martedì 31 luglio 2012

Vincenzo Guerrazzi, pittore e scrittore operaio

Claudio Panella

“Caro Guerrazzi
… qualcuno vorrebbe farti passare per un naïf. Un naïf non ha niente della tua pertinacia né delle tue scelte: egli va sul quadro a blocchi, con zone compatte di colore, con gli accenti e le abbreviazioni del guardare volgare, dell’intendere per modelli e proverbi dialettali: non cerca come te di istruirsi ed istruire, ma di raccontare un’altra volta la stessa favola sempre ripetuta. Il naïf racconta la favola rotonda, interminabile e fissa di un ambiente: proprio quello che tu vuoi sfuggire, rompere con la tua istruzione e con la pittura. Tu vuoi diventare un interprete della tua società, ma staccato, in posizione colta, per poterne essere insieme il riformatore e il maestro.
Come è già precisamente avvenuto negli altri tuoi lavori di cultura, nei tuoi libri e scritti, la prima verità che vedi dalla tua postazione di artista, è l’ingiustizia sociale, il peso e la stortura della piramide capitalistica: come prima la letteratura e adesso la pittura devono servirti e servire per la denuncia sociale. In tal modo puoi regolare meglio i tuoi debiti con la tradizione e cercare proprio di intervenire nei suoi conti finali. Tiri fuori quindi l’operaio che ha numeri e conti oggettivi e propri, del tutto diversi, addirittura incompatibili con quelli del bilancio tradizionale. Ma più che su questa sacrosanta incompatibilità, tu lavori e con rancore, o meglio, proprio per il tuo rancore, sulla diversità” (Paolo Volponi)


A giudicare dallo scarso rilievo che i media nazionali hanno dato alla scomparsa di Vincenzo Guerrazzi, morto il 22 giugno scorso a Genova a quasi 72 anni, sembra che non siano in molti a ricordare il capofila della così detta letteratura selvaggia, un’espressione che fu molto utilizzata a proposito dei primi volumi dello scrittore operaio, e che peraltro a lui andava assai stretta. Negli anni Settanta Guerrazzi e altri autori della medesima estrazione, come Tommaso Di Ciaula con il suo Tuta Blu (1978), vissero e raccontarono con rabbia le condizioni di lavoro e le lotte di quello che veniva definito l’operaio-massa, una figura introdotta nel campo letterario da Nanni Balestrini con Vogliamo tutto (1971), libro sicuramente decisivo nell’incoraggiare molti operai e militanti a raccontare direttamente le loro esperienze.
Come l’Alfonso Natella cui Balestrini si ispirò per il suo romanzo, emigrato dalla Campania a Torino, anche Vincenzo Guerrazzi era nato al Sud, a Mammola, nel 1940. Trasferitosi poi a Genova aveva trovato lavoro all’Ansaldo, dove rimase dal 1958 al 1974. Questa esperienza di operaio è al centro di tutte le sue scritture degli anni Settanta, intraprese in un primo tempo su fogli di fabbrica e sulle pagine locali de Il Secolo XIX. Già nei primi anni Settanta, Guerrazzi si rivolse a diverse case editrici perché pubblicassero i suoi testi. Nel 1972 raccolse alcuni racconti in un libro dal titolo Vita operaia in fabbrica: l’alienazione di cui fece stampare alcune centinaia di copie. Nel 1974 riuscì a pubblicare Le ferie di un operaio per Savelli con una prefazione di Goffredo Fofi (ristampato da Ilisso-Rubbettino nel 2006) e Nord e sud uniti nella lotta nella collana «collettivo» diretta per Marsilio da Nanni Balestrini e Pietro A. Buttitta (ristampato da F.lli Frilli nel 2003).
Quest’ultimo romanzo racconta il viaggio in nave da Genova a Reggio Calabria degli operai che parteciperanno alla manifestazione promossa dai metalmeccanici nell’ottobre 1972 in seguito ai così detti «moti di Reggio». A causa del suo linguaggio osceno e del contenuto giudicato sovversivo, Nord e sud uniti nella lotta fu oggetto di polemiche (anche da sinistra e nel mondo sindacale) nonché di un tentativo di sequestro ordinato dal procuratore generale della Repubblica di Catanzaro, con l’effetto di far circolare ancora di più il nome dell’autore sulle pagine di molti giornali. Alla fine dello stesso anno, Valerio Riva diede gran risalto su «l’Espresso» a un altro lavoro di Guerrazzi, un’inchiesta sulla cultura e gli operai che uscì sempre per Marsilio col titolo L’altra cultura (1975) e fu seguita da due volumi analoghi, I dirigenti (1976), edito da Mazzotta e Gli intelligenti (1978), edito da Marotta dopo decine di altri rifiuti e dedicato agli intellettuali.
Nel 1975 Guerrazzi lasciò la fabbrica per potersi dedicare a tempo pieno alla scrittura e anche alla pittura, un’attività che ha proseguito per tutta la vita. Sostenuto da ricorrenti articoli di Riva su «l’Espresso», fu presentato allo Strega 1976 da Luigi Malerba e Nanni Balestrini che gli pubblicarono col marchio della Cooperativa scrittori e la promozione editoriale dell’Area il volume La fabbrica del sogno (1977). Escluso dalla cinquina dello Strega 1976 per un solo voto, o almeno così si disse, Guerrazzi pubblicò su «l’Espresso» una Lettera d’amore a Maria Bellonci di un metalmeccanico rifiutato allo Strega in cui rivendicava con sarcasmo la sua identità irrimediabilmente proletaria.

sabato 28 luglio 2012

La potenza della metafora sportiva

di Giorgio Mascitelli

Prosegue la saga dei grandi  eventi sportivi, dopo gli Europei di calcio ieri sera si sono aperte le Olimpiade di Londra. L’articolo di Mascitelli ci sembra giungere opportunamente perché, sia pur nella sua brevità, fa il punto sul linguaggio sempre più intrecciato tra politica e sport e sugli effetti comunicativi che esso determina sul piano sociale. Ci sia consentita una nostra noticina sull'appuntamento londinese, per l'approfondimento del quale rinviamo alle due parti del sociologo Nicola Montagna bloggate in data odierna. Come ben sappiamo nell’antica Grecia le Olimpiade erano un momento di sospensione delle belligeranze, anzi spesso erano occasione per giungere alla cessazione delle guerre e alla stipula di trattati di pace sanciti – diremmo oggi – dalla comunità internazionale presente ai giochi. Lo spirito era assolutamente antidecubertiano: si partecipava per vincere. Le Olimpiade moderne, fatta salva l’ipocrita massima dell’ingenuo aristocratico parigino, invece hanno accompagnato il XX secolo (e chissà per quanto tempo ancora) all’insegna di uno stato di guerra permanente, consegnandoci ben due conflitti mondiali, ed inasprendo le atrocità  belliche via via, sino ai giorni nostri, con conflitti a bassa densità chiamate “operazioni di polizia internazionale” . Ma ancor di più, così come gli altri grandi eventi sportivi di enorme impatto mediatico, esse riproducono - esaltandola - l’ideologia della competizione, in cui a vincere è il più forte, esattamente come avviene nella partita economica che domina le nostre vite, giuocata sul campo dei mercati, dove “naturalmente” chi perde non potrà attribuire che a se stesso le proprie debolezze: greci, spagnoli, italiani e "piigs" vari sono avvisati
Nei giorni successivi a uno dei vertici europei, che nei giorni precedenti al suo svolgimento era stato presentato come risolutivo, due dei protagonisti di questo stesso vertice, il presidente del consiglio Monti e il ministro delle finanze tedesco Schaeuble, invitavano l’opinione pubblica a non interpretare i risultati del vertice e più in generale la crisi finanziaria in termini di risultati sportivi e in particolare calcistici. Se anche teniamo in considerazione le contingenze che hanno indotto i due importanti dirigenti a questa specificazione, resta comunque sorprendente il fatto che si sia sentito il bisogno ai massimi livelli dell’Unione Europea di rassicurare il pubblico su quella che dovrebbe essere un’ovvietà ossia che i risultati di un vertice economico non sono in alcun modo assimilabili ai risultati di una competizione sportiva.
Che il linguaggio della cronaca sportiva sia diventato una fonte metaforica fondamentale nella gestione della comunicazione della politica economica e di quella classica tout court non è certo una novità di oggi ( tutti abbiamo assistito a presentazioni di squadre e a rimonte spettacolari di un candidato, alle prestazioni deludenti o esaltanti delle borse, a casi di doping amministrativo o fiscale), ma le dichiarazioni dei due leader attestano piuttosto il timore di un’autonomizzazione della metafora dal referente: infatti le rappresentazioni metaforiche, specie se inesatte, sono utili a comunicare certe cose e a nasconderne altre, ma quando prendono un pò troppo la mano finiscono con il rendere comprensibile ciò che si voleva nascondere e viceversa. Non ne ho le prove filologiche, per così dire, ma ritengo che la diffusione sistematica delle metafore sportive in questo ambito risalga probabilmente alla diffusione nelle tecniche spettacolari di quello che potremmo chiamare il metodo della classifica permanente ossia lo sviluppo dei sondaggi d’opinione, preferibilmente con esiti choc, come mezzo di pressione e controllo.
Ormai le metafore sportive stanno raggiungendo e probabilmente doppiando la famiglia di metafore finora principe nella gestione della crisi quelle che fanno riferimento all’ambito scolastico­-ospedaliero o, se si preferisce, della cura di sé. Proprio il passaggio da una famiglia di metafore di tipo fondamentalmente paternalistico come quella scolastica e sanitaria a una di tipo agonistico rivela implicitamente la profondità della crisi che stiamo vivendo e le difficoltà nella sua gestione. Nella prima è ancora implicita una promessa di salvezza per tutti.
Comunque nel suo genere iI vantaggi della metafora sportiva sono molteplici: innanzi tutto essa prepara il pubblico al fatto che ci saranno dei vincitori e dei perdenti esattamente come quest’anno i bianconeri hanno avuto la meglio sui nerazzurri e sui rossoneri, che però avranno la possibilità di rifarsi l’anno prossimo (che in una crisi come questa la prossima stagione arriverà dopo tanto tempo, è un dettaglio talmente ovvio che nessuno sente il bisogno di precisarlo); in secondo luogo induce l’idea che ogni esito è frutto di una competizione regolare in cui di solito vince il migliore perché tutti i concorrenti sono partiti con le stesse possibilità e quindi consente di mantenere una fiduciosa attesa nei confronti del mondo così come esso è (immaginiamoci, al contrario, se certi fasi dell’attuale crisi fossero state descritte con maggiore pertinenza con metafore tratte dalla cronaca nera anziché da quella sportive, che so venti bulli che si scatenano contro un extracomunitario addormentato su una panchina); infine la metafora sportiva ci abitua gradualmente a quella che potrebbe essere la famiglia successiva, se proprio le cose si mettessero molto male, quella bellica.

Fonte:www.alfabeta2.it

Olimpiadi 2012: qualcuno le ha già vinte. Costruzioni, sponsor e sicurezza: i conti in tasca al grande evento mediatico-"sportivo" dell'estate

da Londra – prima puntata
di Nicola Montagna *

Con questo articolo Globalproject comincia ad offrire uno sguardo critico sull'evento dell'estate per eccellenza, le Olimpiadi 2012, celebrato in quella Londra che costituisce una delle capitali globali della finanza e della sua crisi.
Atre giorni dalla partenza del circo olimpico, tra una lite su chi deve essere l’ultimo tedoforo e le recenti polemiche che hanno investito G4S, la vincitrice dell'appalto sulla sicurezza, si cominciano a fare i conti dei benefici economici che l’Olimpiade dovrebbe portare alla atrofizzata economia inglese.
Raramente le Olimpiadi si rivelano un affare economico per il paese o la città che le ospitano. A questo proposito è fin troppo facile ricordare lo stato in cui versa l'economia della Grecia e le condizioni di abbandono di gran parte degli impianti sportivi ad otto anni dalle Olimpiadi di Atene. In generale, gli studi che enfatizzano i possibili profitti generati dai grandi eventi sportivi ignorano una serie di variabili, come l’effetto-sostituzione, per cui chi spende nell’evento non spende per altri beni, o il fatto che molti dei profitti finiscono nelle tasche di multinazionali più che in quelle delle comunità locali. Questi studi ignorano inoltre una serie di effetti collaterali, come l'impatto ambientale o l'espulsione di gruppi 'indesiderati' dalle zone dove l'evento ha luogo.
Anche nel caso di Londra, i guadagni, se ci saranno, difficilmente rimarranno nelle tasche della popolazione della capitale ma andranno ad ingrossare i già lauti profitti delle grandi multinazionali che hanno partecipato alla spartizione della torta economica olimpionica. Innanzitutto, chi guadagnerà dalle Olimpiadi saranno le grandi imprese che hanno vinto gli appalti per la costruzione del Villaggio olimpico, dato che i costi sono lievitati dai 2.4 miliardi di sterline preventivati nel 2005 agli attuali 9.3 miliardi. Si tratta di un primo record assoluto, in attesa di assistere a quelli dei vari Bolt, Philips e colleghi. Infatti, come ha dimostrato uno studio della Oxford University la media di sovraspese per tutte le precedenti olimpiadi a partire dal 1960 è stata del 179%. Nel caso di Londra la cifra è quasi quadruplicata.
In secondo luogo, dalle Olimpiadi guadagneranno gli 11 sponsor globali, noti anche come Top Olympic Partners, che hanno potuto sborsare grosse somme di denaro all'International Olympic Committee, il comitato promotore, per assicurarsi il diritto di usare il brand olimpionico sui loro prodotti. Alcuni di questi sponsor hanno visto il valore delle proprie azioni crescere ad un passo superiore da quando hanno acquisito i diritti di sponsorizzazione nel 2009 rispetto ai dieci anni precedenti. In questi anni di crisi economica e crollo dei mercati finanziari, la Coca-Cola ha avuto un incremento annuo del 4,6%, la Visa del 24,2%, Samsung del 12,7%. Ed anche se altri sponsor hanno visto il valore delle azioni scendere, dal minimo di McDonald con -1,2% al massimo di Panasonic con -11,1%, le perdite nette sono inferiori a quelle medie subite dai mercati in questi anni.
Quindi, nonostante le buone intenzioni di David Cameron, che ha assicurato un profitto per il paese di almeno 13 miliardi di sterline e per le giornate delle Olimpiadi ha organizzato ben diciassette summit internazionali con altrettanti capi di stato e primi ministri, lo scetticismo sui possibili benefici economici ha tutte le ragioni per prevalere. Ed è interessante osservare che anche secondo i più importanti giornali economici anglosassoni come il Financial Times e l’Economist, i giochi di Londra non saranno un'eccezione alla regola secondo cui gli eventi sportivi producono un saldo negativo, dove alcuni, pochi, guadagnano e molti perdono. Piuttosto stupisce che i critici più accesi siano i tradizionali giornali degli interessi del capitale finanziario globale.




Che cosa resterà delle Olimpiadi? La cosiddetta “eredità sociale” dei Giochi nei quartieri investiti dal grande evento

London calling – seconda puntata
di N. M.
 
L'East End, sede dei Giochi olimpici, è la patria delle contraddizioni e, di conseguenza, l'espressione migliore della Londra contemporanea. Innanzitutto, è una zona ampia e dai contorni non ben definiti. Si estende dalla City di Londra, il cuore della finanza globale, e Shoreditch, zona di clubs, vita notturna e ravers, e finisce a Stratford, nella municipalità di Newham, dove è stato costruito il villaggio olimpico e si trova Westfield, il più grande shopping centre d'Europa. Da sud verso nord, parte dalla riva nord del Tamigi ed arriva al confine meridionale di Hackney, quartiere storicamente operaio e di sinistra, ed uno dei luoghi dove le rivolte del 2011 sono state più violente.
All'interno di questo perimetro si trovano alcune dei locali più alla moda di Londra, la “vecchia” City finanziaria e quella nuova che ha sede nella torre di Canary Wharf, gallerie d'arte importanti come la White Chapel Gallery e decine di altre, minori ma molto attive, ed operano nel settore dell'Information Technology 3.000 imprese che impiegano 50.000 persone. Ma allo stesso tempo, nell'East End si trovano in numero elevato alcune delle comunità etniche più svantaggiate, come quella bengalese, mentre Tower Hamlets e Newham, dove la popolazione white british è il 32% circa, sono due tra le zone più deprivate del Regno Unito in termini di reddito, occupazione, salute, ed altri indicatori che indicano il benessere di una popolazione.
In questi mesi ed anni si è parlato molto della cosiddetta legacy, dell'eredità che le Olimpiadi lasceranno su un'area che, come si è visto, è molto diversificata al suo interno, ha alti tassi di disoccupazione e racchiude aree di disagio sociale tra le più alte del paese. Secondo i sostenitori dei Giochi l'impatto sarà positivo per le popolazioni locali che potranno godere di un'area rigenerata da nuove infrastrutture, trasporti, impianti sportivi ed abitazioni, il 35% delle quali ad un prezzo calmierato, che equivale all'80% dei prezzi di mercato.
I critici ritengono invece che finora l'impatto sia stato negativo, la costruzione delle sedi dei giochi ha coinvolto pochissimo o nulla l'economia locale, e il futuro utilizzo degli impianti sportivi resta un'incognita. Inoltre, anche quelle abitazioni che verranno messe sul mercato a prezzi calmierati, se mai accadrà, in ogni caso avranno costi che la maggioranza della popolazione locale non potrà permettersi.
Per il momento l'impatto sociale ha avuto un saldo negativo. Per fare spazio alle sedi olimpiche, non si è costruito solo su siti industriali abbandonati ed in condizioni di sfascio, ma sono state sgomberate case, aziende, impianti sportivi ed espulse dall'area centinaia di persone. Games Monitor, una rete di attivisti che in questi anni ha seguito con occhio critico la costruzione del Villaggio olimpico ed il suo impatto sociale, ha fatto un parziale censimento delle “eredità” che finora possono essere attribuibili alle olimpiadi. Tra queste si possono menzionare la chiusura del Clays Lane Peabody Estate e la rimozione dei suoi 425 abitanti e quella di due siti di Gypsy e Traveller, con conseguente espulsione degli occupanti. Ma probabilmente, l'effetto negativo principale sarà la distorsione del valore delle case nelle immediate vicinanze del Villaggio olimpico e quindi l'abbandono dell'area da parte di chi non potrà reggere i nuovi prezzi.
Come tutti i grandi progetti legati ad eventi sportivi di questo tipo, anche in questo caso i maggiori beneficiari non saranno certo le popolazioni locali, e tanto meno la composizione sociale a più basso reddito.

 *docente di sociologia - Middlesex University - Londra








sabato 21 luglio 2012

Qualche questione sullo stato dei movimenti: apriamo la discussione

di Toni Negri

“Nella loro lunga storia, i movimenti italiani si sono essenzialmente espressi (successivamente o simultaneamente) in tre “luoghi” della pratica politica: nelle fabbriche, nelle università e nei centri sociali… tre luoghi “storici” dell’autonomia sociale, che hanno reso possibile la resistenza e l’organizzazione, la sperimentazione di pratiche, l’invenzione di altri modi d’azione; ma tre luoghi che, proprio perché “storici”, sembrano oggi sempre più inadeguati... L’autonomia dei movimenti deve riportare le sue lotte verso un obiettivo politico di composizione. Ed esso non può consistere se non nell’espressione di un potere costituente che rinnovi radicalmente l’organizzazione della vita nel lavoro e nella società”. Secondo Negri questa è l’unica direttrice su cui il comune potrà inverare la sua dinamica costitutiva, lasciandosi definitivamente alle spalle l’eredità del conflitto del novecento, senza cedere a modelli nostalgici legati ad altre condizioni storiche dello sfruttamento della cooperazione sociale. Abbiamo bisogno di nuove narrazioni: i Don Camillo e i Peppone saranno pure dei simpatici personaggi ma sarà bene non scomodarli più dai luoghi della memoria
Alcuni compagni americani ed europei mi chiedono: ma perché in Italia non c’è stata Occupy? Perché l’unica espressione della moltitudine in lotta rimane attualmente il movimento della Val di Susa? Con un paradosso evidente: i no TAV, se hanno certamente radicamento forte, se esprimono una tonalità originale di lotta di classe nella post-modernità, non possiedono le caratteristiche dei movimenti Occupy – un’espansività generale della proposta sociale, una potenza destituente delle vecchie gerarchie della rappresentanza – e soprattutto non possiedono ancora realmente una dinamica allargata di costituzione politica “comune” che apra a radicali rivolgimenti politici…
Ora il paradosso è anche un altro. Perché porsi questa domanda proprio quando la dinamica di Occupy sembra già esaurita? Più generalmente: quando le primavere arabe sono in buona parte terminate sotto il tallone dei militari, nella tragedia della guerra civile o, dulcis in fundo, hanno prodotto regimi islamici che sembrano annunciare restringimenti di libertà e di pratiche politiche appena riscoperte, restaurazioni del vecchio sotto gli orpelli, semmai più tremendi di quelli delle vecchie dittature, del teologico-politico? Quando i movimenti europei sono stati soffocati dalla mefitica atmosfera della crisi economica, e quelli americani sono lì lì dall’essere assorbiti dalle macchine politiche che dominano ormai interamente le scadenze elettorali?
Ma forse la realtà può essere letta altrimenti. Il movimento Occupy, laddove è insorto, quand’anche fosse stato sconfitto, ha rinnovato l’orizzonte dell’azione politica, sconvolgendo il fondamento dei programmi costituzionali e imponendo una nuova immagine della democrazia, affermando il “comune” al centro – nel cuore, e all’orizzonte – di ogni progetto sociale. Occupy è il movimento che più sembra aver approssimato l’esperienza della Comune di Parigi: ha segnato un passaggio senza reversibilità alcuna; ha, fin dentro la sua sconfitta, spalancato un insieme di possibili che ridefinisce d’ora in poi il mondo che verrà. In questo senso, ha vinto: ha costituito nuova grammatica politica del comune. Da Occupy non si torna in dietro.
Torniamo allora al punto. Perché dunque in Italia non c’è stata Occupy? La questione è irrilevante dal punto di vista della tendenza; è invece importante se vogliamo capire localmente l’agenda politica che avremo da gestire nei prossimi mesi – un’agenda i cui effetti immediati, concreti, biopolitici, riscontrabili nella materialità delle esistenze, dei modi di vita, dei sogni e delle disperazioni, non possono – non debbono – essere ignorati.
In Italia, probabilmente, non c’è stata Occupy perché, in buona parte, i movimenti italiani non hanno ancora superato l’orizzonte socialista novecentesco: questa loro continuità, ed il peso della loro tradizione, soffoca il nuovo regime dei desideri, delle aspirazioni, delle sperimentazioni – insomma di quello che abbiamo chiamato le nuove potenze costituenti del comune – che pure le nuove generazioni portano con sé quando si aprono al politico. Quella continuità ha fatto dell’Italia un paese in cui la politica dei movimenti, nonostante le repressioni feroci, è sopravvissuta a se stessa e ha permesso la trasmissione di esperienze e saperi delle lotte essenziali; ma allo stesso tempo, ha paradossalmente impedito che nuove sperimentazioni si facessero strada. Il patrimonio delle lotte, cosi prezioso, non può diventare patrimoniale: se cede alla tentazione, diventa a sua volta ciò di cui tanto aveva sofferto in altri tempi: istanza di occultamento, obbligo di silenzio, volontà di cecità.
Nella loro lunga storia, i movimenti italiani si sono essenzialmente espressi (successivamente o simultaneamente) in tre “luoghi” della pratica politica: nelle fabbriche, nelle università e nei centri sociali.
Ora, però, nelle fabbriche sono spesso schiacciati da una improvvida alleanza che essi stessi hanno tentato con l’organizzazione socialista del mondo del lavoro. Solo raramente l’ideologia della produttività è stata assunta nelle fabbriche come il nemico da combattere; quando lo è stata, ce ne siamo scordati. La trasformazione del lavoro a cavallo fra XX e XXI secolo non è stata riflettuta per quello che effettivamente è (e che i movimenti, precisamente, trent’anni fa, hanno contribuito a rendere evidente): una trasformazione radicale – dall’operaio massa all’operaio sociale; dal lavoro materiale al lavoro “immateriale”, linguistico, cooperativo, affettivo; fino all’egemonia del lavoratore cognitivo. Sindacati socialisti e sindacatini fabbrichisti hanno troppo spesso continuato a considerare il lavoro “bene comune”, cioè niente di più – e niente di meno – che la “giusta misura” dello sfruttamento capitalista.
Nelle scuole e nelle università, poi, l’autonomia dei movimenti, anche quando ha contestato il “merito” – e troppo poche volte lo ha fatto in maniera realmente efficace e schietta – non è quasi mai riuscita a incarnare, materializzare e organizzare una vera domanda di libertà dei saperi. Raramente ha provato a costruire lotte attorno allo studio, alla formazione, alla qualificazione in quanto programmi di costruzione politica del comune. E spesso si è arenata nella strenua difesa di un “pubblico” ormai incapace di proteggere le scuole e l’università contro il loro smantellamento, e diventato strumento principe della messa al lavoro della produzione sociale. Il riformismo non è mai cosa bella – in alcuni casi, facendosi coraggio, lo si capisce quando, disperatamente, cerca di salvare il salvabile; ma lo si odia quando si fa complice delle politiche del peggio: assoggettamento, declassamento, disciplinarizzazione, sfruttamento, disprezzo – il tutto per salvare uno Stato che sembra poco preoccupato di salvare i suoi “cittadini”.
Quanto al modello dei centri sociali, che è stato fondamentale – in particolare nella fase post-repressione che ha caratterizzato il difficile guado dalla fine degli anni ’70 ai primi anni dei ’90, ha troppo spesso perso ogni prospettiva politica che non fosse subordinata all’interesse della propria riproduzione, della propria sopravvivenza. I centri sociali sono stati, per la maggiore, luoghi, strumenti, prodotti di una stagione di lotte continuata con altri mezzi nonostante la sconfitta degli anni ’70; ma sono diventati, in tanti casi, il fine di se stessi – l’unico orizzonte di una realtà ormai ridotta al proprio desiderio di permanere in qualsiasi modo. Molti si sono dunque piegati alla dura legge dell’imprenditorialità, perdendo man mano ogni prospettiva politica. Hanno smarrito ogni capacità di azione e non a caso stanno spesso, negli ultimi anni, ripiegando su linee istituzionali a livello locale e/o nazionale. Certo, localmente, l’analisi può sembrare ingiusta. In molti casi, lo è. Ma la domanda va posta lo stesso: siamo sicuri che il modello “slow food” sia davvero adeguato alle scommesse e alle sfide davanti alle quali la crisi ci mette? O che l’imprenditorialità “buona” basti a dimenticare il gioco al massacro che si sta svolgendo subito fuori dalle mura, nelle nostre vite?

giovedì 19 luglio 2012

Gli intellettuali “di sinistra” e la crisi della zona euro

di Emiliano Brancaccio

se salta la moneta unica, occorre rendere esplicito che ai paesi periferici dell’Unione potrebbe convenire far saltare anche il mercato unico europeo” questa potrebbe essere la terza via su cui far leva per rinegoziare i rapporti di forza  nella governance europea, per uscire dalla morsa tedesca sostenuta dalla troika liberoscambista, della quale il governo-Monti  ne rappresenta l’irriducibilità economico-politica e che molto probabilmente passerà alla storia – concordando con l’ipotesi di Brancaccio – “come un co-fattore non trascurabile dei ripetuti fallimenti delle trattative europee di questi mesi”. In questa chiave di lettura si potrebbe avviare una discussione per verificare la possibilità affinché venga superata la diatriba tra quanti a sinistra sostengono la difesa dell’eurozona e quanti auspicano invece un ritorno alla moneta sovrana

Man mano che la crisi della zona euro si aggrava, tra gli imprenditori italiani e persino negli ambienti della destra “rispettabile” inizia a far capolino l’ipotesi di una uscita dell’Italia dalla moneta unica. Come quasi sempre accade, allora, per riflesso pavloviano anche gli intellettuali e gli economisti di “sinistra” si vedono costretti a uscire dalle consuete ambiguità retoriche e ad assumere posizioni più chiare sul da farsi. Vari articoli pubblicati di recente, così come un seminario sulla crisi organizzato pochi giorni fa dalla Fondazione Di Vittorio e dall’ARS, hanno dato conto di questa tendenza.
Semplificando al massimo, tra gli intellettuali di sinistra, inclusi gli economisti, possiamo riconoscere due posizioni prevalenti.
Alcuni di essi ritengono che una deflagrazione della zona euro determinerebbe una catastrofe economica talmente violenta da condurre l’intera Europa sull’orlo di un conflitto bellico. La loro tesi è che l’Unione economica e monetaria rappresenta una condizione necessaria per garantire la pace tra i popoli europei. Chiunque si azzardi a evocare la possibilità di un’uscita dall’euro viene quindi immediatamente considerato un avventuriero irresponsabile, potenzialmente un guerrafondaio. In verità questi studiosi non forniscono chiare evidenze a sostegno dei loro anatemi. Nel libro L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa (Il Saggiatore, Milano 2012) abbiamo rilevato che la tesi secondo cui le unioni economiche e monetarie - e più in generale il liberoscambismo - garantirebbero la pace tra le nazioni, non trova adeguati riscontri storici. Abbiamo ricordato, in proposito, che alla vigilia del primo conflitto mondiale sussisteva piena libertà di circolazione dei capitali e vigeva un sistema di cambi fissi vincolante quasi quanto l’euro.
Anziché lanciare apodittici strali di accuse, dunque, gli intellettuali che intendono difendere la zona euro a tutti i costi farebbero meglio a fornire argomenti più convincenti a sostegno delle loro posizioni. In particolare, essi dovrebbero dirci se ritengono che, pur di restare nell’eurozona, dovremo in futuro adattarci a qualsiasi possibile divario tra tassi d’interesse e tassi di crescita del Pil nominale (con buona pace per la praticabilità di qualsiasi cosa possa vagamente somigliare a una politica economica “alternativa”, espressione che viene tuttora ripetuta come un mantra negli ambienti di sinistra). A questo proposito, bisognerebbe tener presente che negli anni Trenta furono proprio i vani tentativi di Bruning di ripagare i debiti esteri a colpi di deflazione che crearono le condizioni materiali per l’ascesa di Hitler al potere. Insomma, gli strenui apologeti della zona euro “in nome della pace” farebbero bene a considerare la possibilità che il terreno favorevole alla proliferazione del bellicismo lo stiano preparando proprio loro. Eventualità spiacevole come tutte le eterogenesi dei fini, ma tutt’altro che improbabile.
Nell’arcipelago degli intellettuali ed economisti di sinistra c’è però anche una posizione alternativa. Questa è sostenuta da chi ritiene che da un’uscita dalla zona euro si potrebbero trarre molti più vantaggi che svantaggi. Questa tesi viene in genere supportata con evidenze tangibili per l’Italia e per almeno alcuni degli altri paesi periferici dell’Unione. Ci sono tuttavia diversi aspetti, di tale posizione, che appaiono lacunosi e che andrebbero chiariti meglio. 1) In primo luogo, il trapasso da un sistema di cambi fissi a un sistema di cambi flessibili viene solitamente anticipato e seguito da ingenti fughe di capitale all’estero. Una più agevole gestione della transizione richiederebbe allora il ripristino di efficaci meccanismi di controllo dei movimenti di capitale. 2) In secondo luogo, bisognerebbe tener conto del fatto che l’uscita dall’euro potrebbe comportare una caduta della quota salari e dello stesso potere d’acquisto dei salari anche in presenza di un’inflazione moderata. Se la dinamica dei rapporti di forza tra le classi sociali genera salari nominali stagnanti o addirittura declinanti, gli effetti di un’uscita dall’euro sui prezzi e sulla distribuzione potrebbero risultare tutt’altro che trascurabili. La caduta della quota salari negli anni successivi all’uscita dallo Sme è indicativo, in questo senso. Affermare che tale andamento sia stato dovuto all’accordo sul costo del lavoro, senza alcun nesso tra questo e lo sganciamento dal sistema dei cambi fissi, mi fare francamente azzardato. Il problema che dunque si pone, almeno dal punto di vista degli interessi del lavoro subordinato, consiste nella individuazione di criteri che consentano di evitare che il peso di un deprezzamento del cambio si scarichi interamente sui salari. L’ideale, naturalmente, sarebbe il ripristino di meccanismi di indicizzazione dei salari e di controllo amministrativo di alcuni prezzi “base”. Ma anche la  ricerca di alleanze finalizzate alla reintroduzione di limiti alla libera circolazione delle merci, che consentano di controllare maggiormente la dinamica del cambio, è una delle opzioni possibili. 3) Infine, un terzo aspetto che andrebbe meglio specificato è quello relativo al valore dei capitali nazionali. La letteratura sui “fire sales” successivi a una svalutazione segnala che i prezzi antecedenti a un deprezzamento scontano solo in parte gli effetti del medesimo. Ciò implica che dopo una eventuale uscita dall’euro il valore degli assets nazionali potrebbe precipitare ulteriormente, al punto da creare condizioni favorevoli per acquisizioni estere a buon mercato. Pertanto, se si vuole che l’uscita dall’euro non venga fatta coincidere con una perniciosa svendita di capitali nazionali, bisognerebbe limitare anziché favorire le acquisizioni estere. In altri ambiti già si discute apertamente di questi problemi. Sarebbe il caso che anche a sinistra venissero affrontati.

mercoledì 18 luglio 2012

Lettera aperta alle opposizioni a Monti

Coordinamento del Comitato NoDebito

Questa lettera giunge in un momento in cui le difficoltà di resistenza contro le manovre di politica economica, varate dal governatorato più destro del neoliberismo dominante nell’area occidentale dell’impero, si appalesano in tutta la loro drammaticità per gli effetti sociali devastanti che le misure dei tecnocrati stanno provocando: impoverimento del sistema pensionistico, spending review (con la riduzione dei servizi sociali ed in primo luogo della sanità pubblica), articolo 18 e riforma del mercato del lavoro, ovvero tagli netti definitivi di quel che era rimasto del welfare-state oramai incompatibile con le regolazioni normative del fiscal compact. Orbene, alla luce di un attacco di dimensione così epocale, sarà mai possibile rimettere insieme i pezzi del movimento conflittuale che senza rinunciare alla loro autonomia possano tuttavia costituire un indirizzo non solo d'un modello alternativo di sviluppo ma anche d’individuazione di pratiche costituenti altra società?
Ci rivolgiamo a tutte le organizzazioni, movimenti, persone che in questi mesi hanno maturato o hanno confermato un'opposizione di fondo al governo Monti e alle controriforme da esso fatte, in atto o annunciate. A chi si oppone a tutta la politica di austerità europea che ispira il governo e rifiuta il pareggio di bilancio nella Costituzione, il fiscal compact, i patti di stabilità che distruggono lo stato sociale.
Ci rivolgiamo a chi sinora ha lottato e lotta contro le terribili conseguenze sociali e civili della politica del governo.
Ci rivolgiamo a chi rifiuta l'idea di una democrazia sospesa e in via di esaurimento e quella di un governo sottoposto al voto dello spread e dei mercati, invece che a quello dei cittadini
La nostra proposta è di incontrarci per costruire in autunno una grande manifestazione nazionale che abbia lo scopo di mostrare in Italia ed in Europa che l'opposizione al governo Monti esiste e che, senza sottovalutare la portata e l'effetto dei colpi subiti, non intende rinunciare alla lotta, ma anzi vuole ripartire.
Oramai è chiaro che la politica del governo è destinata a continuare. Il Presidente della Repubblica, verso il quale fortissima è la nostra critica, ha già affermato che chiunque vinca le prossime elezioni, il programma di austerità che produce il massacro sociale dovrà continuare e nessuna delle forze politiche che sostengono il governo ha detto cose diverse. Lo stesso pretendono la Bce, il governo tedesco, la finanza e il grande capitale multinazionale.
Per questo non si può pensare che ci sia solo da aspettare che finisca la nottata: senza la ripresa di un movimento sociale e politico di opposizione essa non finirà, mentre oggi la mobilitazione in Italia contro la politica unica europea è tra le più basse del continente e della nostra storia.
Per questo proponiamo un incontro che abbia come discriminante netta il no alle politiche di austerità in Italia e in Europa e al governo Monti e dunque l'indipendenza e l'opposizione rispetto a tutte le forze politiche che lo sostengono. Questo in unità con tutti coloro che, a partire dalla Grecia e dalla Spagna, le combattono e in collegamento con l'assemblea dei movimenti prevista a Madrid per settembre.
Sappiamo che il 15 ottobre del 2011 ha prodotto divaricazioni e rotture ancora non ricomposte ed è evidente che per superarle ed evitare che si ripetano occorrerà un confronto leale e con garanzie reciproche che nessuno eserciterà primogeniture, egemonie, forzature.
Conosciamo e viviamo le difficoltà, ma chiediamo di provarci.
In pochi mesi il governo Monti ha distrutto il sistema pensionistico pubblico, ha cancellato l'articolo 18, ha messo in liquidazione sanità e scuola pubblica, si prepara alla vendita all'incanto dei beni comuni, mentre disoccupazione, precarietà, supersfruttamento dilagano nel lavoro privato come in quello pubblico. Il sostegno della maggioranza di unità nazionale e della grande informazione, la passività e la subalternità di Cgil, Cisl e Uil lasciano il campo libero ai poteri forti mentre cresce un vuoto terribile nel quale sempre più persone vivono isolamento e frustrazione.
Dobbiamo reagire assieme per pesare e per farlo dobbiamo incontrarci per provare assieme a decidere.


martedì 17 luglio 2012

Lo Stivale dei mercati

di Alessandro Dal Lago

Dopo la credibilità riconquistata sulla scena europea, dopo le derisioni subite per le sceneggiate berlusconiane, il governatorato italico, incarnato oggi dai tecnici salvifici chiamati al capezzale dello stivale malato, continua coerentemente nella linea servile neomilitarista (mai venuta meno, indifferentemente dalla compagine esecutiva al comando -sia di centrodestra o di centrosinistra) perseguita nello scacchiere internazionale sin dalla prima guerra del golfo. Si tagliano le spese “improduttivi” sociali ma si confermano le spese “necessarie” (acquisto di droni e cacciabombardieri) alla difesa dell’Impero
Con la fine della guerra fredda, nel 1989, lo spauracchio dell’apocalisse atomica è finito. In cambio, però, i conflitti armati a partecipazione occidentale si sono moltiplicati, alle media di uno ogni tre anni, fino a diventare una costante della politica globale: Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan (da dieci anni!), Libia, per non parlare dei conflitti striscianti, ufficiosi e non dichiarati (Yemen, Pakistan), dei periodici interventi francesi in Africa, del pattugliamento dell’Oceano indiano e, naturalmente, della guerra infinita, a intensità variabile, in Palestina. Senza contare le guerre che si annunciano, a cominciare dalla Siria.
Ora gli italiani, che un tempo si vantavano di essere buoni e pacifici (avendo rimosso unanimemente il loro passato coloniale, tardivo e sanguinario), si trovano immersi tranquillamente nei conflitti in corso, senza distinzione tra governi di centrosinistra e centrodestra. Combattono e bombardano in Afghanistan, come hanno fatto in Kosovo, Libia e Iraq. Partecipano a manovre militari con gli alleati Nato e con Israele, che alla Nato in teoria è estraneo. Si dotano delle armi più sofisticate, ovviamente pagandole a caro prezzo ai fornitori americani. E ora, con il cosiddetto governo tecnico, hanno come ministro della difesa un ammiraglio, organico alla Nato. Più militaristi di così…
Il bello (il brutto) è che tutto questo non sembra preoccupare nessuno. Non certamente i partiti che oggi sostengono il governo. Non le supreme autorità dello stato. E nemmeno l’opposizione, parlamentare e non, che a parte qualche dichiarazione rituale, considera la politica estera un interesse secondario e poco remunerativo. «Abbiamo ben altre gatte da pelare», si direbbe che pensino tutti tra spread, debito pubblico che non diminuisce e la politica dei tagli. Così della guerra non si parla e, se mai accade, se ne parla con eufemismi e giri di parole. Stiamo bombardando l’Afghanistan, ammazzando inevitabilmente la nostra parte di civili, e si direbbe che siamo là a fare i cooperanti.

Il crack finanziario del 2007 e la “sconfitta” del neoliberismo

di Antiper*

Secondo la quasi totalità dei commentatori “anti-neo-liberisti” il crack finanziario del 2007 - quello, per intenderci, dei “mutui subprime” - costituirebbe un'evidente sconfitta storica e teorica del neo-liberismo dal momento che quella crisi avrebbe dimostrato inequivocabilmente come il sistema finanziario americano e internazionale siano potuti sopravvivere al proprio collasso solo grazie al massiccio intervento diretto degli Stati. E, quando lo Stato interviene – deducono gli anti-neo-liberisti - il neo-liberismo è fritto

La prima proposta di intervento statale su vasta scala per sostenere Wall Street dopo il crack della banca di investimenti “Lehman Brothers”, nel settembre 2008, venne avanzata nei giorni immediatamente successivi e inizialmente respinta dal Congresso; fu poi approvata e perfezionata in una gigantesca operazione di “tamponamento falle” (il TARP1) che i giornali dell'establishment politico ed economico denunciarono come “statalista” e “socialista”. Come era prevedibile, Marx fu messo sulla copertina del Time, nonostante che egli fosse, più che un sostenitore dell'intervento in economia dello Stato borghese-capitalistico, piuttosto un sostenitore della distruzione di tale Stato. Ma tant'è...
Di recente2, l'Economist ha parlato di “capitalismo di stato” e di “mano visibile”3 (parafrasando ironicamente Adam Smith) in relazione, oltre che alla politica economica degli USA, a quella dei paesi emergenti (Cina, Russia, India...) mettendo a fuoco una parte del problema che abbiamo di fronte: Stato e mercato sono davvero antitetici come parrebbero suggerire le opposte ideologie del (neo) liberismo e dell'anti (neo) liberismo?
In termini accademici, formalmente, i (neo) liberisti sembrerebbero fautori del non intervento dello Stato in economia e del principio di sussidiarietà4, mentre gli anti (neo) liberisti sembrerebbero pensarla all'opposto.
Alcuni anti-neo-liberisti sono favorevoli all'intervento dello Stato in funzione anti-ciclica (per sostenere la domanda aggregata nei periodi di crisi e calmierare l'inflazione nei periodi di boom); altri chiedono la re-distribuzione del reddito nazionale a favore dei lavoratori per sostenerne i consumi... Ci sono “keynesiani di destra” che chiedono soldi per le imprese e “keynesiani di sinistra” che chiedono soldi per i lavoratori... Ma tutti, sia pure in modo diverso, chiedono l'intervento dello Stato e pensano che questo intervento, direttamente o indirettamente (come nel caso della favola keynesiana del sostegno agli investimenti che crea “pieno impiego”), finisce per favorire i lavoratori.
Di più. Nella variegata area anti-neo-liberista si è consolidata la bislacca idea secondo cui tra Stato e Mercato esisterebbe una relazione di questo tipo: più Stato uguale meno mercato, e viceversa. E poiché il “libero mercato” - ovvero la presunta “assenza di intervento dello Stato” - è una cosa brutta (ricerca del massimo profitto, altissima competizione, massimo sfruttamento dei lavoratori, ecc...) lo Stato – o, per meglio dire, l'intervento dello Stato - finisce per essere, al contrario, una cosa bella. Dunque – dicono gli anti-neo-liberisti - se gli Stati tornano protagonisti il neo-liberismo è finito. Ma le cose stanno davvero così?

sabato 14 luglio 2012

Devastazione e saccheggio

di Girolamo De Michele

Cos’è lo Stato presente? “Una specie di intersezione abborracciata di desideri e paure, dove l’unica forma di consenso pubblico a cui il ragazzo ben disciplinato deve arrendersi è la supremazia riconosciuta della ricerca diretta di quest’idea miope e piatta della felicità individuale” (David Foster Wallace)

Devastazione e saccheggio: è questa la formula entro la quale la Cassazione ha, in via definitiva, rinchiuso e circoscritto ciò che accadde nei tre giorni del G8 2001 a Genova. Al di là dei tecnicismi giuridici che hanno portato alla modifica della sentenza di secondo grado – peraltro lieve in termini formali, e difficile da percepire per le vite e i destini dei 10 compagni colpevoli di essersi fatti catturare –, il significato tutto politico di questa sentenza resta, ed è inequivocabile.
Era indispensabile, dopo la sentenza sulla macelleria messicana della scuola Diaz e sul lager di Bolzaneto, sanzionare che a Genova c’era una situazione di guerra, o poco meno: a futura tutela di eventuali azioni giuridiche nei confronti delle forze e dei tutori dell’ordine costituito. A quanto pare, i macellai della Diaz sono colpevoli non per aver fatto ciò che hanno fatto, ma per averlo fatto nei confronti di un centinaio di innocenti: avessero scelto meglio i loro bersagli, avessero scaricato il loro sadismo nei confronti dei tanti devastatori e saccheggiatori che si intuisce essere stati lì, a portata di mano, non avrebbero patito conseguenze giudiziarie. Fascista, ma anche un pò pirla, il loro daimon
Era altresì indispensabile, a futura tutela della necessità di condotte un po’ meno messicane (vogliamo dire: greche o spagnole?) che fosse evidente a tutti lo scambio, il pari-e-patta tra la condanna, indifferibile, dei violenti all’interno delle forze dell’ordine e la speculare condanna dei violenti all’interno del movimento: due anomalie da rimuovere in modo chirurgico, la cui asportazione giustifica il tornare a parlare del G8 di Genova dopo quasi un decennio nel corso del quale non il G8 in sé, ma la stessa città di Genova era scomparsa dalla televisione, dai notiziari, persino dalle location delle fiction. Adesso se ne può parlare (vivaddio, è pur sempre la città d’adozione di Fabio Fazio!), ma entro ben circoscritti confini.

sabato 7 luglio 2012

La storia si ripete. Riflessioni sulle conclusioni del summit europeo di fine giugno

di Andrea Fumagalli

Ritorniamo al vertice europeo con una analisi più puntuale, quella di Fumagalli -attento economista di UniNomade, sugli effetti degli accordi e che ognuno dei protagonisti di quel di Bruxelles rivendica a sé per mettere all’incasso politico il titolo di credito ricevuto. Intanto a dimostrazione dell’allineamento italiano ai diktat della troika, con l’intento di acquisire la patente di “paese virtuoso”, dopo le “riforme” su pensioni e lavoro (e la manovra finanziaria “da cura di cavallo”) poste in essere dai sapienti medici del governo tecnico, ecco la spending review che come obiettivo principale ha quello della sottrazione dei diritti e di colpire fasce sociali già avviate sul declivio dell’incertezza e della depauperizzazione
La chiusura del vertice europeo di Bruxelles del 28-29 giugno è stata salutata dalla stampa europea, e in particolare da quella italiana, come una svolta. La conferenza stampa finale ribadiva il cambiamento. Ma siamo certi che sia proprio così?
Due erano i principali punti all’ordine del giorno. Il primo doveva trattare delle situazioni nazionali che vivevano una particolare situazione di crisi, soprattutto nell’ambito del mercato del credito. I riflettori erano puntati su Grecia, Spagna e Cipro. Con riferimento alla Grecia, si trattava di dare una risposta alla richiesta del nuovo governo ellenico, pressato da una crescente opposizione politica, di diluire nel tempo il piano, ancora di lacrime e sangue, di rientro del debito pubblico, in un contesto, comunque, in cui il commissariamento europeo, ledendo la sovranità greca sul solo lato della spesa, garantiva il reperimento della liquidità necessaria al pagamento degli interessi (da usura) alle banche creditrici di Germania e Francia. Ebbene, molto semplicemente tale richiesta non è stata nemmeno presa in considerazione. Si è preferito soffermarsi, invece, sul problema della sostenibilità finanziaria delle banche cipriote e spagnole. Al riguardo, con particolare riferimento alle banche spagnole (declassate più volte dalle agenzie di rating), oltre a confermare l’intervento dell’ammontare di circa 62 miliardi di euro deciso nelle settimane scorse sotto il patrocinio della BCE, si è provveduto a garantire e a definire il processo di ricapitalizzazione di alcune banche, anche attingendo al Fondo Salva Stati (come già dichiarato dal governatore Draghi). Questo aspetto è legato a una delle richieste che da più parti è stata sollevata negli ultimi giorni: quella di procedere a una unione bancaria europea.
L’idea è tanto semplice quanto perversa. Poiché, dopo 20 anni, ci si è resi conto che la sola Unione Monetaria non era sufficiente a fare da scudo alle pressioni speculative (nonostante quanto dichiarato più volte), allora si propone (sempre negli ambiti dell’oligarchia finanziaria) che un maggior coordinamento bancario a livello europeo possa costituire una sorta di scudo in grado di prevenire comportamenti opportunistici e speculativi. Di fatto, come ai tempi di Maastricht, lo scopo è quello di rinsaldare la struttura della governance finanziaria, oggi perno su cui ruota il processo di valorizzazione capitalistica. Tale strategia viene giustificata con l’argomentazione, tipicamente neo-liberista, che è il “mercato” come entità metafisica a volerlo. Nella realtà sappiamo bene che si tratta dell’ennesimo tentativo ribadire la forza dei dispositivi dominanti, nella stretta della crisi. Errare humanum est, perseverare diabolicum.

giovedì 5 luglio 2012

2/ Verso il 2013 - le elezioni politiche tra crisi europea e necessità dell'alternativa

da Globalproject

Facendo seguito all’appello del gruppo di amministratori veneti, oggetto di confronto lunedì scorso allo Sherwood Festival, sottoponiamo alla lettura il resoconto politico della discussione, la quale rimane aperta all’approfondimento di quanti, indipendentemente dalle loro specifiche posizioni sul terreno elettoralistico, intendono pronunciarsi sul rapporto  tra i movimenti e lo spazio della rappresentanza. I video integrale degli interventi possono essere consultati sul sito  www.globalproject.info
Centinaia di persone hanno affollato lo spazio dibattiti di Sherwood lunedì sera. La ragione c’era.
Gli ospiti, innanzitutto, che scegliendo di venirsi a confrontare pubblicamente sul palco dello Sherwood Festival, hanno implicitamente accettato di misurarsi su un terreno più diretto e meno retorico del solito. La presenza poi del compagno Panos Lamprou della Segreteria nazionale di Syriza e di Anghiris Panagopolus, invitati espressamente per raccontare l’esperienza innovativa della coalizione elettorale che alle ultime elezioni ha sbaragliato il Pasok fedele ai memorandum della troika europea, non dava adito a dubbi sulla volontà di costruire un dibattito serio, senza troppe mediazioni, attorno al tema delle prossime elezioni politiche del 2013.
Poteva essere interessante dunque, anche in un momento come questo, spesso dominato a sinistra dall’impotenza nei confronti del pensiero mainstream del partito Repubblica-PD-Napolitano, alfieri della reiterazione del montismo nazional popolare, oppure dall’autosufficenza minoritaria, buona per attendere in santa pace, chissà quando, tempi migliori per la riscossa comunista. Ma una speranza che il tempo da passare ad ascoltare non fosse buttato, la dava anche il contesto.
Come bene ha ricordato Vilma Mazza a nome di Sherwood, che ha organizzato l'incontro, è bene chiarire una questione: si può essere interessati, e molti lo sono, a ciò che accade sul terreno della governance che passa dunque sul piano elettorale, scegliendo di non esserne implicati, di essere esterni a quei processi. E perché dunque? Per una scelta di campo innanzitutto.
L’alternativa alla crisi e alla sua gestione in termini di politiche economiche e di comando, è soprattutto un terreno di conflitto. È  un processo, e non un’ora X o un evento, che va messo in moto a partire dalla società e dalle forme di vita e di azione politica di movimento che sono immediatamente anche forme di critica radicale ai meccanismi della politica dei partiti, delle istituzioni e del voto.
Se parliamo di crisi sistemica e al suo interno scorgiamo tutte le avvisaglie di una postdemocrazia istituzionale, non possiamo dunque eludere il nodo che esistono dei campi, appunto, anche contrapposti quando parliamo di movimenti e sistema della governance.
Non vi è un unicum, e soprattutto non vi sono scorciatoie: senza la movimentazione sociale di una radicale critica all’esistente, compreso il parlamentarismo e il sistema delega/partiti, nessuna alternativa può determinarsi.

lunedì 2 luglio 2012

Le vittorie di Pirro dell'Italia

di Riccardo Achilli

Smaltita la sbornia pallonara, dopo le quattro sberle ispaniche subite nella finale, probabilmente i media cominceranno ad interrogarsi seriamente sui “successi” ottenuti dal tecnocrate SuperMario al vertice europeo. Già ieri qualche giornalista di grido manifestava più di un dubbio sulla sconfitta della Merkel, pur mettendo in evidenza i risultati conseguiti dalla compagine governativa nostrana. Nel pezzo ripreso da Sinitrainrete.info, Riccardo Achilli -senza lasciarsi contagiare dalla vittoria italica sui panzer tedeschi- è stato tra i primi ad interrogarsi sulla portata delle decisioni al Consiglio Europeo della scorsa settimana, fornendoci un quadro meno esaltante di quanto trionfalisticamente ci hanno raccontato

Forse contagiati dalla vittoria della nazionale di calcio sulla Germania, i giornali italiani (come al solito allineati ai poteri forti) oggi sono tutti orientati verso un trionfalismo eccessivo rispetto ai risultati ottenuti da Monti nel Consiglio europeo di ieri. Certo, considerando che la Merkel aveva iniziato questo vertice con l’intenzione di non concedere assolutamente niente, si può anche dire che la miseria che Monti ha strappato (con l’appoggio determinante di Hollande, senza il quale non si sarebbe ottenuto neanche quel poco che si è ottenuto) sia una vittoria. Ma è una vittoria di Pirro.
Cosa avrebbe ottenuto di così strabiliante Monti?
La concessione più importante sembra essere quella del cosiddetto “meccanismo di stabilizzazione dello spread”. In soldoni, si tratta di prevedere che l’Efsf (European Financial Stability Facility) , che sarà presto sostituito dall’ESM (Meccanismo Europeo di Stabilità), acquisti una parte dei titoli pubblici emessi dai Paesi iper-indebitati, che però rispettino alla lettera le politiche di austerità imposte dal fiscal compact, al fine di ridurre i rendimenti. Da quel poco che filtra rispetto ai meccanismi attuativi concreti, che dovranno essere messi a punto entro dicembre, questo meccanismo sembra poco più che una fumosa presa in giro, per tranquillizzare i mercati (che però si faranno tranquillizzare per poco tempo). Perché?
Perché intanto l’ESM non ha i soldi per effettuare una simile operazione di acquisto di titoli pubblici. L’ESM partirà con una dotazione di capitale di 700 miliardi. Con tale dotazione, potrà indebitarsi emettendo titoli, per poi utilizzare la raccolta per i molteplici fini demandatigli, ovvero l’erogazione di prestiti agli Stati membri in difficoltà, l’erogazione di aiuti per la stabilizzazione dei sistemi bancari (in particolare di quello spagnolo, sul bordo del tracollo), ed infine l’acquisto di titoli pubblici dei Paesi “virtuosi”, ma sottoposti ad un particolare stress sui rendimenti.



domenica 1 luglio 2012

1/ Verso il 2013 - per provare a cambiare davvero

Come costruire l'alternativa sul piano politico-istituzionale, senza essere minoritari né satelliti del PD?
Un appello alla discussione di amministratrici e amministratori del Nordest*
Dopo aver rilanciato l’intervento di Marco Revelli diamo spazio all’appello che ci giunge dal nordest firmato -come rilevano da Global Project- da “un nutrito e significativo gruppo di amministratrici e amministratori locali del Veneto”. L’appello sarà oggetto di confronto domani nel corso dello Sherwood Festival e vedrà impegnati nella discussione i compagni greci di Syriza oltre a Vendola, De Magistris e Bettin. Per quanto ci riguarda siamo interessati alla prospettiva di una sinistra alternativa che si lasci alle spalle le ipostatizzazioni organizzative otto-novecentesche e forse -come ci dicono i firmatari- questo è il momento

Perché il centrosinistra italiano non riesce ad esprimere il livello minimo di alterità rispetto alle politiche di “rigore” in Europa, su cui si sono attestate le sinistre socialdemocratiche e ambientaliste di tutto il Continente? E perché, nel nostro Paese, chi si dichiara portatore di un punto di vista alternativo non riesce mai a pensarsi (e ad agire di conseguenza) come alternativo al Partito Democratico nella costruzione di una proposta politica di governo?
E che cosa è il PD se non già in se stesso una coalizione di interessi e di culture politiche, spesso in aperta contraddizione tra loro, non solo l’ “amalgama mal riuscito” secondo un suo autorevole dirigente, ma una vera e propria “galassia”, un’aggregazione di differenti e variabili collocazioni, in cui ogni soggetto gioca di volta in volta il rapporto con le possibili alleanze in prevalente funzione del rafforzamento della propria posizione negli assetti interni?
Siamo amministratrici e amministratori locali e persone impegnate in diverse esperienze politiche e civiche nelle regioni del Nordest italiano, che guardano con prevalente attenzione a un cambiamento reale che parta dai conflitti e dai movimenti sociali. Sulla base di questo punto di vista, siamo interessati a capire e a interagire anche con quanto accade sul piano della politica istituzionale nell’epoca della crisi in cui il modello neoliberista ci ha precipitato, per aprire spazi più ampi a una prospettiva di radicale trasformazione ambientale e sociale.