Partiamo da un assunto.
Nella riforma di Monti-Fornero, l'art.18 non c'è più,
nel senso che non c'è la certezza del diritto alla reintegrazione sul posto di
lavoro, nel caso di licenziamento illegittimo. Parlo non a caso di certezza del
diritto, perché nel testo si adombra solo una possibilità del giudice messo
nelle condizioni di non poter svolgere nemmeno una normale istruttoria, visto
che l'insussitenza della motivazione dev'essere manifesta (vedi articolo di
Bruno Tinti su Il fatto quotidiano dell'11 Aprile).
La maggioranza della CGIL sostiene che la nuova
formulazione ripristina un principio di civiltà giuridica perchè il nuovo testo
modifica il precedente,perchè un reintegro virtuale è sempre meglio di
niente,perchè non rompere con CISL e UIL è l'imperativo categorico, perché ogni
tanto intestarci una vittoria fa bene all'umore. Che la mediazione sia stata
fatta dal PD è un dettaglio, perchè tanto senza gli scioperi proclamati dalla
CGIL il PD quella battaglia non l'avrebbe né assunta né sostenuta.
Motivazioni comprensibili, ma politiciste, tattiche, di
posizionamento.Motivazioni di chi sa di essersi infilato in un ginepraio,dal quale ansiosamente vuole uscire.
Quell'ansia nasce dall'incertezza e dall'ambiguità del dover dire una cosa e in realtà farne un'altra. Non si spiega diversamente l'aver partecipato e contribuito a quella bizantina discussione sullo spacchettamento dell'articolo 18 che ci ha portato oggi alla semplice ed elementare costatazione che potrebbe esserci il reintegro per il licenziamento economico solo se manifestamente fosse chiaro che trattasi di licenziamento discriminatorio. Dal che si deduce che per il licenziamento economico il reintegro non è manifestamente contemplato.
Confusività ansiosa che pervade persino gli emendamenti CGIL presentati alla Commissione Lavoro del Senato,documento nel quale, sul punto licenziamenti si sostiene contemporaneamente che si è reintegrato il reintegro- e dunque la CGIL è soddisfatta- ma che la norma va praticamente riscritta- il che significa che forse la CGIL non è tanto soddisfatta. Nel caso, molto probabile, che i nostri emendamenti non vengano accolti, sarà interessante vedere con quale capriola ne veniamo fuori.
A questo punto sorgono spontanee due domande.
La prima:se l'obiettivo fondamentale è stare in pista e non isolarci, perchè non abbiamo proposto noi una modifica dell'art.18, stante, come pure ci è stato spiegato, che fa parte del secolo scorso, che i giovani non ci capiscono,che non si può andare più di tanto contro questo governo che ha così tanti consensi? Avremmo, come minimo, evitato di farci scippare, per la seconda volta dopo le pensioni, il tavolo della trattativa. E disegnato un profilo differente della CGIL: che cosa è meglio tra una CGIL che si assume la responsabilità di modificare una norma “identitaria” e una CGIL che prima ne dichiara l’intangibilità e poi si accontenta di averla salvicchiata?
La seconda:ora che stiamo, diciamo così, in pista che facciamo? Perchè se è legittimo e comprensibile per un sindacato voler essere centrale nella decisione e non più isolato, come col governo precedente,lo è molto meno pensare che la pista sia un fine e non un mezzo o, peggio,che ci possiamo accontentare di una CGIL che con interventi di piccolo cabotaggio riduce i danni prodotti dal Governo.
Al momento attuale, tale pervicace vocazione a uscire dall'angolo ha prodotto un accordo sulla contrattazione , allegramente scavalcato dall'art.8 della precedente legge di bilancio , delle decisioni massacranti sulle pensioni, assunti in lacrime dal Governo in beata solitudine e un provvedimento sul mercato del lavoro che aumenta la precarietà, riduce gli ammortizzatori e cancella l'art.18,per giunta con una trattativa politica dalla quale siamo stati graziosamente estromessi.
E non è finita.
Gli scenari economici nei quali operiamo sono dei peggiori:i diktat della Commissione Europea e della BCE sulla priorità del controllo e risanamento dei conti, fino al pareggio di bilancio in Costituzione, insieme al macigno costituito dal nostro debito pubblico e una recessione che non può che strutturarsi stanno massacrando la parte più debole del Paese, quella che noi dovremmo rappresentare.
Le fibrillazioni del quadro politico inaugurano una Terza Repubblica nella quale il livello esecutivo si fa vanto con fatti e parole di non dover rispondere agli elettori, intanto che, con fatti e senza parole, risponde ai nuclei forti di potere finanziario nostrani ,europei, internazionali.
Ad essere messa fortemente in crisi è la funzione stessa della rappresentanza.
La politica è oggettivamente indifendibile ma non illudiamoci di stare fuori da quest’onda anomala. Al contrario, lo spirito del tempo soffia forte e sta arrivando a travolgerci.
Dunque:la crisi è grave,le condizioni materiali delle persone che rappresentiamo devastanti,il quadro istituzionale in emergenza.
Questa, grossolanamente detta, la “pista” nella quale la CGIL ha –legittimamente- deciso di stare, senza, però, al momento far capire a se stessa e al mondo che cosa intende fare, quale l’asse strategico della sua azione, quali le soluzioni.
Abbiamo un’idea originale –e il Congresso alle nostre spalle ci aiuta poco con tutto quello che è successo nel frattempo- sui temi della finanza pubblica, della crescita e della rappresentanza?
La mia opinione è che occorre con coraggio misurarci su ipotesi di consolidamento/nazionalizzazione del debito pubblico, su interventi per la ripresa economica verso uno sviluppo sostenibile ma che l’emergenza oggi impone interventi redistributivi delle risorse e del lavoro, sul nesso tra diritti del lavoro e diritti di cittadinanza e dunque su un nuovo sistema di Welfare pubblico che fa letteralmente a cazzotti col pareggio di bilancio in Costituzione.
Così come penso che, mai come in questo momento, sia urgente una legge sulla rappresentanza, certezze e coerenze sulle procedure di contrattazione confederale e di categoria, e legittimità sulla base della reale e verificata rappresentatività.
Se c’è da ballare, balliamo, sapendo che l’unica forza che abbiamo è quella che ci viene dalle persone in carne e ossa, che ci chiedono non solo di assumere le loro difficoltà materiali, ma anche di consentire loro una vera partecipazione alle decisioni.
Senza questa forza, possiamo al massimo fare da tappezzeria.
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