la fonte. Ma è chiaro che qui stiamo già parlando di una teoria eugenetica che ha come suo nemico principale la democrazia, di cui la meritocrazia è l’esatta antitesi. Per tutto questo, non posso fare a meno che ripetere: attenti al merito, anche quando se ne parla a Sinistra. Meritocrazia fa rima con democrazia, ama ripetere il rettore piddino dell’Università di Bologna. Io temo che sia esattamente il contrario.

Contro il merito

All’entrata dell’ateneo di Parma, dove si svolgevano i test di ammissione alle facoltà di medicina, alcuni ragazzi e ragazze immagine pagati dalla scuola privata Cepu distribuivano volantini che invitavano ad aggirare i test iscrivendosi a un’università europea. Insomma, pagando. Perché con un anno di studio in altre nazioni europee poi si può rientrare in un’Università italiana al secondo anno di medicina. Così si aggira il test del numero chiuso. Naturalmente con l’aiuto del Cepu: solo per chi paga. Insomma: fatta la legge, trovato l’inganno, e se non è proprio un inganno è qualcosa di molto simile. Comunque sia, un messaggio chiaro ai giovani: perché studiare, quando basta pagare?
Ecco, dopo averli chiamati bamboccioni e scansafatiche si prendono di nuovo in giro gli studenti e le loro famiglie. Parlando falsamente di “merito” e offrendo loro scappatoie per “comprarsi il merito”. E mai per “meritarselo” o accettare i suoi verdetti negativi. Se può essere comprato, che merito è? Si arriva così all’assurdo che, vendendo il sogno di un lavoro che molti giovani mai avranno, i giovani vengano derubati: dei soldi e del loro sogno. Potrebbero degli adulti fare di peggio ai propri figli? Eppure è quello che in questi anni sta accadendo nel silenzio generale. Dei giovani e dei loro genitori.
Ogni battaglia politica è anche una battaglia culturale. E viceversa. Così come ogni battaglia culturale è anche una battaglia linguistica. Per esempio, in Italia il centrodestra si è impossessato della parola “libertà” e, anche grazio a questo, è riuscito a governare ininterrottamente per quasi vent’anni. Anche sulla parola “uguaglianza” sinistra e centrosinistra da tempo hanno abbassato inspiegabilmente la guardia. E anche loro parlano sempre più del “merito”. Ha iniziato a farlo il governo Berlusconi, con il ministro all’istruzione Gelmini, per promuovere il più grande licenziamento di massa della storia della nostra Repubblica, quello dei docenti della scuola pubblica. Sinistra e centrosinistra non si sono opposti.

La meritocrazia pare oggi quasi una religione, a cui si aggiungono sacerdoti e credenti ogni giorno. Specie parlandone a proposito di scuola e università, formazione o ricerca. Premiare il merito, si dice. Onorarlo. Chi nega il contrario? Ma il concetto di merito, a ben pensarci, è anche profondamente antidemocratico. In palese conflitto d’interessi con l’articolo 3 della nostra Costituzione. Specie, poi, se utilizzato nella valutazione dei bambini. Il merito è oggi considerato un valore assoluto, al punto che attorno ad esso è nato un nuovo termine: “meritocrazia”. E il Corriere della Sera ha creato il blog specifico meritocrazia.corriere.it. Ma è inevitabilmente collegato a un’idea di esclusione – e neppure solo di alcuni, ma di tanti. E comunque mai di inclusione. Avrebbe a che fare con una vaga idea di bene – addirittura di “bene comune” – al quale tutto e tutti dovrebbero tendere e obbedire devotamente.
In realtà di sicuro c’è solo una cosa: se qualcuno ti sta parlando di “merito” ti sta escludendo. Anzi: sta escludendo una maggioranza a favore di una piccola èlite. Il contrario esatto dello slogan Noi siamo il 99% del movimento Occupy Wall Street. È un po’ come l’ideologia del SuperEnalotto, o dell’uno-su-mille-ce-la-fa; e mille o un milione o più, naturalmente, non ce la fanno, non ce la devono fare e questo, si badi bene, per il “bene di tutti”. Perché se ce la facessero tutti il mondo sarebbe peggio di quello che è oggi: insomma, c’è niente di più ambiguo e contraddittorio per chi si dichiara non di destra?
Ma perché allora in Italia, oggi, anche nel centrosinistra, si parla tanto di merito? Forse proprio perché non esiste altro paese in cui le conoscenze e i favoritismi contano più di qualsiasi preparazione o abilità: nello studio, nel lavoro, nella vita sociale. Mi ha colpito un ministro della Repubblica dichiarare in un’intervista pubblicata, questa estate, sull’Espresso: “Sono ricca per merito e non per privilegio”. Cosa vuol dire? Insomma, di cosa parliamo veramente quando parliamo di merito? Credo che in tanti, anche a sinistra, siano a favore del “merito” perché lo leggono come il contrario di “favoritismo”. E c’è chi come il rettore piddino dell’Università di Bologna che ama ripetere come meritocrazia fa rima con democrazia, anche se non è vero. Altri, specie a destra, l’hanno strategicamente contrapposto a una forma di egualitarismo anarcoide, inetto e sorpassato.
In realtà l’idea di “merito” e “meritocrazia” mi paiono le più semplici per confluire, anche da sinistra, verso politiche scolastiche (e non solo) artistocratiche e di destra, orientate sempre di più verso individualismi privi di responsabilità. Come non accorgersi che l’idea di “merito/meritocrazia” è oggi sempre più spesso utilizzata per giustificare non solo dubbie differenze, ma anche palesi ingiustizie? Per esempio, tra chi ha un diritto e chi non lo ha? O tra chi ha accumulato di più e di meno? O tra chi è più o meno servile? Il vero contrario alla parola merito non è favoritismo, o clientelismo, quanto piuttosto uguaglianza, pari opportunità. Cerchiamo di non farci colonizzare dal linguaggio e dall’ideologia di coloro rispetto ai quali diciamo di sentirci alternativi.