giovedì 3 maggio 2012

RIFORMA CONTRO LA CONTRORIFORMA

di Carlo Guglielmi

un contributo sulla valutazioni del Disegno di legge 3249 che sarà tra i temi oggetto del dibattito di oggi nel corso dell’Assemblea romana indetta dal FORUM DEI DIRITTI 
Giorgio Manganelli (ne “la Metamorfosi del Gran Guaritore” ) scrive: “una legge giusta è più vessatoria di una legge ingiusta perché ti vuole suo complice”.  Ed è con questo segreto timore che chi scrive seguiva l’avvio del dibattito mass mediologico sulla “riforma del lavoro”. Nessuno, infatti, può negare il presupposto da cui nasce la necessità di una riforma  e cioè  il vero e proprio disastro compiuto dalle leggi che si sono succedute dalla fine degli anni 80 e poi con sempre maggiore velocità a partire dal 1997 con il famoso pacchetto Treu, e poi la riforma dei contratti a tempo determinato del 2001, la legge Biagi del 2003, il collegato lavoro del 2010 e il famigerato “art.8“ del 2011 per arrivare al cd Salva Italia del 2012 che imponendo l’età pensionabile più alta d’Europa ha definitivamente bloccato ogni possibile turn over (e questo per citare solo i provvedimenti principali voluti dalle forze che oggi sostengono il Governo). Si è infatti deciso di condannare le ultime due generazioni alla precarietà assoluta togliendo loro ogni  prospettiva di una costruzione di una “vita libera e dignitosa”. E le si è  usate per impoverire  di salario e diritti i lavoratori già nel mercato spingendo così l’imprenditoria italiana a competere sempre più sul costo del lavoro e la disciplina di fabbrica  abbandonando ogni seria innovazione di prodotto o processo e ogni politica industriale e di ricerca. E da ciò è conseguito il progressivo e inarrestabile tracollo contemporaneo della capacità produttiva del paese, dei consumi e della democrazia nel suo insieme che era stata disegnata dalla Carta proprio fondandola sulla capacità di  sorveglianza ed espansione della stessa ad opera delle lavoratrici e dei lavoratori. In questo quadro  una riforma che davvero mettesse fine al dilagare della precarietà (consentendo ai lavoratori una cornice di diritti condivisi da cui ripartire per la riconquista della dignità del lavoro con rinnovate regole  sulla loro capacità di effettiva rappresentanza) e che finalmente tendesse all’universalizzazione del riconoscimento del diritto  ad un reddito per consentire una vita libera e dignitosa anche a tutti i non occupati (all’interno di una rinnovata capacità del pubblico di orientare lo sviluppo nell’economia reale privilegiando ricerca,  sviluppo di qualità   e progressiva conversione ecologica) di certo avrebbe potuto in astratto legittimare rinunce anche importanti a rendite di posizioni cristallizzate a tutti gli attori chiamati a giocare la partita di un mercato più giusto (non solo lavoratori e datori cioè, ma anche sindacati, pubblica amministrazione,  giudici, avvocati, partiti ed enti locali).
Ebbene dopo aver letto il Disegno di legge 3249, meglio noto come “Riforma Monti – Fornero” (finalmente reso pubblico dopo molti mesi di sole battute giornalistiche), l’unico favorevole apprezzamento che si può fare è che ci evita completamente di correre il rischio evidenziato da Manganelli. E’ infatti una riforma profondamente  ingiusta che quindi non consente a nessuno che davvero abbia a cuore le premesse da cui è  partita di  essere “complice” della stessa.


1. Sulla cd “flessibilità in entrata”
Al riguardo si rileva come rimanga pressoché intatto l’immane supermarket della precarietà disegnato dal Dlgs 276/2003 semplicemente prevedendosi un’ipotesi di  parziale trasferimento di precariato  dal lavoro (finto) autonomo al lavoro subordinato (finto) a termine. Ed infatti la decisione di rendere possibile la copertura del posto di lavoro più stabile immaginabile con contratti a termine o in somministrazione accendibili in assenza di qualsivoglia “esigenza di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” purché di durata non superiore a “sei  mesi” (che però possono comunque in assenza di proroga proseguire per altri “50 giorni” senza dar luogo a conversione) ci esenta dal valutare più nel dettaglio la cosmesi operata su alcuni altri istituti della cosiddetta “flessibilità in entrata”, che per altro una lettura sincera dei dati ci dice che è anche e soprattutto una “flessibilità in uscita” essendo una minoranza i contratti precari che divengono autonomamente stabili. Se poi si pone mente che non è stata introdotta alcuna norma di salvaguardia analoga a quella prevista per l’apprendistato all’art. 5 (che impone come  “l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 50 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro”), ciò significa che al momento di eventuale entrata in vigore della presente normativa un datore di lavoro, del tutto legittimamente, potrà costruire pressoché la propria intera forza lavoro di basso livello su contratti precari purché ogni sei mesi li sostituisca (utilizzando i “50 giorni” di sforamento graziosamente concessi per il passaggio delle consegne e una breve formazione che gli uscenti dovranno fornire agli entranti).  Esattamente come la legge 247/2007 nell’introdurre il limite dei “36 mesi” massimi nell’utilizzazione dello stesso lavoratore a termine ad opera del medesimo datore non ha pacificamente prodotto nessuna stabilizzazione bensì solo una ulteriore ”precarizzazione del precariato” con sostituzione della forza lavoro  non appena giunta al suo limite di “scadenza” , ugualmente l’unico esito della attuale riforma Fornero - non appena andrà davvero a regime - è accorciare ulteriormente la scadenza del prodotto lavoro a solo sei mesi (ancorchè graziosamente consumabile pure  nei 50 giorni successivi). Non a caso gli alti lai della Confindustria, al netto dell’inevitabile gioco delle parti, riguardano essenzialmente  una partita emendativa che tolga il modesto maggior costo del lavoro subordinato a termine acausale (che per altro non finisce nelle tasche dei precari), che allunghi di qualche mese la durata solo semestrale del turn over (che potrebbe qua e la costare qualche sbaglio o qualche eccessiva fatica nel trovare il sostituto giusto in così poco tempo), e  che ammorbidisca la disciplina sulle false partite iva in quanto riferentisi a quelle   maggiori professionalità (del tutto minoritarie) che non si consumano in sei mesi e la cui integrale “spremitura a freddo” necessita di qualche anno.    Chi crede nei presupposti da cui la riforma dichiarava di voler partire a questo gioco emendativo si deve sottrarre. Se si vuole un mercato del lavoro più giusto (e che al contempo rilanci lo sviluppo) il primo necessario passo è strappare questo testo e ricominciare. Nel curioso dibattito mas mediatico italiano si prova a distinguere tra una flessibilità buona ed una cattiva; chi scrive non ha ben compreso cosa ciò significhi ma se proprio si deve inserire una distinzione si potrebbe dire che vi è una “flessibilità cattiva” ovverosia quella causata  da un sistema produttivo che non sa puntare sulla valorizzazione del lavoro ma solo sul suo basso costo e la sua ricattabilità, ed una “flessibilità pessima” e cioè quella di un legislatore che - invece di contrastare ciò - frantuma e riduce ancora più questa naturale tendenza del sistema produttivo italiano ed è proprio quella che si è perseguita con decenni di pessime leggi e che quest’ultima si appresta a portare al punto massimo.

2. Sulla cd “flessibilità in uscita”
La vulgata giornalistica sulla riforma all’art. 18 sostiene come l’unica novità che si intenderebbe  introdurre sia semplicemente la facoltà per il Giudice di ordinare - nei casi più dubbi - un indennizzo economico tra le 12 e le 24 mensilità in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro. Prescindendo ora dalla limitazione del risarcimento del danno inserita anche per il caso del reintegro (di cui parleremo a seguire), rileviamo come tale meccanismo sia effettivamente stato inserito ma solo “nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa” (art. 14, comma 4°) ovverosia nel caso di licenziamento disciplinare rivelatosi  illegittimo in corso di giudizio.  Ebbene tale previsione ovviamente ha il deliberato intento – e il conseguente effetto – di diminuire la tutela del lavoratore togliendo la certezza che anche in caso di accusa falsa o esagerata sia possibile ottenere con sicurezza la reintegrazione al contempo aumentando la ricattabilità sul posto di lavoro e l’arbitrarietà nelle conseguenti decisioni della magistratura. E con ciò si riesce finalmente ad intaccare – quale prima e non certo ultima tappa -   l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori,  ultimo presidio  di contrasto all’abuso nel rapporto di lavoro che le lotte dei lavoratori e la pubblica opinione erano riusciti a salvare da un trentennio di leggi di progressiva precarizzazione e impoverimento del lavoro. Obiettivo a cui va aggiunto per altro l’ulteriore allontanamento dell’Italia dall’Europa ove la cd “rigidità in uscita” è in media assai superiore a quella italiana.  Ebbene se la riforma fosse  tutta qui sarebbe un vero disastro. Il punto è che non è tutta qui essendo assai peggiore e - per illustrare sinteticamente quanto - si possono allora affrontare i seguenti snodi della nuova normativa
a)    Licenziamenti discriminatori;
b)    Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo non di natura economica;
c)    Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di natura economica;
d)    Licenziamenti per vizi cd “formali”
e)    Licenziamenti collettivi.

Licenziamento discriminatorio e affini
Una delle più straordinarie menzogne prodottesi nel dibattito mass mediatico che si è trascinato nel paese dallo scorso gennaio riguardava queste due affermazioni
-    l’art. 18 viene integralmente salvato per quanto attiene ai “licenziamenti discriminatori”;
-    ed anzi lo stesso è meritoriamente esteso anche alle aziende con meno di quindici dipendenti.
Entrambe le affermazioni sono straordinariamente false. Ed infatti l’art. 18 non si occupava di licenziamenti discriminatori la cui tutela era presente nel nostro ordinamento da ben prima dello Statuto dei Lavoratori essendo stata introdotta con l’art. 4 della Legge 604 del 1966 (che ovviamente riguardava tutte le imprese a prescindere dal numero dei dipendenti) il quale recita come segue: “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali é nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”. Ciò significa che nel caso l’art. 18 venisse integralmente abrogato senza sostituirlo con nessun altra disposizione il divieto permarrebbe ugualmente, ed anzi la normativa di risulta sarebbe di maggior favore. Ed infatti la disciplina codicistica  relativamente agli atti di recesso nullo da un contratto di durata comporta comunque il ripristino del rapporto ed il risarcimento dell’intero danno che invece  risulta in ogni caso limitata affermando il comma 4° del nuovo art. 18 come “in ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”, e ciò quand’anche il processo dovesse durare ben di più in costanza di disoccupazione del lavoratore licenziato discriminatoriamente. E a ciò si aggiunge come venga  inserita la previsione (si veda art. 19 III comma) per cui anche in caso di sentenza di reintegro ex art. 18 in sede di appello “alla prima udienza, la corte può sospendere l’efficacia della sentenza reclamata se ricorrono gravi motivi” (potestà che sino ad oggi la Giurisprudenza ha sempre escluso), con l’effetto che se poi dovesse invece essere confermata la sentenza del primo grado anche le retribuzioni intercorrenti dall’inibitoria alla sentenza risulteranno definitivamente perse.  Va per altro aggiunto come il legislatore neppure volendo avrebbe potuto non offrire tutela a tali licenziamenti – di per sé da sempre vietati dal combinato disposto dell’art. 1322 c.c. che consente di dare valore giuridico ai negozi solo qualora “siano diretti a realizzare interessi  meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico” e dai principi della Carta Costituzionale – alla luce dei reiterati regolamenti della Comunità Europea. Ed anzi va detto come il Governo, limitandosi sostanzialmente a richiamare la nozione di licenziamento discriminatorio del 1966  - a cui aggiunge l’inevitabile richiamo  al licenziamento a causa di matrimonio (si presume tale se intimato tra la richiesta di pubblicazioni e un anno dopo la celebrazione) , per gravidanza o adozione (fino ad un anno d’età o dell’ingresso nel nucleo familiare del bambino)  e collegati all’utilizzo del congedo parentale ;  per motivo illecito unico e determinante  - manca l’occasione di attualizzare la nozione proprio alla luce dell’evoluzione Giurisprudenziale e Comunitaria. Ed infatti  con i decreti legislativi 216/2003 e 150/2011 (di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) si sancisce il principio generale di parità di trattamento, precisando all’art.2 la nozione di discriminazione e all’art.3 il suo ambito di applicazione. E proprio tale normativa di recepimento della disciplina comunitaria impone al Giudice di tenere conto ai fini della valutazione della discriminazione “che l'atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento” (art. 4, comma 6 Dlgs 216/2003). E per altro proprio tale risultato era stato già raggiunto in via ermeneutica dalla Giurisprudenza maggiormente sensibile ai valori costituzionali affermando essa  l’equiparazione normativa del licenziamento ritorsivo o di rappresaglia al licenziamento discriminatorio, interpretazione da oggi resa più difficile dalla mancato espresso inserimento di tale casuale (di gran lunga la più frequente tra i motivi di licenziamento discriminatorio) nel nuovo testo normativo. Insomma il nuovo art 18 non solo non estende la tutela ma la riduce pericolosamente anche per i licenziamenti discriminatori.

Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo non di natura economica
La categoria del  licenziamento per motivo oggettivo riguarda quei licenziamenti non causati da una condotta colposa o dolosa del lavoratore ma da condizioni “oggettive”.  Al riguardo il nuovo testo dell’art. 18  disciplina separatamente quelli legati alla soppressione del posto di lavoro da quelli invece connessi al lavoratore ma per condotte che non possono essere ad egli addebitate a titolo di colpa e cioè a) i lavoratori che diventano inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia  b) i disabili obbligatoriamente assunti, in caso di aggravamento o di variazioni dell’organizzazione del lavoro, sia ove gli stessi abbiano chiesto l’accertamento della compatibilità delle mansioni affidate con le proprie condizioni di salute, sia ove il datore di lavoro abbia ritenuto di non poterli più utilizzare  in azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro ;  c) i lavoratori con sopravvenuta inidoneità fisica o psichica; d) i casi di superamento del periodo massimo di conservazione del posto in caso di malattia.
Ebbene in tali casi obiettivamente o la causale del licenziamento è vera (il lavoratore portatore di handicap si  è davvero aggravato divenendo inabile o inidoneo, davvero non vi sono mansioni compatibili e davvero il lavoratore è stato assente per malattia oltre il limite massimo previsto dalla contrattazione per la conservazione del suo posto di lavoro) e allora il licenziamento è legittimo ed egli nulla deve avere dal datore. Ma se le causali non sono vere (oppure se la malattia o invalidità è stata colposamente o dolosamente cagionata dal datore) allora non vi è davvero dubbio che tali licenziamenti siano stati intimati con l’unico motivo illecito della non piena condizione di salute dei lavoratori. Ebbene non aver inserito tali recessi nelle previsioni dettate per i licenziamenti discriminatori e averne invece  equiparato la tutela a quelli per motivi disciplinari (?!) rende bene  il grado di ferocia della nuova normativa. Ciò che si suggerisce – infatti – è che i malati e i portatori di handicap  sono oggettivamente un peso per la competitività delle aziende, e quindi o la loro malattia è in via di guarigione e il loro handicap lieve (e allora possono ambire al reintegro) oppure si accontentino di una sommetta e stiano a casa nella speranza di un sussidio pubblico.
Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di natura economica
Tali licenziamenti sono invece quelli che l’art. 3 seconda parte della legge n. 604/1966 definisce  come determinati “da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Ebbene in tali casi – qualora il motivo posto a fondamento del recesso sia falso o comunque non bastevole a sorreggere la liceità del recesso – viene previsto il mero indennizzo da 12 a 24 mensilità aggiungendo la norma (al 7° comma del nuovo testo dell’art. 18) come il Giudice, però, “può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
Tale formulazione ovviamente non solo è deprecabile perché sostanzialmente pare invertire la norma (reintegro) con l’eccezione (indennizzo) ma desta davvero sconcerto per due motivazioni
>    dapprima perché a memoria di chi scrive è la prima volta che viene utilizzato nella disciplina lavoristica il verbo “può” in relazione alla risposta sanzionatoria che un Giudice deve dare ad una condotta prevista come illegittima dalla legge. Ed infatti – in assenza di migliore specificazione – ciò che si suggerisce al Giudicante non è che egli “possa” in quanto “abbia il potere”, ma possa in quanto “abbia una mera facoltà potestativa” e quindi che anche nel caso in cui sia stata accertata “la manifesta insussistenza del fatto”  egli comunque “può” non ordinare la reintegra. Tale previsione trasformerebbe quindi il giudizio non più reso secondo diritto ma secondo “equità” non solo stravolgendo il ruolo della giurisdizione e la certezza del diritto ma di fatto sottraendo a lavoratore ogni grado di gravame; ed infatti se il Giudice del primo grado “può” e non “deve” nessun vizio della sua decisione può essere impugnato in Appello e in Cassazione.
>   Ugualmente sconcertante appare il discrimine tra la tutela “forte” (la reintegra) e quella “debole” (l’indennizzo), ovverosia il ricorrere dell’ipotesi per cui  si accerti “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. Ed infatti se mai si volesse trovare una differenziazione meritevole di tutela si dovrebbe distinguere i casi in cui il datore avrebbe potuto conservare il posto di lavoro del lavoratore licenziato senza particolare sforzo (ad esempio adibendolo ad altra attività scoperta  per cui egli era già dotato di idonea professionalità) o se invece la conservazione del posto di lavoro, ancorché in astratto possibile,  avrebbe comportato un apprezzabile sacrificio del datore (ad esempio prevedendo una particolare e onerosa riqualificazione del lavoratore o modificando ancorché in via marginale l’organizzazione o gli orari del lavoro al fine di riattribuire mansioni al lavoratore risultato in esubero a causa di “ragioni inerenti all'attività produttiva”). Ed invece tale vaglio viene vietato al Giudicante ribadendosi il limite “al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro” e addirittura prevedendo come se la sentenza mai provasse a valutare quanto agevole sarebbe stato per il datore conservare il posto di lavoro del dipendente questo addirittura “costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto» . E dopo aver fatto ciò, invece, si sceglie di tutelare la meno meritevole delle ragioni ovverosia la maggiore o minore bravura dal datore nel non rendere “manifesta” l’illegittimità del licenziamento premiando furbizia e scorrettezza (quando non proprio pratiche di alterazione del materiale processuale penalmente rilevanti) e penalizzando lavoratori e datori in buona fede.
A ciò va però aggiunto come la norma aggiunga che anche nel caso di licenziamento per motivi economici “qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo”.
Tale passo è certo assai rilevante in quanto attesta la piena consapevolezza del Governo del fatto che la disciplina di tutela contro i licenziamento economici fasulli, attribuendo al datore la facoltà di nominare il recesso e per ciò solo scegliere una tutela  affievolita per il lavoratore in  caso di impugnativa e successivo accoglimento della controversia, apra un autostrada per nascondere sotto tale etichetta qualsiasi motivazione di recesso a partire dalle più abiette.
Ma per illustrare l’efficacia della norma per contrastare tali prevedibilissime pratiche  pare opportuno affrontare

Licenziamenti per vizi cd “formali”
Ebbene ricordiamo come il processo del lavoro sia orientato a concentrazione e speditezza, e molto più lo sarà con la nuova procedura dettata dalla riforma (si veda art 13) che impone al lavoratore di depositare il proprio ricorso giudiziario entro 180 giorni dal recesso indicando sin da tale data tutti gli elementi in fatto ed in diritto a sostegno della propria pretesa e tutti i relativi mezzi di prova, prevedendo gli art. 413 c.p.c. e ss una decadenza pressoché assoluta. Insomma tutto ciò che il lavoratore non dice e non si offre di provare con l’atto introduttivo del giudizio (che deve essere introdotto entro 180 giorni invece che entro 10 anni come avviene per le ordinarie controversie vertenti sull’applicazioni del contratto) non potrà più trovare ingresso nel processo.
Ecco perché l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori impone l’obbligo della previa e specifica contestazione dell’addebito prima di ogni licenziamento disciplinare. Ecco perché l’art. 2 della L.604/66 imponeva l’obbligo per il datore di inviare le motivazioni del recesso in ogni altro caso su semplice richiesta del lavoratore, e perché tale previsione viene oggi  meritoriamente rafforzata imponendo al datore sin da prima del licenziamento di  comunicare al lavoratore in forma scritta “l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato” (art. 13 punto 2).
Ed ecco perché sino ad oggi la mancata previa contestazione dell’addebito disciplinare o il mancato invio dei motivo del licenziamento per motivi oggettivi hanno portato sempre e comunque alla declaratoria di nullità/inefficacia del recesso con applicazione della piena tutela. Ed infatti la mancata comunicazione dei motivi rende letteralmente impossibile al lavoratore approntare qualsivoglia difesa per illustrare la nullità/inefficacia/illegittimità del licenziamento dato che potrà apprendere le motivazioni del recesso solo al momento della costituzione in giudizio del datore quando egli sarà definitivamente decaduto da qualsivoglia contro argomentazione o prova.
Ebbene l’aspetto certamente più sconvolgente della riforma, e che davvero da il segno del degrado verso cui si tende, è che la riforma prevede che nelle ipotesi in cui datore abbia volutamente violato tali obblighi di motivazione decidendo di tenere integralmente all’oscuro il lavoratore dai motivi del recesso “si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo”.
Ebbene sì, qui siamo al dileggio! Da un lato si rafforzano le decadenze per il lavoratore in modo che egli nulla possa dire e provare dopo quanto ha scritto con il ricorso da depositare entro 180 giorni, quindi si afferma che la tutela piena è concedibile al lavoratore solo in base agli accertamenti che il Giudice farà “sulla base della domanda del lavoratore” e dall’altro gli si impedisce di avanzare “tale domanda” costringendolo a ricorrere al buio senza neppure conoscere la “colpa” di cui è accusato o le ragioni oggettive a fondamento del suo licenziamento. Si sceglie così di   premiare con una piccolissima “multa” l’imprenditore scorretto che si rifiuta di motivare il recesso nella certezza che “motivandolo” solo al momento della costituzione in giudizio (quando nulla più il lavoratore potrò replicare) se gli va bene rischia solo sei mensilità ma se gli va male di certo comunque impedirà per sempre al lavoratore di dimostrare la discriminatorietà, la palese insussistenza o comunque la propria totale estraneità al fatto tardivamente imputato,  in ogni caso liberandosi così da ogni rischio di reintegra. Una vera e propria norma “criminogena” finalizzata a premiare le più scorrette pratiche e penalizzare gli imprenditori in buona fede che si atterranno all’obbligo legale di giustificazione. E l’aspetto che avrà un effetto di reale destrutturazione dell’attuale composizione della forza lavoro è l’estensione di tale norma (ancorché con improprio riferimento al terzo periodo del comma sette che disciplina l’indennizzo tra 12 e 24 mensilità) a

I licenziamenti collettivi
L’art. 15 del disegno di legge infatti interviene anche sulla disciplina dei licenziamenti collettivi. Al riguardo ricordiamo come essi (introdotti nella normativa dalla legge 223 del 1991) sono quei licenziamenti che riguardano oltre 4 lavoratori licenziati per motivi economici nell’arco di 120 giorni. In tale caso non occorre il ricorrere di alcuna condizione oggettiva venendo nei fatti riconosciuto il diritto del datore alla scelta sulla complessiva quantificazione del personale necessario al suo agire di impresa. Ed ecco perché in tali casi al diritto soggettivo del lavoratore alla conservazione del posto del lavoro si sostituisce l’interesse legittimo dello stesso alla trasparenza della procedura.  In altre parole nel caso di licenziamenti collettivi non si discute mai – al contrario di quanto accade in quelli individuali- sul “se” licenziare ma solo sul “quanti” licenziare (il cui vaglio è rimesso al necessario confronto con le organizzazioni sindacali sulla base della necessarie previe informazioni che l’imprenditore dovrà loro fornire ) e soprattutto sul “chi” licenziare (dovendo l’imprenditore non già scegliere arbitrariamente i dipendenti più sgraditi ma stabilire “criteri” oggettivi per scegliere i lavoratori da licenziare e quindi comunicare in forma scritta  la “puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta”).
Ebbene la ormai consolidata Giurisprudenza   afferma come - proprio perché l’unica tutela del posto di lavoro del dipendente è la trasparenza della procedura -  il licenziamento è illegittimo e il lavoratore va reintegrato quando
-    non sia stato possibile affrontare con le organizzazioni sindacali la questione relativa a “quanti” lavoratori licenziare in quanto il datore si è rifiutato nella lettera di apertura della mobilità  di effettuare la specifica indicazione “dei motivi che determinano la situazione di eccedenza; dei motivi tecnici, organizzativi o produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, la dichiarazione di mobilità”;
-    non sia possibile comprendere “chi” licenziare essendosi l’imprenditore rifiutato di determinare oggetti “criteri” di scelta e/o poi  effettuare la “puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta”;
-    ed infine poi nel caso davvero residuale in cui il datore abbia invece effettuato tale “puntuale specificazione” ma si sia sbagliato licenziando il lavoratore Tizio al posto del lavoratore Caio (ed in tale caso con la stessa sentenza con cui si dichiara il diritto di Tizio al reintegra il Giudice deve disporre la cessazione del rapporto del lavoratore Caio).
Prevedendo poi la Giurisprudenza assolutamente maggioritaria,  sin dalla nota pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite 14616 del 15.10.02,  che una procedura con tali vizi “non è suscettibile di essere sanata dall’accordo  sindacale, in quanto compromette la tutela dell’interesse  primario del lavoratore ad una corretta instaurazione della procedura in cui si inserisce un atto (il recesso) per lui di massimo pregiudizio. …come già le Sezioni unite hanno avuto modo di precisare con la sentenza 11 maggio 2000, n. 302" (v. anche Cass. 7469/1998; 11759/1998; 265/1999)”, si veda sul punto tra le molte anche Cass. 11.4.2003 e Cass. 2 marzo 2009, n. 5034).
Ebbene in questo quadro, la nuova normativa
x.    prevede come  «Gli eventuali vizi della comunicazione di cui al comma 2 del presente articolo possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo», affermando così come la norma su perché e quanti lavoratori licenziare non è posta a tutela dei lavoratori stessi, come affermano ripetutamente le Sezioni Unite della Cassazione, ma a tutela dei prerogative delle organizzazioni sindacali che possono quindi liberamente disporne sanando successivamente qualsivoglia vizio (e incentivando così ogni sorta di pratica collusiva e corruttiva).
y.    Derubrica la via fraudolenta tramite cui le imprese effettuano vere e propri “pulizie etniche” scegliendosi uno per uno i lavoratori da licenziare non in base a criteri oggettivi ma del tutto arbitrari (malattie, gravidanze, piccole sanzioni disciplinari, rivendicazione di propri diritti, affiliazioni sindacali ecc.) da vizio principale - stante la ratio di tutela della trasparenza della procedura di cui alla L.223/1991 - a mero vizio di forma sanzionabile solo con “il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18” ovverosia con un indennizzo compreso  “dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione”;
z.    Ed infine salvando la reintegra solo nel caso davvero estremo di “violazione dei criteri di scelta” , ipotesi che - come si è detto - non produce alcun particolare danno al datore dato che la reintegrazione di un lavoratore coincide con la contemporanea espulsione di quello erroneamente salvato al suo posto, scaricando così sulle spalle dei lavoratori il peso di questa orrenda guerra tra poveri.

Sui cd  “ammortizzatori”
Se il profilo politico-culturale e il blocco sociale di riferimento del governo tecnico ben poteva far immaginare le sopradette iniziative di riforma in materia di rapporto di lavoro, talune affermazioni del Ministro del Lavoro lasciavano sperare qualcosa di meglio quanto meno sulla partita degli ammortizzatori. Ed è  rispetto ad esse che la delusione è ancor più cocente emergendo come  la tutela e il rilancio di ciò che resta del sistema industriale produttivo del paese e del  lavoro stabile e dignitoso non solo non è considerato un valore da difendere ma al contrario un obiettivo da abbattere.   La proposta eliminazione della indennità di mobilità per i lavoratori licenziati collettivamente significa non solo una drastica riduzione del periodo di sostegno ma il passaggio da una tutela posta a difesa dello status di lavoratore ad una elargizione di una modesta somma di denaro per dodici mesi (fino a 18 per gli ultracinquantacinquenni)  a chi, ormai disoccupato, viene lasciato nel libero mercato del lavoro per “incoraggiarlo” o, meglio, “costringerlo” ad abbassare le sue pretese, anche minime, per ricercare una nuova occupazione. Pretesa evidenziata con perfetto nitore dall’art 62 che prevede come il lavoratore decada da ogni trattamento qualora “non accetti una offerta di un lavoro inquadrato in un livello retributivo non inferiore del 20 per cento rispetto all’importo lordo dell’indennità cui ha diritto”. Attenzione; non inferiore del 20 per cento rispetto alla precedente retribuzione ma rispetto “all’importo lordo dell’indennità” che a sua volta è già (si veda art. 24) pari “al 75 per cento” della retribuzione e a cui si applica una ulteriore “riduzione del 15 per cento dopo i primi sei mesi di fruizione” e una ulteriore “del 15 per cento dopo il dodicesimo mese di fruizione”. Insomma un lavoratore licenziato che percepiva 1.000 euro decadrà dal trattamento qualora non accetterà un impiego per una retribuzione pari a €.433 lordi  e ciò del tutto a prescindere da che tipo di attività di tratti e con quale orario purché il posto di lavoro sia “raggiungibile mediamente in 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblici” che con il ritorno a casa fanno 160 minuti e cioè 3 ore solo di viaggio giornaliero casa/lavoro per poco più di 300 euro netti al mese. Una ferocia “workferistica” a cui non era giunto neppure Sacconi, non a caso accompagnata dal permanere dal requisito  di accesso al trattamento di sostegno al reddito di “due anni di assicurazione e almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione” (art.23), che lascia così ancora una volta l’Italia l’unico Stato europeo (con la non commendevole né casuale compagnia di Grecia e Bulgaria)  a non prevedere forme universali di sostegno al reddito. 
Ma a ciò va aggiunto come venga altresì eliminata la Cassa integrazione in caso di cessazione dell’attività.  In tali casi ciò che la storia italiana della “riconversione” produttiva ci ha insegnato è che solo la lotta dei lavoratori è riuscita a salvare dalla speculazione grandi insediamenti produttivi, vero e proprio patrimonio comune del paese e delle comunità locali su cui insistono.  Da domani i lavoratori intesi come comunità unita e come risorsa comune per tutelare e rilanciare il sistema produttivo in crisi non ci saranno più. Ci saranno solo licenziati ciascuno a casa propria (per chi ancora ce l’ha) con l’“aspi” a calare e per pochi mesi. La riconversione industriale resta quindi questione di speculatori edilizi ed amministratori locali corrotti. Non di “riforma” degli ammortizzatori sociali, dunque, il Governo dovrebbe parlare, ma di ritorno a liberali meccanismi assicurativi che di equo, secondo principi di giustizia sociale contenuti della Carta costituzionale, nulla hanno.
Insomma: occorre una riforma contro la controriforma del lavoro.